Hyperion è il nome di una scuola di lingue aperta a Parigi negli anni ’70, che per alcuni fu il vero e segreto cervello delle Brigate Rosse. Questo è il racconto di un incontro con Corrado Simioni, fondatore di Hyperion. Simioni è scomparso nell’ottobre 2009. L’articolo è stato pubblicato nel novembre 2009 su L’Europeo.

L’arrivo.

Avvio il motore della macchina alle otto del mattino del 30 dicembre 2007, vigilia di capodanno. Raggiungerò il luogo in cui Corrado Simioni vive, una frazione collinare nel dipartimento della Drôme, Francia sud orientale, soltanto intorno alle sei di sera. Di Corrado Simioni si dice che sia stato, nei primi anni ’60, un militante della corrente autonomista del PSI. Dal quale poi venne espulso. Si dice che a Milano lavorò per L’Usis, un istituto culturale con compiti di diffusione della cultura americana nel mondo, ma all’occorrenza utilizzato in funzione anticomunista. Si dice che a Monaco di Baviera, alla metà degli anni ’60, lavorò per Radio Free Europe, emittente radiofonica foraggiata dalla Cia. Si dice che fu tra i relatori del convegno di Pecorile con il quale, nell’agosto 1970, si sciolse il Collettivo Politico Metropolitano e nacque il primo nucleo delle Brigate Rosse.

Si dice che dopo Pecorile Simioni si sarebbe posto alla testa di una compagine segreta, il Superclan, il cui obbiettivo era egemonizzare le principali sigle della sinistra extraparlamentare, e i cui componenti sarebbero rimasti uniti, nel tempo, da vincoli amicali indistruttibili. Il Superclan avrebbe poi tentato d’infiltrare le Brigate Rosse, di indirizzarle, fin dal tempo dei sequestri lampo e degli incendi delle auto dei dirigenti di fabbrica, verso forme di lotta estreme e contro obbiettivi Nato. Così racconta l’ex Br Alberto Franceschini. Poi, alla metà degli anni ’70, Simioni e il Superclan si trasferiscono a Parigi. Fondano prima l’associazione culturale Agorà, poi la scuola di lingue Hyperion. Hyperion che aprì e chiuse una sede di rappresentanza a Milano, in via Albani, e due a Roma, in viale Angelico e in via Nicotera, poco prima e immediatamente dopo il sequestro Moro e in palazzine gestite da società di copertura dei servizi segreti.

Secondo quanto affermato, tra gli altri, da Alberto Franceschini e da Sergio Flamigni, membro della commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro Moro, e da Giovanni Pellegrino, Presidente della commissione d’inchiesta sulle stragi, Hyperion potrebbe essere stato uno dei cervelli politici delle Brigate Rosse. I suoi uffici, si dice, furono attraversati da uomini dell’Olp, dell’Ira, della Raf, ma anche da agenti di Cia e Kgb. Furono, cioè, il piano attico in cui si sbrigarono alcune pratiche concernenti la guerra fredda. Nel film ‘Piazza delle cinque lune’, malgrado l’accento francese, il personaggio interpretato da Murray Abraham, che a Parigi incontra il magistrato interpretato da Donald Sutherland, corrisponde all’ambiente di Hyperion. “Quindi devo presumere che Hyperion, in qualche modo, abbia deciso il rapimento di Aldo Moro”, riflette il magistrato. “E’ Yalta che ha deciso il rapimento”, precisa l’altro. Anche Bettino Craxi, a suo tempo, in una certa intervista, evocò Parigi e il nome di Corrado Simioni: “Bisognerebbe andare indietro con la memoria, pensare a quei personaggi che avevano cominciato a fare politica con noi,  poi sono scomparsi, magari sono a Parigi a lavorare per il partito armato”. Il giorno seguente l’intervista viene smentita. E a chi si riferiva, allora, Bettino Craxi?

