Abbiamo visto “ A proposito di Davis “ diretto da Joel e Ethan Coen.

Ci sono registi che non sbagliano mai un film e quando ne esce uno è come andare ad un appuntamento con delle persone che si conoscono e di cui si stimano gli esercizi di stile, i pensieri narrativi, l’eleganza del tocco.  Mai una nota stonata, un eccesso gratuito, una slabbratura nella descrizione dei personaggi o nella costruzione dei dialoghi.   Nel mondo oramai ci sono milioni di spettatori che hanno scelto” Barton Fink “ o “ Mister Hula Hoop “, “ Fargo “ o “ Il grande Lebowski “, fino a “ Non è un paese per vecchi “, come pietre miliari del Cinema Contemporaneo.  Anche tipiche commedie americane di puro consumo come “ Prima ti sposo, poi ti rovino “ o “ Ladykillers “ lasciano comunque il segno per costruzione sapiente e perfetta conoscenza delle regole; insomma qualsiasi storia decidano di raccontare, compreso il remake di “ Ladykillers “ o “ El grinta “ trasformano le storie in pellicole preziose per accuratezza, raffinatezza e cinefilia.

Con quello che potremmo definire ‘ il tocco ‘ dei fratelli Coen – in questo caso più contenuto, privato, meno appariscente – giunge nelle nostre sale questo piccolo, perfetto film, un affresco del marginale ambiente della musica folk prima dell’arrivo di Bob Dylan e con alle spalle cantautori solidi come Woody Guthrie o Pete Seeger e Cisco Huston.  Anche qui – come con le storie della Beat Generation – c’è l’on the road, la ricerca spasmodica di un posto in cui andare e di trovare qualche soldo per poter pagare l’affitto o le bollette, ma invece che la ricerca del padre o le radici c’è uno scivolare sulle cose anche importanti ( l’amicizia tradita, l’aborto, il timore del fallimento, la perdita del senso d’amore ).  Un film ambientato nella New York dell’inverno del 1961 senza glamour o mitizzazioni, nonostante siamo nel Greenwich Village ( e il boom della musica folk che vedrà nascere superstar è ancora di là dal venire ); una storia che dura una settimana o poco meno e in cui assistiamo alla vita randagia e faticosa di un giovane cantante folk, Llewyn Davis ( ispirato al memoir del folk singer Dave Van Ronk – ” The Mayor of MacDougal Street “ scritto da Elijah Wald ).  Non siamo nel mondo dei cantanti emergenti dello show business né in quello randagio del jazz fatto di alberghi infimi e droghe  È quello invece degli anni bui e difficili di una piccola cerchia di giovani cantanti che si scambiano vecchie canzoni che sembrano comprendere solo loro e un piccolo pubblico a volte distratto.   Ragazzi senza la mitologia dei Dean Moriarty o degli Allen Ginsberg o dei Gregory Corso, ma giovani cresciuti nelle strade di New York, nei fabbricati squallidi delle periferie e in cerca attraverso la musica di una possibilità di fuga dal conformismo e  dai tempi oscuri che hanno caratterizzato tutti gli Anni Cinquanta.

Llewyn è un giovanotto sui venticinque anni, con un’anima malinconica, piuttosto egoista e con un carattere a volte ruvido.  Più che fare carriera nel mondo musicale, vorrebbe almeno sopravvivere economicamente, ma a quanto pare non ci riesce.  Sì, qualche piccolo spettacolo forse nemmeno pagato, qualche turno di registrazione di dischi di amici, ma il disco che ha inciso non ha venduto, il suo agente non gli dà che quaranta dollari quando chiede di essere pagato e passa da una casa ad un’altra per poter dormire su un divano o a terra.  Anche la sua vita personale è fallimentare, la donna, Jean ( Carey Mulligan ), fidanzata con il suo migliore amico ( Justin Timberlake ) è rimasta incinta di lui e vuole abortire, un’altra tagazza in precedenza che ha messo incinta invece di abortire se ne è andata via col bambino senza dirgli nulla, sua sorella lo detesta e lo caccia di casa.   In più è rimasto da solo dopo che ha abbandonato l’altra metà del suo duo musicale.  Insomma è un uomo con dei sensi di colpa che riesce però a reprimere, il suo insuccesso lo radicalizza nel purismo artistico ( si sente l’unico vero artista e snobba chi non suona e canta roba ” autentica ” e “ vera “ ) e a questo bisogna aggiungere che ha tendenze autodistruttive.  Litiga con una coppia di professori universitari che lo ospitano e sono sempre disponibili con lui, litiga con la sorella e cerca di spillare soldi all’amico per poter far abortire la sua compagna e incinta di lui.  Insomma vive in un mondo che non riesce a capire e che non lo capisce e quindi è in aperto contrasto.  Contrasto che sa anche di fallimento quando bisogna decidersi di fare delle scelte, infatti sembra voler abbandonare la musica e iniziare a lavorare su una nave come marinaio.  Ma il finale circolare ( elegantissimo ma anche forse inutilmente intellettuale ) lo riporta nel vicolo con il naso rotto come lo abbiamo visto all’inizio della storia.

Una storia minimale con un’evoluzione ‘ semplice ‘ ma ricca di dettagli psicologici e dei classici visi alla Coen, come alla Coen sono le insensatezze dei protagonisti che nascondono una qualche lucida follia o una qualche stupidità di fondo.  Un protagonista in fondo buono, divertente ma non particolarmente empatico, un bravo Oscar Isaac ( attore trentenne guatemalteco con all’attivo già una ventina di film da non protagonista ), con lui un gruppo d’attori bravi e convincenti ma tutti un po’ freddi se non algidi.  Da segnalare il bravissimo John Goodman nel quasi cameo del musicista jazz Roland Turner che sbeffeggia la musica folk, e il suo ” valletto ”  il taciturno Johnny Five ( Garrett Hedlund )

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