Lo Straniero enigmatico, con cui Baudelaire apre lo Spleen di Parigi, dichiara il suo amore per “le nuvole che passano… laggiù… Le meravigliose nuvole!”. I veri viaggiatori, quelli che “partono per partire” della poesia Il viaggio, sempre pronti, con cuori leggeri, a rispondere al richiamo di chi dice “andiamo!”, hanno desideri dalla forma di nuvole, “sognano voluttà vaste, ignote, mutevoli”. Anch’essi, come i poeti, amano “perdersi nelle nuvole”, staccarsi da terra per inseguire illusioni; gli abitanti dell’isola volante di Laputa, nei Viaggi di Gulliver, sono talmente immersi nelle loro speculazioni da non essere più in grado di parlare o di seguire le parole altrui, inetti alle comunicazioni ordinarie. Le nubi sono vettori di distrazione, la loro lontananza è un invito a prendere il largo, ad abbandonare la rassicurante solidità per la mutevole vaghezza.

Si sa, le cose del Cielo nascondono quelle della terra. Può accadere però che siano i fenomeni atmosferici ad impedirci di vedere il cielo: “prevediamo il momento esatto di un’eclissi, ma non sappiamo se potremo vederla” (Michel Serres), una nuvola potrebbe frapporsi allo sguardo. Ma nella storia del pensiero (filosofico e scientifico) le cose del cielo hanno nascosto le meteore che si stendono fra il cielo e la terra; nel cielo stellato sopra di noi abbiamo cercato il riferimento per la navigazione morale (un cielo spesso nascosto fra le nebbie del mar Baltico), nel rassicurante ripetersi dei moti planetari abbiamo cercato il modello della stabilità dei saperi. All’astronomia abbiamo affidato la luminosa verità, alla meteorologia, grande rimossa della storia della scienza, lasciamo il campo fluttuante e instabile di quanto è al più probabile: le “nuvolaglie filosofiche” sono illusorie e volubili parvenze dove ognuno può leggere quel che vuole. “Il cielo della verità, le nuvole dell’errore”, per dirla con Hegel: un’immagine di cui oggi leggiamo i possibili rovesciamenti.

Nella commedia di Aristofane, il coro delle Nuvole – le divinità evocate da Socrate a sostituire gli dei dell’Olimpo da cui traggono nome pianeti ed astri – è formato da donne sguaiate, maestre nell’arte di cianciare con “fumose sottigliezze”, simbolo delle filosofie che promettono la vittoria con l’inganno. Le nubi evanescenti modificano di continuo la loro forma, modelli di ogni metamorfosi; l’agitarsi casuale dei venti le rende simili a oggetti familiari, ricordano cavallucci marini, volti sorridenti o profili di animali. “Vedete voi quella nuvola che ha quasi la forma d’un cammello?”, chiede Amleto a Polonio, per poi leggere in essa una donnola e una balena. Dato che non hanno consistenza e invitano a vagare e divagare, le nuvole ci allontanano dalla verità, suggerisce la Repubblica platonica. Chi si è liberato dalle catene, rientrato nella caverna per convincere gli altri a fuggire il mondo delle ombre, pone a rischio la sua stessa vita: nell’oscurità si è protetti e non si vogliono sentire temerari discorsi di un “folle”. Il rifiuto degli incatenati, ha osservato Blumenberg, corrisponde al disprezzo politico che i molti, la folla (plethos), hanno per la filosofia; essi si comportano come quei marinai che scambiano il pilota esperto, l’abile timoniere che segue le stelle, per un inutile chiacchierone con la testa fra le nuvole (metereoskopos).

Le meteore (etimologicamente “quel che sta in alto nell’aria”) sono luoghi di transito dal terreno al celeste, abitano un mondo di mezzo, stanno tra, sulla soglia che apre verso realtà altre. La nuvola è il luogo in cui il sacro fa irruzione, il volto del Dio biblico si nasconde fra le nubi, quelle che guidano il popolo d’Israele nell’esodo dall’Egitto. Ma anche i demoni si spostano fra le nuvole, da cui scatenano tempeste e folgori: anch’essi mutano aspetto, si trasformano in qualunque corpo, ricorda Michele Psello ne Le opere dei demoni. Nella composizione pittorica, è sulle nuvole che il divino compie la sua epifania. Così nei pannelli mitologici, composti da Correggio poco dopo il 1530, ispirati alle Metamorfosi di Ovidio: Giove raggiunge Danae nella sua prigione sotto forma di una nuvola da cui scende una pioggia d’oro (in Tiziano saranno monete); Io è sedotta da una nuvola perlacea in cui s’intravede un volto umano.