Simioni vive tuttora in Francia, nella Drôme, dov’è cresciuto il campione di rugby Sebsatian Chabal e dove da anni Simioni gestisce un piccolo agriturismo. Nei dintorni siti di età romana e preromana, e villaggi che furono teatro di scontri all’epoca delle guerre fra cattolici e luterani. E’ una terra scarsamente popolata. Fluorescenti distese di lavanda, in primavera, paesaggi spettrali in inverno. Per raggiungere l’agriturismo percorro chilometri fra selve, boschi e colline spoglie e intirizzite dal gelo. Nessuna abitazione, solo scheletrica boscaglia, battuta in questi giorni di fine dicembre dalle rasoiate di un vento gelido. L’agriturismo si trova all’interno di una vecchia fattoria in pietra. So che Simioni non potrà non sospettare dell’arrivo di un italiano che, per qualche implausibile ragione (‘Vivo a Milano, così volevo passare un paio di giorni in un posto tranquillo, lontano dal caos…’), ha pensato di prenotare una camera d’albergo, a cavallo di capodanno, in un luogo così remoto e appartato. Ho quindi assunto questo semplice dato, come una certezza, e facendone il regolo che dovrà aiutarmi a calibrare ogni parola, azione, gesto. So che verrò in qualche modo soppesato. Che andrà in scena, forse, una sorta di partita a scacchi. Infatti ci rifletto a lungo, in macchina, durante il viaggio, persino esaltato dalla possibilità d’incontrare un uomo di cui ho letto pagine e pagine in una quantità di libri, che sono i libri che compongono quella sciarada che è la storia recente italiana, e in particolare quella del caso Moro.

Sulla porta vengo accolto da Giulia Archer, la donna con cui Simioni vive da oltre trent’anni. Sorride luminosamente e mi fa strada lungo una scala che conduce al piano inferiore, dove vengo presentato a un uomo anziano, non una bellissima cera, ma dall’aria buffa, curiosamente compiaciuta, che siede su di una sedia a dondolo, circondato da amici. È Corrado Simioni. Seduti intorno a lui una coppia francese e il figlio, un bambino che gioca con una scacchiera elettronica. E poi un uomo molto elegante, originario del Mali, vestito in abiti tradizionali africani. È, come scoprirò in seguito, un ex militante politico, poi riparato a Parigi negli anni ’70 dove, nel corso dell’occupazione di uno stabile, conobbe Simioni e la Archer. Infine una donna di origini italiane e il marito, operaio in pensione. La sala è divisa dalla cucina da un bancone all’americana. C’è un tavolo centrale in legno, sotto il quale gironzola un bulldog, una vecchia vetrina, sedie impagliate, poltroncine, la sedia a dondolo dove ancora siede Simioni, lasciandosi cullare, come al ritmo segreto di una canzoncina di un tempo, e scaffali stipati di cd di classica e libri di cucina.

Alle pareti pupi siciliani e oggetti d’artigianato nepalese e tibetano, due Paesi che Simioni ha più volte visitato, racconta, per ragioni di studio e per il suo lavoro con ‘Emmaus’, associazione che si occupa di solidarietà e inclusione fondata dall’Abbè Pierre nel 1954 e della quale Simioni è stato un funzionario di primo piano. Dice di conoscere il tibetano, il tedesco, l’inglese, il latino, di avere nozioni di sanscrito, aramaico, esperanto. L’accoglienza è calorosa, anche se, dalla variabile geometria degli sguardi, da questi primi scambi di battute, ho la sensazione di venire un po’ squadrato, misurato.

