Se è vero quello che racconta un giornale messicano, per quanto anziano e malandato, il vecchio Gabo ha ancora intatto il suo senso dell’humor. Nel ricevere la notizia della morte a novanta anni del suo compaesano colombiano –e amico di tutta una vita- Alvaro Mutis, Gabriel García Márquez, nella sua casa di Città del Messico avrebbe pronunciato una parola sola: “Mutis”.
Con quelle due sillabe, nella tradizione teatrale in lingua spagnola, si indica che il personaggio “esce di scena”, proprio come ha fatto ieri il suo grande amico Alvaro, a causa del quale (ma forse è un’altra leggenda inventata da Gabo) il giovane e indocumentato giornalista aveva lasciato la Colombia natia.
Nato a Bogotà nel 1923, da buon figlio di diplomatici Alvaro Mutis aveva studiato a Parigi e Bruxelles e aveva poi mantenuto, come il messicano Carlos Fuentes, un’eleganza impeccabile che, insieme al suo bel timbro di voce e alla sua imponente statura ne facevano un personaggio rilevante in qualsiasi riunione, mondana o culturale. Doveva la sua esperienza dei mari, quella che ha poi trasmesso al suo mitico personaggio, il gabbiere Maqroll, alla lettura di Conrad e Melville, a un breve viaggio lungo le coste belghe, quando suo padre gli ha rivelato che il mare era infinito, ma anche grazie al lavoro svolto presso compagnie petroliere come la Standard Oil o la Esso che in seguito lo ha accusato di malversazioni obbligandolo a cercare scampo in Messico nel 1956. Ma in Colombia aveva finito gli studi e aveva iniziato anche la sua attività letteraria come poeta nelle pagine della rivista “Mito” e per quanto la sua fama sia affidata al ciclo di Maqroll, per Mutis la poesia era “una prova più intensa della narrativa, una continua testimonianza del mondo, della vita e della morte” e non ha mai smesso di frequentarla. Ma a ben vedere, quel gabbiere che monta sul punto più alto della nave per scrutare l’immensità, è di per sé metafora della poesia come testimonianza su un mondo anche esso metaforizzato negli umori e nell’esuberanza del tropico. Eppure, prima di arrivare al ciclo del gabbiere, l’affascinante colombiano dovrà passare per un’esperienza tanto dolorosa quanto formativa: inseguito dall’accusa della Esso, dovrà passare quindici mesi nella tristemente famosa prigione di Città del Messico, quel Palacio Negro de Lecumberri su cui ha scritto parole disperanti José Revuelta, sperando forsennatamente di non essere estradato nella Colombia della “violencia”. Proprio con il titolo Lecumberri, nel 1960, Mutis affronta una scrittura di testimonianza che deriverà poi nel 1978 in una trasposizione affascinante quella de La neve dell’ammiraglio o Ilona arriva con la pioggia. Dal 1974, quando ha avuto il Premio Nazionale della Letteratura Colombiana, non gli sono mancati gli onori, dal Premio Principe de Asturias al Cervantes, dalla Legion d’Onore al nostro Premio Nonino.
Come per Dalí offuscato dall’ombra gigantesca di Ricasso, come per Rafael Alberti, oscurato dall’immenso Lorca, Alvaro Mutis ha avuto su di sé l’ombra di García Márquez che gli ha sottratto un primato nella storia delle lettere colombiane. Ma l’uno e l’altro hanno fatto qualcosa di più, hanno deterritorializzato la loro letteratura, hanno fraternamente condiviso il pane della fama e della gloria, mantenendo salda la loro amicizia.
Quando il vigoroso e sempre affascinante Mutis compì settanta anni, un Gabo piccolo e nero lesse parole esaltanti in omaggio al suo amico. Quel discorso finiva così:
“Basta leggere una sua pagina per capire tutto: l’Opera completa di Alvaro Mutis, la sua vita stessa, sono quelle di un veggente che sa con certezza che non troveremo mai il paradiso perduto. Cioè: Maqroll non è solo lui, come si dice così spesso. Maqroll siamo tutti.”

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