L’immaginazione nazional-popolare del bel paese è malata di passato e carente di futuro. Ladri di futuro lo hanno sottratto. Volete un esempio? Nella tarda primavera, al salone del libro di Torino, – e già mi sembra di andare troppo indietro – Giorgio Agamben si esprime in questi termini: “Il futuro, che non esiste, può essere inventato di sana pianta da qualsiasi ciarlatano. Diffidate, tanto nella vita privata quanto nella sfera pubblica, di chi vi offre un futuro”. L’autore prende spunto da un aforisma ancor più drastico di Flaiano, “Ho una tale sfiducia nel futuro, che faccio progetti solo per il passato”. Sono sentenze che esprimono la convinzione, assai diffusa nello stivale, secondo cui l’unica chiave che permette di comprendere la realtà sia il passato, “mentre uno sguardo rivolto unicamente al futuro ci espropria, col nostro passato, anche del presente”.

Ma è un giudizio corretto? O piuttosto questa sfiducia verso il futuro è una malattia cronica che affligge il nostro sentimento nazional-popolare? Veramente il futuro è solo un inganno ordito per ingannare i molti? Un fuoco fatuo? Una sirena che porta i naviganti ad affondare scontrandosi contro le rocce della (dura e immutabile) realtà? O non è forse il contrario? Non sono piuttosto coloro che, disprezzando il futuro, impediscono alla fantasia di immaginare il futuro e quindi scoprire nuove vie?

Intendiamoci, non sto parlando del futuro reale dell’Italia che studenti, imprenditori, studiosi, creano ogni giorno! Voglio piuttosto riferirmi a una strana cecità, da parte dell’immaginario di formulare scenari futuri. Mi interrogo sui motivi che determinano, nella produzione letteraria e mediatica tricolore, una assenza così cospicua. Non mi interrogo sul valore estetico di un’opera in base alla sua collocazione temporale. Non equivocatemi. Il punto è un altro: come mai un’intera nazione non considera, se non in casi rarissimi, scenari futuri? Come mai l’immaginario italiano è prigioniero del passato remoto, prossimo, storico, individuale o esistenziale?

Intanto verifichiamo questa impressione. Cerchiamo qualche dato oggettivo pur senza la pretesa di un’analisi statistica. Prendiamo come punto di partenza un premio letterario famoso: il premio Strega. Su 44 opere premiate dalla sua fondazione, quante di esse erano ambientate in uno scenario futuro? La risposta è inequivocabile: nessuna. Ogni volume uscito dallo Strega è rivolto al passato. Analoghe statistiche “bulgare” emergono dall’analisi di altri premi letterari o, più semplicemente, dalle classifiche dei testi italiani di maggior successo. Quasi tutti gli autori si muovono in un passato prossimo esistenziale dove il confine del presente rimane invalicabile. Da Fabio Volo a Federico Moccia, da Giorgio Faletti a Giancarlo De Cataldo, lo sfondo temporale coincide con il passato più o meno prossimo, più o meno esistenziale, più o meno soggettivo.

Significativamente, Sebastiano Vassalli ha intitolato la sua opera di maggior successo Archeologia del presente, e di archeologia si tratta. Se, poi, allarghiamo lo sguardo e consideriamo gli ultimi cinquant’anni di letteratura italiana, il panorama non cambia. In fondo, questo amore per il passato, sentito come l’unico scenario accettabile per un’opera narrativa, non è una caratteristica recente; è qualcosa che ha radici antiche e diffuse. Umberto Eco ha fatto della ricostruzione erudita del passato un labirinto dal quale è impossibile uscire. Tomasi di Lampedusa ha elevato il passato della sua terra a dimensione esistenziale. Certo, ci sono state eccezioni, Italo Calvino per esempio. Ed esiste un filone molto interessante di scrittori di fantascienza italiana, Valerio Evangelisti o Tommaso Pincio. Ma questi casi, peraltro non popolarissimi, non sono altro che l’eccezione che conferma una zeitgeist passatista. Non ci hanno forse insegnato che la letteratura italiana nasce con il romanzo storico dei Promessi Sposi? Nasce guardando indietro. Il futuro non è nemmeno accennato. Lo strumento dell’immaginazione è uno specchio retrovisore.