Un grande gatto nero scende dalla scala e dopo aver miagolato, si ferma sull’ultimo gradino. Chiedo se il gatto e il bulldog siano in buoni rapporti e Simioni risponde che fra i due ‘c’è una situazione di guerra fredda’. Tutti ridono, compresa Giulia, che è una donna molto bella, attrezzata di fascino, di un sorriso improvviso e radioso, che a volte scarta in un contegno un po’ aspro. Sembra innamorata e piena di vita, di una gioia dura e rappresa. Dopo l’aperitivo scendiamo in taverna e mangiamo tutti insieme, intorno a un grande tavolo ovale. Mi siedo accanto a Corrado. La conversazione, rapidamente, muove sul suo passato. Mi racconta di essere nato a Venezia, dove di tanto in tanto torna con Giulia, per visitare chiese, musei. Amano l’architettura romanica, mi dice, sorridendo e masticando. Ogni tanto se ne vanno in giro per la Francia, per chiese romaniche. Simioni si trasferì giovanissimo a Milano, dove viveva il compagno della madre. Da bambino vide Meazza giocare allo stadio. Per questo diventò interista. Per il suo compleanno, racconta, ogni anno Massimo Moratti gli spedisce via fax un foglio con stampata la maglia dell’Inter e una dedica firmata. Mi racconta, in sequenza, mentre ancora mangiamo, di avere vissuto e studiato a Monaco di Baviera e alla Bocconi di Milano, di aver lavorato in Mondadori, sotto Elio Vittorini, occupandosi delle opere di Luigi Pirandello, di aver conosciuto Ernest Hemingway e Jean Paul Sartre, di aver personalmente conosciuto e tradotto lo psicoanalista francese Jacques Lacan, di aver militato nel PSI, a fianco di Bettino Craxi. Dice di essere stato in rapporti con il Presidente Mitterand e il Dalai Lama. Giulia l’ha conosciuta ‘sulle barricate’. Dice di aver fatto parte di una ‘generazione sconfitta’. Parla dei suoi due figli, avuti da una precedente relazione. Di essere stato troppo preso dalla sua vita. Racconta di aver lavorato a lungo come vicepresidente di Emmaus e di aver gestito un centro culturale a Parigi, negli anni ’70, dopo aver trascorso un periodo in Inghilterra, con Giulia, fra il ’70 e il ’75.

Quando accenna al centro culturale, senza che quella parola, Hyperion, venga nominata, mi guarda dritto negli occhi, come a cercare una vibrazione, una variazione di calore. Fra gli anni ’80 e ’90 si trasferirono nella casa in cui ci troviamo, insieme ad altri dai quali poi si divise. Giulia, seduta dall’altra parte della tavola, mi chiede se m’interessi di filosofia, se sia stata la filosofia a spingermi fino al loro agriturismo.

La cena è squisita e la tavola è allegra. Si parla italiano, francese, spagnolo, inglese. Mangiato il dolce, torniamo di sopra. Uno degli ospiti, in caffetano bianco, suona la suite N.1 per violino di J.S.Bach. Lo ascoltiamo, seduti in cerchio, sorseggiando un bicchiere di vino rosso, godendo delle geometrie con cui la musica si propaga nello spazio, sopra i nostri corpi sopraffatti dal cibo. Il gatto e il bulldog stanno accovacciati in disparte. Simioni m’invita a scegliere un liquore da un armadio che si trova nella stanza accanto. Qui, appeso a una parete, mi indica un piatto in ceramica dipinto da Pablo Picasso. Scelgo una grappa al mirtillo e lo seguo nel suo studio, una grande stanza rettangolare, dal parquet scricchiolante, sui quattro lati tappezzata di libri. Scaffali di filosofia, di mistica, di letteratura, di poesia. Mi perdo un po’ fra i libri, poi Simioni dice che sono un tipo molto curioso. Interpreto la battuta come una dissimulata esortazione a non indugiare troppo fra le sue cose, e a seguirlo fuori dallo studio, di nuovo verso la cucina. Ma prima mi mostra un’ultima cosa: una foto incorniciata che lo ritrae in compagnia dell’Abbè Pierre e di Papa Giovanni Paolo II.