Accompagnatrici e vettori dell’estasi e dell’ascesi, le nuvole si dispongono in spirali  come nell’Assunzione della Madonna nella cupola del Duomo di Parma; lo spazio raffigurato da Correggio si ordina attorno a un vortice di corpi in volo, quasi ad annullare la fisicità della struttura architettonica, aperta verso l’infinito dall’apparizione di Cristo che si fa incontro alla madre. Negli affreschi della cupola di San Giovanni, la composizione a spirale induce il nostro occhio a seguire il moto ascendente delle figure, nel farsi presente (parousia) di Cristo: “Eccolo venire sulle nubi, e così lo vedrà ogni occhio” (Apocalisse I, 7). Le meteore fanno predominare nell’immaginazione l’asse verticale, aprono una dimensione ascensionale, in termini di tensione erotica o di desiderio mistico verso Dio. Gli ammassi nebulosi stimolano, diceva Gaston Bachelard riferendosi alla poesia The Cloud di Shelley, un’immaginazione dinamica, sono vettori di elevazione. L’informe (come il vago leopardiano in poesia) è un catalizzatore per la rêverie, apre l’orizzonte della “fantasticheria sognante”, della pensosità divagante, come quando si è avvinti dalle continue evoluzioni delle fiamme nel camino. Una vecchia tradizione, già attestata in Cina nell’antica pittura di paesaggio (il cui ideogramma significa montagne/acque), suggerisce di fissare gli occhi sui contorni cangianti e i colori indefiniti delle nubi per aprirsi al paese immaginario dei possibili. Dalle incrostazioni dei vecchi muri, dalle macchie amorfe, l’occhio del pittore scatena la fantasia visiva di battaglie, città immaginarie e paesaggi grandiosi, suggerimento che dal Trattato della pittura di Leonardo giunge fino a Degas e Dubuffet. E nei giochi che la natura mette in scena, tra il mutevole informe delle nubi potremo scorgere profili di volti, come nel Trionfo della virtù, o un cavaliere, come nel San Sebastiano di Vienna, sempre del Mantegna.

La maniera di Correggio è “vaporosa”, la forma si dissolve per lasciarsi penetrare dalla luce che sfuma i contorni e li rende in chiaroscuro: una nuova “maniera”, spettacolare e movimentata, che anticipa il barocco. La nuvola, ha osservato Hubert Damisch, contraddice l’idea stessa di linea con cui il disegno isola le figure dallo sfondo e rende in modo oggettivo l’ordine geometrico dei corpi statici sul piano. Se dipingere è prima di tutto disegnare (graphein in greco indica sia lo scrivere che il dipingere), se la pittura inizia con il contorno (la delineazione dell’ombra di un essere umano, dell’amato in partenza), e il colore interviene in un secondo momento, la nuvola è fin dall’inizio un elemento fuori norma. Per la sua inconsistenza, la nuvola mette in discussione la solidità, la permanenza, l’identità che definiscono la forma visibile, morphè, e quella intelligibile, eidos: s’iscrive in un registro che non si limita a ridiscutere la poetica classica, ma intacca i presupposti della piega ontologica che ha tracciato le rive in cui è fluito il pensiero dell’Occidente.

La nuvola sfugge al regime prospettico, in quanto corpo senza superficie né forma non obbedisce a regole geometriche. Il disegno non riesce a delimitare i bordi fuggitivi delle meteore, alle quali non è concesso rientrare nell’ordine del Bello, ribadisce il Kant della Critica del Giudizio (1790). La bellezza richiede un ordine compositivo, una finalità formale, una de-finizione che precisi i confini: è necessario un cosmos perché si dia cosmesi. Non sarà il sentimento del Bello a sorgere in noi quando la natura offre spettacoli di “selvaggio disordine”, sarà il sentimento del Sublime. “Le rocce che sporgono audaci in alto e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si ammassano in cielo tra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro potenza distruttrice, e gli uragani che si lascian dietro la devastazione, l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta …”. Il sublime parla il linguaggio delle meteore: del resto, non indica forse anch’esso l’elevarsi, il salire obliquamente? E il pittore che voglia dipingere la fluidità evanescente che si agita ai bordi delle nuvole deve rendere sommarie le sue pennellate, come fa Constable nelle vedute di paesaggi di campagna: la visibilità si fa incerta, macchie di colori, luci ed ombre, immergono gli oggetti nello spazio atmosferico. Le meteore sfuggono all’ordo cartesiano dove gli oggetti solidi obbediscono all’ideale di chiarezza e distinzione formulato nel Discorso sul metodo: quel Discorso che fungeva da pre-testo ai saggi dedicati alla Geometria, alla Diottrica e alla Meteorologia, e quest’ultima ritrova un ordine nel formarsi dell’arcobaleno o dei cristalli di neve.

 

“L’informe è un catalizzatore per la reverie, apre l’orizzonte della fantasticheria sognante, della pensosità divagante”. 