Lo stesso vale per gli altri settori della produzione dell’immaginario. Consideriamo il cinema: i nostri registi hanno l’obiettivo rivolto a un passato che non esiste più o, al massimo, a un presente già concluso. I registi “classici” hanno spremuto miele e suggestioni dal passato più o meno remoto dello stivale: Risorgimento, guerre mondiali, ricostruzione, boom economico, anni di piombo. Fellini ci riporta alla riviera romagnola della sua infanzia, Bertolucci descrive la bassa padana dei primi del novecento, Magni racconta la Roma risorgimentale, Leone rispolvera il passato della Grande Mela, Gabriele Salvatores torna all’Italia della guerra. Il capolavoro di Ettore Scola, “C’eravamo tanto amati”, ha nell’imperfetto la cifra della condizione esistenziale. E così fino ai giorni nostri. Paolo Sorrentino affoga nel buco nero di una capitale soffocata dal passato, dove i rifiuti urbani e i detriti esistenziali si mescolano per diventare un’unica sostanza. I racconti che gli italiani inventano, su pellicola o carta, guardano indietro a un passato storico o esistenziale: l’infanzia, i genitori, i progenitori, l’Italia che fu.

Le produzioni televisive non sono diverse, popolate da oleografiche figure rassicuranti – vie del centro, vetrine, i Cesaroni, medici, preti e carabinieri. Ricostruiamo tutto, ma non passiamo il Rubicone del momento presente.

Illustration Kirsten Beets.

Persino nel mondo dei fumetti, da sempre terreno ideale per esplorazioni fantastiche, la produzione italiana è per lo più rivolta al passato. Il nostro più grande artista, Pazienza, ha raccontato il suo presente, spesso buio e angosciato, ma non è andato oltre. Da Zanardi a Pompeo, il suo mondo non oltrepassa mai il segmento temporale delle sua esistenza personale. Altri maghi delle chine – da Toppi a Bonnelli, da Manara a Magnus – hanno scelto per le loro storie la riesumazione, spesso minuziosa, del passato nazionale o straniero. Il fumetto italiano, con qualche eccezione, non ha mai prodotto quella rutilante cornucopia di possibili che è esplosa nel fumetto internazionale: dal Moebius a Jodorowsky, da Moore a Gaiman.

Anche la nostra lingua, tanto elogiata, risente di questo ripiegamento sul passato. Nell’italiano odierno, la maggior parte delle parole che si riferiscono al futuro – nuove professioni, tecnologie, modi di vivere – sono di origine estera e stanno sostituendo il nostro idioma locale. La nostra lingua sta diventando la voce del passato, dell’arte classica, della musica classica, dell’Opera e del ricordo. Siamo circonfusi dalla luce dorata del tramonto, più che dal chiarore debole ma promettente dell’alba.

Se guardiamo oltre i confini nazionali, ci accorgiamo che questa ritrosia nell’immaginare il futuro non è una caratteristica delle culture mature (mi si perdoni il termine!). Il mondo non teme il futuro, non ha paura di immaginarlo. Gli autori non temono di essere tacciati di ingenuità. Il futuro immaginato non è visto come una bugia. Nell’immaginario internazionale, l’ucronia è un vero e proprio genere. L’elaborazione – più o meno critica, più o meno realistica, più o meno credibile – di mondi possibili è uno dei principali motori narrativi (Verne, Wells, Huxley, Gernsback). Méliès ci porta sulla Luna nel 1902; il primo numero di Amazing Stories è stampato nel 1926. Lang gira Metropolis nel 1927. Lo stesso vale per la televisione. Doctor Who nasce nel 1963; The Twilight Zone nel 1959; Star Trek nel 1966. È una tradizione destinata a continuare – Black Mirror, The ExpansionGalacticaThe Hundred, Life on Mars, Westworld. E non confondiamo l’immaginazione rivolta al futuro con la fantascienza che ne è soltanto una declinazione possibile.

Accertato il fatto, ovvero la diffusa mancanza del futuro come protagonista del nostro immaginario, non si può fare a meno di interrogarsi sulle cause di questo scotoma culturale. Io ne propongo alcune, pur senza alcuna pretesa di fornire un elenco esaustivo: l’educazione scolastica, la tradizione vasariana, il fallimento storico, la conservazione sociale.

Da un lato, l’impostazione culturale dei programmi scolastici continua ad avere nella storia la sua cifra di fondo. Troppo spesso gli studi umanistici sono declinati in senso storicistico. Non si studia arte, ma storia dell’arte. Non si studia letteratura ma storia della letteratura. Non si studia filosofia, ma storia della filosofia. E così via. L’influsso dello storicismo crociano rimane forte. Il museo viene proposto agli studenti come la rappresentazione iconica della cultura; ma in questo modo si propone qualcosa che è morto, congelato dietro una teca come una reliquia da adorare, legato a un presente che non è più e che si può solo contemplare e studiare.