Corrado Simioni è un uomo affabile, allegro. Una risata dopo l’altra. Sempre di ottimo umore. Ogni parola detta innesca una battuta. E’ piccolo di statura, precario, curvo. La deambulazione sofferta. Ai piedi porta un paio di zoccoli olandesi che sembrano affaticarlo. E nel ’97 ha subito un infarto. Eppure la mente è rapidissima, sempre pronta a connettere una parola all’altra, un tema a un altro tema. Sembra non curarsi dei suoi 74 anni. “Per come l’ho conosciuto io Simioni”, disse Franceschini a Marco Taradash, nel corso di un’audizione in Commissione Stragi, “era più che altro un avventuriero…Come personaggio lo attribuivo al film di Pontecorvo Queimada. Lui era esattamente l’ingles, cioè Marlon Brando. Secondo me era proprio quella figura, anche psicologicamente, colui che da un parte intriga con la rivoluzione, gli piace, gli interessa, perché vuole mettere in discussione le cose, che comunque non è uno pacifico ed è una persona intelligente; dall’altra, però, se ci sono cause di forza maggiore, ti abbandona al tuo destino”

Intorno alle 23, Simioni se ne va e ognuno torna nelle proprie stanze.

 31 Dicembre

Il pomeriggio del 31 lo passo nei dintorni, visitando vecchi borghi medievali e una chiesa romanica, consigliatami da Giulia. La chiesa si trova nella valle delle ninfe, un luogo dove si trovano tracce di culture pagane, nelle vicinanze di una sorgente, e descritto da Giulia come un luogo magico. Mi perdo un po’ nei dintorni, fra cespugli secchi di mirto, resti di falò, sentieri che non portano da nessuna parte. Quando torno mi viene presentata una coppia tedesca di Monaco, che vive in Svizzera, amici di lunga data di Simioni. Arrivano da un viaggio in Catalogna. Bevendo bordeaux, spizzicando il prosciutto spagnolo portato dai due tedeschi, qualcuno comincia a parlare di politica. Mi viene chiesto che cosa si dice sui giornali in Italia di Sarkozy. C’è apprezzamento, rispondo. Anche nel centro-sinistra, Sarkozy viene visto come un politico intelligente. Simioni dice di aver votato per i comunisti rivoluzionari al primo turno e per Sarkozy al secondo. Si compiace di questa schizofrenia. Dice di confidare nelle liberalizzazioni e nella sburocratizzazione del Paese, un po’ come già in Italia aveva nutrito le stesse speranze per il primo e il secondo governo Berlusconi. In sostanza, è come se si vantasse di essersi emancipato da certi vecchi schemi, mi sembra.

Visto che siamo in Francia, vengono in mente intellettuali come Bernard Henry Lévy o André Glucksmann, il loro percorso. Ma quando si parla di politica Simioni sembra avvampare e perdere il tratto amabile e conviviale. A un certo punto decide di chiudere la conversazione, bruscamente, e di spostarsi verso i fornelli, per preparare il risotto per la cena. Tiro fuori la macchina fotografica e scatto qualche foto. Simioni, che in quel momento offre le spalle alla scena, sembra osservare tutto con la coda dell’occhio. Poi ceniamo, in grande allegria. Dopo ci si sparpaglia. Io torno sopra, di nuovo con la digitale. Quando scendo di nuovo trovo Claudio, il tedesco e Simioni in taverna, dove stanno animatamente discutendo di politica. Simioni è seduto a capotavola, con il tedesco alla sua sinistra, entrambi appesantiti dal cibo. Faccio per scattare una foto quando Simioni, con un gesto perentorio della mano mi ammonisce: ‘No pictures, please, no pictures!’. ‘Niente foto?’, ‘No, niente foto…come Greta Garbo’. Mi siedo. Simioni va a tutto campo. Dice che se l’Europa tassasse un 10 per cento del proprio prodotto interno lordo ci sarebbe di che sfamare il terzo mondo. Ma devono essere i ceti medi a pagare, aggiunge. Tanto i ricchi sposteranno i capitali all’estero. ‘Bisogna mettersi in testa che il terzo mondo è un problema che soltanto le classi medie possono risolvere. Se continuiamo a discutere su chi debba pagare di più o di meno, il problema rischia di trascinarsi per un tempo indefinito’.

