Abbiamo visto “ A serious man “ diretto da Ethan Coen e Joel Coen.
I fratelli Coen li conosciamo tutti, sono dei grandissimi sceneggiatori e registi che non deludono mai. Joel, il maggiore è sempre accreditato come regista nei titoli dei film, mentre Ethan è il produttore, ma è noto che i due fanno tutto a quattro mani. Fatta eccezione per il loro penultimo film “ Non è un paese per vecchi “ che è una variante sul tema, i due brothers fanno da sempre lo stesso film almeno come tematica: i personaggi sono degli “ idioti “, quella middle class che vive ai margini non solo esistenziale delle periferie del Mondo Occidentale.
Lo erano i protagonisti del trittico splendido Mister Hula Hoop, Fargo, Il grande Lebowski, ma anche di Fratello dove sei e L’uomo che non c’era; per citare i film più recenti di questo registi cinquantenni. Lo è anche il protagonista, il serious man, Larry Gopnik e il piccolo mondo che lo circonda: l’amante della moglie, i figli, il cugino, l’avvocato, il medico, i colleghi e, soprattutto, quei rabbini che dovrebbero aiutare i loro fedeli e non si sa bene chi abbia potuto aiutare loro ad arrivare dove sono giunti. Degli ‘idioti’ che tuttavia non fanno sempre ridere e forse in alcuni punti possono irritare, mentre l’ironia del racconto si tramuta in alcuni passaggi in ansia se non in fastidio per il protagonista che sembra non reagire come nella classica tradizione ebraica.
Larry Gopnik è un uomo di circa quarant’anni, professore universitario di fisica ma non ancora di ruolo, ha poche pretese nella vita e alcune sicurezze. Vive in un piccolo centro del Mid West nel 1967. La moglie s’innamora dell’apparente e più concreto Sy Ableman e vuole un divorzio rituale per potersi risposarsi nella fede. Hanno due figli, un maschio e una femmina; il figlio, un anonimo adolescente dai capelli rossi, fuma spinelli e ascolta i Jefferson Airplane mentre attende di celebrare il suo Bar mitzvah; la figlia non si sa bene cosa faccia, sembra solo molto interessata a lavarsi i capelli e rubacchia il denaro al padre per rifarsi il naso, ma a sua volta è anche derubata dal fratello. Hanno un ospite da alcuni mesi, il cugino di Larry, ancora disperato dall’abbandono della moglie: russa sul divano, se ne sta in bagno per delle ore e scrive un diario sul calcolo delle probabilità.
A Larry capita di tutto, è cacciato dalla moglie di casa, deve riparare in un modesto motel con il cugino depresso, imbroglione, forse omosessuale e ricercato dalla polizia; uno studente coreano lo ricatta per una corruzione di cui lui non si è reso conto e lo minaccia di diffamazione; nei giorni successivi decideranno se verrà assunto definitivamente all’università, ma non presagisce nulla di buono; una ditta di dischi pretende dei soldi per delle consegne di cui lui non sa nulla; ha un incidente d’auto e la vettura si sfascia; e come se non bastasse deve attende l’esito di alcuni accertamenti sanitari. Travolto da tutti questi guai, Larry si rivolge a uno, due e tre rabbini per ascoltare la parola di Hashem e interpretare la sua volontà. Per fortuna che giunge un uragano e termina il film. Insomma, parafrasando Voltaire, questo è il più stupido dei mondi possibili, in cui solo un uomo modesto e mediocre riesce a sopravvivere, e in questo caso i protagonisti nuotano nella religione ebraica e in quel magma esistenziale. Questione di gusti, ma del mondo ebraico e delle sue contraddizioni preferiamo l’ironia spumeggiante di Woody Allen

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