Un lavoratore viene chiamato “zingaro di merda” e reagisce al capetto che lo ha chiamato così con una testata. Il dubbio su se il problema sia l’insulto o la qualifica antizigana viene presto fugato. Il protagonista di Animali selvatici di Cristian Mungiu, tornato dalla Germania dove lavorava nel paese della Transilvania in cui è cresciuto, trova una famiglia che ha i problemi di ogni famiglia. Il figlio è diventato muto dopo aver visto qualcosa di spaventoso nel bosco mentre andava a scuola, con la moglie è in rotta, il padre è anziano e malato e ha bisogno di un’assistenza che non può permettersi. C’è però una donna con cui aveva già avuto qualcosa e questo qualcosa può venir ripreso. La donna lavora per la principale azienda del paese che produce pane e si serve di agenzie interinali per reclutare manodopera dal Sud Est asiatico.

Solo così si possono dare salari bassi e – dati questi salari bassi che non invogliano i lavoratori locali a farsi assumere lì – fare domanda per dei fondi europei legati al numero di impiegati. L’impresa dona i regali ai bambini della scuola, organizza feste, è parte del tessuto sociale, è “integrata” nel territorio. Non sono “integrati” i lavoratori dello Sri Lanka, secondo la comunità. E non sono integrabili in assoluto. Sono musulmani – si assume – e quindi non possono essere parte di una società moderna e cristiana. Portano malattie ignote e contagio, che trasmettono toccando il pane che i cittadini dovrebbero consumare – lo dice anche il medico del posto, autorità scientifica, portatore del sapere e della sottile violenza che ne deriva. Prendono posti di lavoro che comunque rimangono vuoti a cause delle paghe troppo basse. Ma sono quindi anche responsabili delle paghe basse. Gli stranieri vanno a lavorare in un paese diverso dal proprio – fuori dal posto che “Dio ha assegnato ad ognuno” – ma non sono come gli abitanti del villaggio che vanno in Germania. In Germania si va nelle metropoli, dove c’è caos, non si è riconoscibili, in una piccola località invece sì. E comunque loro si comportano male all’estero, i lavoratori della Transilvania no.

L’armamentario retorico è sempre lo stesso, ad ogni latitudine, spazia dalle questioni religiose e culturali, a quelle morali, fino a quelle pseudo sanitarie e a quelle socio-economiche. In parte si intuisce che la responsabilità dei bassi salari sia di chi li eroga – e del sistema istituzionale che lo permette – e non di chi, in assenza di meglio, prova a prenderli. Ma tutto sommato chi eroga i bassi salari fa parte della comunità, organizza le feste dove bambini e adulti possono divertirsi, fa regali, qualche posto di lavoro ai locali ancora lo dà, sono persone note, volti conosciuti, gente che è di qui. Al contrario, fuori dal controllo orizzontale che lega una comunità, ci sono gli altri. E questi altri possono aiutare a superare le proprie difficoltà assorbendo la violenza che altrimenti detonerebbe all’interno.

Il protagonista non è più razzista della media, semplicemente ha troppi problemi personali per avere il serbatoio etico necessario a non indirizzare verso l’esterno la rabbia che il combinato di vita e società gli ha assegnato. È un conformista, misogino, maschilista, che ama il padre e il figlio, e un’altra donna. È tuttavia un tipo “medio”, non è un invasato e non è tra i più balordi. Non è neanche l’intellettuale che pontifica sulle sorti dell’umanità e della millenaria forza della gente rumena e prima estrae un po’ di soldi dalla presenza dei lavoratori stranieri e poi si mette in prima linea contro di loro. Non è d’altronde lo stupido volontario francese che critica nazionalisticamente la popolazione del villaggio per la sua xenofobia ma difende il più che fallato modello francese che manca di universalismo concreto sia nelle sue città che alle frontiere. Nella scena più esplicativa del film, l’assemblea locale dei cittadini, uno di questi attacca l’occidente identificato con fondi europei e retorica dei diritti. Si capisce qui la posizione in bilico di questo territorio. Abbastanza occidentale per chi cerca salari migliori di quelli del cd. Sud globale, ma non abbastanza per essere nel gruppo di testa politico ed economico. È la semi-periferia del sistema globale: agganciata al cuore ma sempre a rischio di scivolare giù. Il colore della pelle aiuta, ma come sappiamo, prima dell’aggressione russa all’Ucraina, chi veniva da lì era discriminato e vittima di stereotipi tanto quanto chi veniva da altre aree del mondo. La popolazione dell’Est Europa è stata lo spauracchio con cui è stata vinta la Brexit, così come la sua razzializzazione in Italia si è accompagnata all’accentuazione delle politiche migratorie securitarie e punitive che ancora oggi sono in vigore.

La comunità del villaggio inoltre è composta da ungheresi, rumeni, tedeschi, fino a poco prima dell’arrivo dei lavoratori stranieri in conflitto tra loro – e uniti nell’ostilità verso i rom. Ma l’odio non è finito, si concentra temporaneamente su un gruppo razzializzato e poi riemerge cambiando oggetto, creando un altro altro minaccioso e spettrale.  Insomma, come noto, migrare non vuol dire imparare ad amare il prossimo lontano o il vicino che viene da lontano. Aver esperito conflitti razziali non implica l’interruzione della sua riproduzione su nuovi soggetti. Essere esposti alle contraddizioni e ipocrisie occidentali non vuol dire saperle superare meglio.

Il film potrebbe essere associato ad As Bestas di Rodriguez Sorogoyen ma se lì la mobilità era quella dei benestanti cittadini che vanno in campagna come hobby o come esito di una carriera di successo, qui la mobilità è di chi cerca condizioni di vita migliori senza nessuna lezione etica da impartire e senza nessun premio da riscuotere. E mentre in Animali selvatici la comunità dell’odio è implicata nella mobilità, nel film di Sorogoyen no. In comune la maledizione della comunità, la croce dei legami chiusi, l’identità locale come rifugio contro il mondo. E senza che la società, l’economia, la modernità appaiano come luoghi migliori. Ma nel film di Mungiu l’opposizione comunità/società, tradizioni e legami stretti contro innovazione e spersonalizzazione, sono risolti in modo diverso, meno dicotomico.

Le due forme di vita non sono disposte in ordine temporale. Non c’è prima la comunità e poi la società. La società (l’impresa del pane) vive del suo parassitare i legami comunitari – finchè elargisce doni al territorio va tutto bene, in un ciclo armonioso – e la comunità si serve di strumenti moderni per rinnovare il suo patto – gli insulti e le minacce agli stranieri si fanno online, girando video o scrivendo sui social media, le risorse per far sopravvivere un’economia altrimenti di sussistenza vengono dalle rimesse dei migranti nei paesi industrialmente più ricchi. E forse in questo senso si può leggere il caos del finale, incomprensibile perché non compreso è il modo in cui si può interrompere la violenza razzista che agita tutte le società occidentali – e non solo. Incompreso perché questa non è il residuo di una premoderna incapacità di “tollerare la diversità” o di un’eterna repulsione per l’ignoto ma parte dell’impasto con cui abbiamo edificato il vivere moderno.

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