Continuiamo a bere e a discutere. Secondo Simioni, Putin è un grande statista che esercita, attraverso il controllo delle riserve energetiche, il diritto alla ricchezza del suo Paese. E’ il nuovo Pietro il Grande. Obbietto che Putin, in realtà, difende il diritto alla ricchezza delle oligarchie, è un tiranno che intende tornare a giocare con la guerra fredda e il responsabile dell’oppressione del popolo ceceno, nonché, probabilmente, il mandante dell’assassinio di una giornalista. Simioni tira fuori una rabbia che mi disorienta e un po’ mi spaventa. Dice che sono un ingenuo, male informato, che mi bevo tutto quello che dice la tv italiana. Possibile. Tuttavia, obbietto che forse non è così e un po’ troppo sbrigativamente mi sta identificando con quello stereotipo dell’italiano medio di cui ci si prende gioco all’estero, soprattutto in Francia da quando Berlusconi è andato al governo. Simioni non batte ciglio e va dritto per la sua strada, fino a dire che sono malmesso, che il mio cervello non funziona correttamente. Ho la sensazione di trovarmi di fronte a un uomo improvvisamente irascibile, refrattario. Diventa faticoso discutere. Simioni sembra più interessato a squalificare l’interlocutore.

Aggiunge una battuta su Romano Prodi, che non sarebbe il personaggio mite e curiale dipinto nei corsivi della stampa, ma un uomo che gode di una rete di appoggi collaudata nel tempo, uomini fidati come i senatori Cossiga e Andreotti. E qui aggiunge, in francese, ‘Le memes qui l’ont fait tuer Aldo Moro‘: gli stessi che uccisero Aldo Moro. In quell’istante distoglie lo sguardo dal tedesco e lo appunta nella mia direzione, lasciandolo così, sospeso, per qualche secondo. C’è un picco di tensione, una pausa che si dilata per qualche secondo. Poi la conversazione si perde in un rivolo insignificante, e Simioni se ne va, molto infastidito.

Ci ritroviamo di nuovo tutti insieme, poco prima del brindisi di mezzanotte. Dopo aver bevuto, ci abbracciamo e ci scambiamo un bacio di auguri. Poi Giulia, all’improvviso, cerca la voce in fondo alla gola e lascia esplodere, a pugno levato, un ‘Bandiera Rossa’ guerresco. Il tedesco, non senza ironia, grida: ‘W Marx, W Lenin, W Stalin und Enver Hoxha!!!’. Aggiunge, Simioni: ‘Che-che-gue-va-ra!‘. Gli altri rispondono in coro. Poi cantiamo, a pugno levato, pezzi dell’Internazionale e della Marsigliese. E’ come tornare indietro nel tempo al centro di un vecchio corteo, nella strada di una grande città.

Intorno a mezzanotte e un quarto Simioni, come annunciato la sera prima (‘Domani, dopo il brindisi, andrò subito a letto’), si ritira. Mi abbraccia e sornione mi dice: ‘Sai, la vostra generazione vivrà fino a centoventi anni, ballando la technò’. Dopo poco, come se tutti gli equilibri che legano quelle persone fossero annodati a quella di Simioni, anche gli altri si ritirano. Quando Simioni abbandona lo spazio, si crea un vuoto. Anch’io mi ritiro, dopo un paio di grappe.