Si ripete spesso l’aforisma di Santayana secondo cui chi non conosce il proprio passato è destinato a ripeterlo. Ma proprio la storia ci mostra come questa massima sia spesso contraddetta dai fatti. La continua ripetizione della storia e il suo ricordo riducono lo spazio per la creazione fantastica, smorzano l’immaginazione, incoraggiano la rigidità. Se guardiamo agli esempi che proprio la storia ci mostra, sono gli stati che non hanno passato che spesso si spingono in avanti con maggiore decisione. I grandi re, spesso, sono rimasti orfani da piccoli. Un grande passato non è un problema perché vale poco, ma proprio perché valeva molto. Dopo il Vasari, gli Uffizi sono diventati l’obitorio della creatività artistica toscana.

Certo, storicamente l’Italia è stata vittima di futuri sbagliati e imposti politicamente. Il futurismo è stato associato al fascismo. Troppo spesso futuri improbabili sono stati proposti da imbonitori demagogici. Frequentemente, la tecnologia e la scienza sono state, e sono ancora, vissute come elementi estranei alla nostra cultura. La scienza non è la cifra del nostro paese a prescindere da quanti scienziati abbiamo prodotto e produciamo. Molte volte le promesse non sono state mantenute. Eppure, non dobbiamo confondere l’uso strumentale del futuro dall’esercizio positivo della capacità di immaginare il possibile.

La devastazione sociale indotta dall’assenza di politiche ha fatto vivere a molti il cambiamento tecnologico del ventesimo secolo (da alcuni definito il secolo sbagliato) come una sciagura. Non è così! Oggi siamo migliori, come ha dimostrato Steve Pinker nel suo recente Il declino della violenza (2013). La fiumana del progresso non è quella forza negativa paventata da Giovanni Verga. Immaginare il futuro non evoca demoni. Gli italiani del Novecento hanno subito passivamente il progresso come una forza ingovernabile, proprio perché non lo avevano immaginato. Ma questa passività dell’immaginazione nasce, più che da una debolezza, da un scelta deliberata, da una volontà precisa che si manifesta in una diffusa supponenza da parte di autori e intellettuali nei confronti dell’immaginario in senso lato: i ladri di futuro. L’aderenza alla realtà non richiede la rinuncia a dare sfogo a quella ingenuità che sola permette di inventare mondi possibili. Molti intellettuali si sono formati su canoni che derivano dal nostro passato e che reiterano l’esistente. La cultura rivolta al passato si manifesta in forma di vincoli che guidano, ma rendono conformi e privi di originalità. Al contrario, il bambino crea il futuro perché non si pone limiti. A volte incespica e cade, ma prima o poi compie l’inaspettato, lascia il nido e spicca il volo.

Il fatto di immaginare il futuro ha importanti conseguenze. È rivoluzionario perché mette in discussione gli equilibri del presente e del passato. Si capisce così perché molte istituzioni e molte classi sociali vedano con sospetto il futuro, quando non lo disprezzano direttamente. Il futuro è la terra incognita dove chi ha posizioni da difendere potrebbe perdere tutto. Chi immagina il futuro potrebbe essere tentato dal trasformarlo in realtà. L’intellettuale è, per sua natura, conservatore; soffre della sindrome di Saturno; soffoca i propri discepoli o li sceglie in modo da non esserne oscurato. I maestri non vogliono essere superati, ma adorati e quindi sentono il futuro con paura, temendo che da esso fuoriescano quegli eroi capaci di quelle gesta che loro, da giovani, sognavano di compiere e, da vecchi, dichiarano inutili o impossibili.

Un radicato pregiudizio della cultura italiana consiste nel bollare con il marchio infamante dell’opera di evasione quei lavori che non contengono i contenuti, tradizionalmente attribuiti alla cultura: analisi esistenziali, esercizi eruditi, critiche sociali, percorsi di formazione, esplorazioni dell’ombelico. Come diceva Orazio, siamo laudatores temporis acti. La fantascienza, il genere fantasy, il racconto fantastico e utopico invece sarebbero, a causa del loro contenuto, racconti per immaturi. È il contrario! L’immaturo è colui che ha paura di sognare, di immaginare il nuovo.

