La sto­ria comin­cia con una depri­va­zione di iden­tità. Solo­mon Nor­thup, magni­fico vio­li­ni­sta afri­can ame­ri­can, nato libero nello stato di New York, amato e rispet­tato da tutti, viene rapito da due mer­canti di uomini, spo­gliato dei suoi docu­menti, e della sua iden­tità, por­tato in Loui­siana e ven­duto come schiavo. Siamo nel 1841, la scon­fitta del sud schia­vi­sta è ancora lon­tana. Solo­mon rimarrà dodici anni nelle pian­ta­gioni di cotone tor­nando libero con l’aiuto di un bianco (Brad Pitt) capace di vin­cere la paura di ritor­sioni schia­vi­ste forse per­ché canadese.

Ma Solo­mon, appunto, è nato libero, e la con­di­zione degli afri­can ame­ri­can in quella parte del paese gli è sco­no­sciuta. Le prime imma­gini nel suo nuovo stato lo mostrano occu­pare lo spa­zio cir­co­stante, lo spa­zio dell’inquadratura che lo mette sem­pre in primo piano su uno sfondo indi­stinto nel quale si muo­vono gli altri schiavi in modo sba­gliato. Tro­van­dosi cioè lad­dove non gli viene con­sen­tito: sugli sca­lini davanti alla casa dei padroni; in un atteg­gia­mento deci­sio­nale, di chi prende ini­zia­tive, mostra di sapere leg­gere e scri­vere, di essere una per­sona e non una cosa.

Pro­viamo a spo­stare le lan­cette tem­po­rali imma­gi­nando un uomo con­dotto inco­sciente nella Ger­ma­nia nazi­sta in campo di con­cen­tra­mento con la stella gialla cucita addosso. O un uomo che oggi sbarca sulle coste di un qual­siasi paese euro­peo spo­gliato della sua iden­tità, ridotto a un numero e per­ciò costretto per legge in uno spa­zio limi­tato. Reto­rica da buoni sen­ti­menti? Non troppo.

Chi­we­tel Eji­for, l’attore che inter­preta Solo­mon Nor­thup non ha mai l’aura dell’eroe, non è lo schiavo ribelle che spezza le catene come il Django Unchai­ned taran­ti­niano. Al con­tra­rio rimane con­tratto, pie­gato, inca­pace di fare fronte a que­sta improv­visa per­dita di libertà. E quando si muove lo fa male per­ché si muove da uomo libero. A volte è per­sino oppor­tu­ni­sta, impara subito a sal­va­guar­dare una pos­si­bile zona franca per proteggersi.

Pian piano però prende coscienza di cosa è, e del fatto che essere nato libero per ragioni «geo­gra­fi­che» non rap­pre­senta una rispo­sta alla neces­sità di una lotta con cui affer­mare uguali diritti per tutti. C’è un pas­sag­gio chiave nel film, quando Solo­mon al fune­rale di uno degli schiavi ammaz­zato dalla fatica di rac­co­gliere a suon di fru­state il cotone, fa un passo indie­tro; entra nel cer­chio degli altri, nel «popolo del blues», rico­no­scendo la sua appar­te­nenza. Solo allora potrà lot­tare almeno con­tro la sua disperazione.

Un film sulla schia­vitù 12 anni schiavo, con nove can­di­da­ture all’Oscar, del resto l’identità post­co­lo­niale è ele­mento cen­trale nell’opera di Steve McQueen. Insieme al corpo, carne, nervi sco­perti, san­gue, su cui l’artista inglese trac­cia, come in una car­to­gra­fia di dolore e vio­lenza, i pas­saggi della Sto­ria. Era il corpo scar­ni­fi­cato l’arma e il luogo sim­bo­lico di resi­stenza agli inglesi dell’irlandese Bobby Sands in Hun­ger. È ancora il corpo come mac­china ses­suale com­pul­siva — e mai desi­de­rante — il segno di un con­tem­po­ra­neo malato in Shame. Ed è il corpo, la carne nera aperta dalle fru­state su cui il rosso del san­gue acceca con mol­ti­pli­cata vio­lenza, che ci rac­conta qui la sopraf­fa­zione di un uomo sull’altro. Disu­mana eppure replicabile.

Sap­piamo che la sto­ria di Solo­mon Nor­thup è «vera», i titoli di coda ci dicono che dopo la libe­ra­zione, Solo­mon sarà un atti­vi­sta per i diritti degli afri­can ame­ri­cani fino alla morte. McQueen nella sua mes­sin­scena va oltre però l’esperienza reale, e tra­sforma il «romanzo di for­ma­zione» di Solo­mon nell’esplorazione men­tale della schia­vitù: cosa signi­fica essere schiavi nella testa prima che nel corpo, nella per­dita del sé, nella ras­se­gna­zione alle «regole» del sadi­smo (Lo schiavo ame­ri­cano di Comolli ci aveva già detto molto). Le linee lungo le quali si muove sono quelle di un pae­sag­gio ame­ri­cano visto nel «rove­scio» del mito, come con­qui­sta e mas­sa­cri — (Solo­mon a un certo punto incon­tra due nativi ame­ri­cani). Popo­lato di figure arche­tipe, da una parte come dall’altra, tra gli schiavi come tra i padroni. Il coro degli schiavi alle spalle di Solo­mon, la schiava che vuole essere come i bian­chi … E il padrone con­di­scen­dente (Bene­dict Cum­ber­batch) — che come dice a Solo­mon una gio­vane schiava è sem­pre uno schia­vi­sta difatti li tiene pri­gio­nieri. E quello sadico (l’icona del regi­sta Michael Fas­sben­der) che somi­glia a un Ss e la notte costringe i suoi schiavi ai festini. Ha una sua «favo­rita» ma non esita a fru­starla a morte.

Le paludi, i campi di cotone, le «capanne dello zio Tom» che fron­tal­mente McQueen visua­lizza nel film (con la foto­gra­fia di Sean Bob­bitt) , dise­gnano con ango­sciosa pre­ci­sione l’universo con­ce­tra­zio­na­rio e le sue dina­mi­che di annien­ta­mento. La schia­vitù viene messa a nudo nell’essenza pro­fonda, mostran­done la trama a venire: colo­nia­li­smo, società post­co­lo­niali, la lotta delle Pan­thers in Ame­rica, e dei neri in Gb, l’odierno raz­zi­smo quo­ti­diano. Senza reto­rica né consolazione.

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