L’anno nuovo

L’indomani, intorno alle otto del mattino, saluto Giulia per un’ultima volta. Fuori è un pianeta bianco e le colline sono addormentate nel gelo. Tutta la terra è avvolta in una candida foschia. Non un suono nella DrÔme. Solo il sibilo del vento che corre basso fra gli steli. L’erba è indurita dal freddo, la terra una lastra, ma quasi non fa freddo. E’ il cosmo morbido e silente che incapsula gli ultimi anni di Simioni. Accendo il motore, che sento borbottare in un modo che mi rincuora, il tè sprofonda caldo nelle viscere e aspetto che i vetri spannino. Mi allontano qualche decina di metri lungo un sentiero di cristallo. Fra i cespugli radi vedo tre cavalli frisoni chinare il capo, muovere la bocca fra i giunchi e poi abbeverarsi a una vasca. Uno dei tre cavalli si avvicina e si ferma a qualche metro da me. Restiamo l’uno di fronte all’altro, guardandoci in silenzio nella pace del primo gennaio. Avverto un movimento all’estrema periferia delle cose, così sottile e distante da non poter essere decifrato. Che sia come questo occhio equino, mi chiedo, l’occhio con cui la storia segreta ci guarda? Nel 1979 il giudice Carlo Mastelloni aprì un’inchiesta su Hyperion, sulla base delle confessioni del Br Michele Galati, ma non venne a capo di nulla.

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Post scriptum: Questo articolo venne pubblicato sul numero di novembre 2009 dell’Europeo. Ho pensato di riproporlo a Minimaetmoralia in questi giorni del quarantennale del rapimento Moro. Rileggendo, come spesso capita, ho sentito il bisogno di prendere un po’ le distanze da me stesso e quindi aggiungere un post scriptum. Per esempio, oggi eviterei passaggi come questo: «Nessuna abitazione, solo scheletrica boscaglia». Si tratta di una descrizione veritiera del paesaggio della Drôme in inverno, tuttavia so che l’aggettivo «scheletrica» fu preferito a «spoglia» o «desolata» solo perché volevo intimorire il lettore. Volevo sospingerlo nel clima di rarefazione e mistero nel quale io stesso ero preso. All’epoca in cui partii per questo capodanno in Francia mi faceva velo una fascinazione per i cosiddetti enigmi del caso Moro. Quella fascinazione è ancora viva e coccolata dentro di me –del resto non tutti gli enigmi sono stati chiariti- ma allo stesso tempo mi sono convinto negli anni dell’importanza di altri aspetti della vicenda. Sono diventato più freddo rispetto all’immensa suggestione tragica, simbolica e squisitamente letteraria contenuta in quella storia, e sono diventato più sensibile ad altro, che pure era già evidente e in primo piano.