In senso psicologico, la sfiducia verso il futuro è un segno di immaturità, perché è la declinazione culturale dell’incapacità di staccarsi dai genitori, dal passato che incarna un’autorità immeritata. L’ignoto deve essere immaginato, ma anche creato, sfidato, conquistato. Guardare verso il passato è consegnarsi all’autorità dei genitori; è la rinuncia di mettersi al livello dei nostri predecessori, uccidendo, almeno in effige, la sorgente dell’autorità che ci aveva accompagnato nei primi incerti passi. Immaginare il futuro mette in discussione l’autorità dei padri e lo status quo. Per crescere bisogna decapitare i propri padri.

Il creatore di futuro è, sostanzialmente, colui che mette in discussione la legittimità del presente. Il visionario mette in discussione l’ordine costituito. Immaginare il futuro richiede umiltà, ma anche coraggio. Si deve osare di vedere più lontano dei propri predecessori, non importa quanto grandi siano i giganti o i nani su cui ci si appoggia. Il futuro è per sua natura democratico perché lascia a tutti la possibilità di costruire una realtà diversa dal presente. Per questo motivo l’immaginazione del futuro sfugge al potere perché, essendo immateriale, non può essere controllata. Può però essere smorzata, spenta, scoraggiata, resa poco rispettabile. Per esempio, togliendola dall’immaginario collettivo.

Baricco ha recentemente espresso una interessante metafora a difesa del pensiero fantastico e utopico. L’utopia, secondo Baricco, è quella camera iperbarica, isolata dalla realtà, dove è possibile sintetizzare sostanze chimiche altrimenti impossibili. Una volta create, queste sostanze possono poi essere liberate nel mondo reale per cambiarlo. Il pensiero utopico è fantastico, quindi, lungi dall’essere un’inutile fuga dalla realtà, è un grembo protetto dove i semi del futuro, ancora fragili e incerti, possono germogliare per poi propagarsi. Concepire ciò, che ancora non è, non rappresenta una fuga dalla realtà. Anzi! Il primo passo per far sì che ciò che non è sia è pensarlo in quello spazio libero che è l’immaginazione. Certo, è ancora forte l’eco rumoroso del fallimento dello slogan sessantottino di Marcuse, l’immaginazione al potere. Ma qui il ruolo dell’immaginazione non va inteso in senso politico, ma come spazio creativo libero che si proietta nella progettazione di futuri possibili.

Il futuro e la fantasia sono visti con sospetto da una cultura, come quella italiana, che ha fatto della conservazione e della adorazione del proprio passato, la cifra dominante. Gli italiani, per lo meno nel loro immaginario, sono come quel popolo peruviano, gli aymara, che è diventato celebre perché dice di avere il passato davanti a sé. Il passato, infatti, si vede, mentre il futuro è invisibile. Quindi il passato è davanti, mentre il futuro è alle spalle. Forse anche gli Italiani potrebbero essere oggetto di studio, anche noi vediamo solo il passato. Come diceva Flaiano, facciamo progetti solo per il passato.

La mancanza di immaginazione ci impedisce di gestire quello che sarà. La povertà del nostro immaginario, coltivata in nome di una presunta disonestà del futuro, è così grande da diventare una gigantesca macchia cieca. Non sorprendentemente, il futuro arriva da questo lato e così diventa sempre emergenza alla quale si reagisce con soluzioni vecchie. Per essere protagonisti del futuro bisogna esserne i creatori. Futuro e immaginazione sono due lati della stessa medaglia. Una nazione ha bisogno di giocare con le possibilità del reale se non vuole diventare una vittima passiva degli eventi. Chi non immagina il proprio futuro, subisce quello creato dagli altri.

Gli italiani non immaginano il futuro; sono passatisti. Mentre in Italia si rispolvera la sfiducia di Flaiano, due psicologi americani, Martin E.P. Seligman e John Tierney, sulle pagine del New York Times, sostengono che l’uomo non è fatto per vivere nel momento presente (e meno che mai in quello passato). L’uomo, secondo loro, è fatto per vivere nel futuro, è un futurista. Noi saremmo Homo Prospectus perché “la principale funzione della nostra mente è immaginare il futuro”. Per farlo, però, si deve avere il coraggio di accettare di distruggere il passato e questo passato, troppo spesso, coincide con noi stessi. L’innovatore riesce a cambiare perché è capace, come il bruco, di divorare se stesso per rinascere farfalla. Il nuovo consuma il vecchio. La buona novella è che noi possiamo decidere: vogliamo essere futuro o vogliamo essere passato? A volte basta un po’ di esercizio. L’immaginario è la palestra dove la nostra capacità di essere futuro può nascere, crescere e diventare realtà.

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