In questi giorni mi è capitato di leggere «Questa è già la mia vita», bella e sincera autobiografia di Marina Premoli, appena uscita per Quodlibet. Prima di arrivare al resoconto dell’entrata in clandestinità nel 1978 –cosa che accade quasi all’improvviso e precipitando-, Marina racconta l’infanzia vissuta tra Roma, Parigi, Londra e Bruxelles. Cresce insieme a una famiglia cosmopolita, agiata e borghese (il padre fu senatore eletto a Venezia del Partito Liberale). L’adolescenza trascorre a Roma con ragazze e ragazzi del suo stesso ambiente; poi, a Milano, arrivano le esperienze professionali e amicali nel mondo dell’editoria («partecipo con i compagni della Rizzoli a varie manifestazioni cittadine»), infine le schizofreniche e faticose frequentazioni divise tra il lavoro politico di fronte ai cancelli dell’Alfa Romeo e i weekend trascorsi nella vecchia villa di un industriale, «tra Santa Margherita e Portofino, circondata da prati e frutteti», in località Scirocchetto. Non lontano da Scirocchetto c’è perfino un capanno restaurato da Gae Aulenti, che fa parte del gruppo di amici. È una parabola perfetta allo scopo di attivare uno dei pregiudizi e misunderstanding culturali più diffusi sulla generazione della lotta armata. In realtà non solo a Marina Premoli non corrisponde il cliché caratteriale della ragazzina di buona famiglia che nel ’77 briga con i compagni e gioca con la rivoluzione, ma più in generale il milieu in cui la lotta armata nasce, soprattutto nel momento in cui appare all’inizio degli anni ’70, fu un altro e fu genuinamente operaio-studentesco e proletario-piccolo borghese. Basta studiarsi la socio-statistica raccolta in merito o ascoltare e riascoltare le parole pronunciate da Valerio Morucci, Prospero Gallinari, Mario Moretti e Raffaele Fiore -quattro dei componenti del commando di via Fani- negli spezzoni di un documentario francese di qualche anno fa, poi montati all’interno dello speciale tv condotto da Andrea Purgatori e andato in onda la scorsa settimana su La7. Qual è stata, per esempio, la giovinezza di Gallinari? «La mia scuola è stata la campagna», dice Gallinari, nato a Reggio Emilia da famiglia contadina. L’uscio di casa della famiglia Gallinari era diviso da un semplice cortile dall’abitazione dei padroni. Eppure, dice Gallinari, erano due mondi completamente diversi. «Più della metà di quello che guadagnavi lo davi al padrone, perché il padrone era il proprietario della terra». Venti metri separavano le due case, ma era come se ci fosse stato in mezzo un muro. Valerio Morucci racconta la storia del padre, nato nel 1912, passato per la seconda guerra mondiale e per il fascismo. «Una generazione consumata dal Novecento», dichiara Morucci, con la precisione di un montatore cinedocumentario che ha meditato e conosce tutto l’archivio della propria esperienza e ogni volta che ne parla taglia e monta il racconto in sequenze e scene complete. Raffaele Fiore comincia a lavorare col padre ai mercati generali di Bari. Il padre muore quando Fiore ha 12 anni. Quindi Fiore prende la licenza media e nel frattempo già lavora per dare una mano alla mamma. Mario Moretti nasce a Porto San Giorgio, nelle Marche, e da ragazzo, nel 1966, emigra a Milano, dove trova lavoro in fabbrica, alla Sit Siemens, azienda di materiali elettronici della quale tutt’ora Moretti conserva una perfetta conoscenza scientifica, reparto per reparto, così come una intatta memoria visiva dei fenomeni di alienazione: «continuo a lavorare su uno scatolino piccolo, minuscolo, sempre quello, io come tutti gli altri, ciascuno col suo scatolino […]». Ciò che colpisce di questi quattro proletari italiani intervistati –eccetto Moretti, erano tutti under 30 all’epoca del rapimento Moro (Fiore aveva appena 24 anni, ma se è per questo Rita Algranati ne aveva addirittura 19)- è la totale consapevolezza autobiografica, la cognizione precisa del mondo materiale da cui provengono, e il linguaggio chiaro, diretto e solido con cui narrano la propria vicenda personale, storicizzandola dentro il quadro più ampio dell’epoca. Morucci, in questo senso, è un retore vero e un maestro perfino nelle pause. Ciò che colpisce, insomma, è una consapevolezza che non è stata soltanto loro, ma il tratto speciale di una generazione e di un passaggio storico in cui i lavoratori, prima ancora che alcuni di loro decidessero di partecipare alle Brigate Rosse, si sono riconosciuti in quanto tali e hanno parlato di sé, del tema della propria vita, della propria esistenza e della propria sofferenza materiale. Quaranta e cinquant’anni più tardi, il postero, cioè il sottoscritto, è colpito e impressionato da questa testimonianza di antropologia operaia, prima ancora che brigatista: per la forza con cui si è cristallizzata, mentre tutto intorno il mondo e l’Italia tramutavano, e perché appare come la dichiarazione di un modo estinto, e infatti mediaticamente incompreso, di essere e di vivere. Al contrario, la devastazione in corso da oltre venti anni nel mondo del lavoro è, per chi oggi esce da scuola, un nuovo stato di natura, immutabile, in cui ciascuno è solo di fronte al proprio destino. Ma un tempo non è stato così e almeno in questo punto la storia ci è maestra.

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