La verità in pittura ci consegna un mondo non più disegnabile per figure e movimenti; nei quadri di Turner la vecchia geometria, come la vecchia dinamica newtoniana, è condotta alla demolizione, al pari del Fighting Témeraire, trainato da un rimorchiatore che sbuffa il fuoco del nuovo sapere. La pittura trionfa sul disegno, sulla forma definita, è la materia stessa a farsi disegnante: Turner, diceva Constable, “sembra dipingere con il vapore colorato”. Le pennellate sono lampi di colore in cui sfuma sempre più ogni forma definita, e le cose spuntano vaghe da intensità abbaglianti di squarci luminosi. Gli ultimi quadri non sono che nebbie popolate di incerti fantasmi: come se, variante del principio d’indeterminazione, rappresentare corpi in moto equivalesse a perderne i contorni. La materia, sconvolta da un moto browniano, è dissolta dal fuoco, vibra e trema fino ad esplodere in nuvole, di cui non possiamo tracciare i bordi, dove si agita l’aleatorio. Turner, il primo vero genio in termodinamica, ha scritto Michel Serres. In Annibale attraversa le Alpi (1812), lo scatenarsi degli elementi atmosferici corrisponde all’esplodere della violenza umana: alla soldatesca che uccide, al furore umano, fa eco l’altra noise, l’agitarsi del temporale, nuvole si addensano in un immenso vortice, figura che rimpiazza la linea e il cerchio, a suggerire il flusso dinamico delle intemperie. Ruskin, in Modern Painters (1846), indicava in Turner l’espressione più alta del “nuvolismo” (cloudiness), della nuova pittura di paesaggio in cui il “servizio delle nuvole” è esprimere quanto è fumoso e indistinto.

Premessa perché alla meteorologia si attribuisca lo statuto di scienza è classificarne gli oggetti, ma “la nube non è un oggetto, non è uno stato, è una transizione costante”, spiega Luke Howard (On the modification of clouds, 1803). Il che può prestarsi al sarcasmo di chi, come Flaubert, smantella lo sguardo enciclopedico di Bouvard e Pécuchet, fiduciosi nelle partizioni di Howard: “Scrutavano quelle che s’allungano a mo’ di criniere, quelle che paiono isole, quelle che si scambierebbero per montagne di neve, cercando di distinguere i nimbi dai cirri, gli strati dai cumuli, ma non ne avevano ancora trovato il nome, che la nuvola mutava forma”. Ce lo ricordano i versi di Wislawa Szymborska: “Non gravate dalla memoria di nulla, / si librano senza sforzo sui fatti. Ma quali testimoni di alcunché / si disperdono all’istante da tutte le parti”. La meteorologia è al contempo una scienza “della previsione e della delusione”, osserva il pilota d’aereo, cacciatosi nelle nubi: si cerca di classificarle, inseguendo qualcosa di definito e misurabile, ma ad esse corrisponde “una fluidità continua, un’imprendibilità totale” – “alla definizione della nube non corrispondeva mai un’immagine definitiva”  (Daniele Del Giudice).

In principio erano le nuvole. Prima del cielo stellato, stanno le turbolenze e i vortici dell’atmosfera, i venti che scatenano tempeste, sapere a lungo relegato nell’empiria di contadini e marinai. Era questo il linguaggio della natura in Lucrezio (e in Epicuro) nel cui poema meteorologico il lampo è modello del clinamen e la nube è modello di un mondo sconvolto da turbolenze e turbamenti. In realtà, quel che qui si annuncia è un sapere nuovo, che sa convivere con l’incerto e apprezza le qualità dell’uomo senza certezze. Michel Serres ha proposto il De rerum natura come testo di origine della fisica, non di quella moderna, ma di quella contemporanea; quella che ha accolto “la sfida della complessità” e in cui prevalgono le rotture di simmetria, le dinamiche del caos, i passaggi dal disordine all’ordine, dalla confusione al moto vorticoso, in generale, da turba a turbo. In greco turbé è la folle danza in onore di Dioniso, la moltitudine e il tumulto: è il caos come massa fluttuante, moto browniano su cui “un impercetto clinamen” (Gadda) produce una spirale che gira vorticosamente, turbo. Sul molteplice del rumore di fondo, caos fluido delle origini, ecco apparire una fluttuazione, l’inclinazione dà vita a un turbine, forma d’ordine elementare, ritmo nella resi, sacca di neghentropia che arresta per un momento l’irreversibile deriva. Nuova catena, indeterministica, di contingenze e circostanze, in cui qualcosa può sorgere in scarto all’equilibrio.

La nuvola è mélange indeterminato, campo dei possibili da cui le forme traggono origine. “Se chiedeste ad un meteorologo di darvi un catalogo delle nuvole, egli vi riderebbe in faccia, oppure vi spiegherebbe pazientemente che in tutta la terminologia meteorologica le nuvole, definite come oggetti dotati di identità quasi permanente, non compaiono affatto”. Così scrive Norbert Wiener, nel primo capitolo, dal titolo “Tempo newtoniano e tempo bergsoniano”, della sua Cibernetica (1947). Nel sistema solare, possiamo fissare posizione e velocità dei corpi solidi, essendo il numero di elementi in gioco relativamente piccolo. Nel cielo stellato di un newtoniano, le traiettorie dei corpi scorrono ciclicamente, nel ritmo senza sorprese di un orologio: è così possibile conoscerne il passato, fino a scoprirne l’origine (da una nebulosa, suggeriva il Kant della Teoria del cielo, 1755) e prevederne il futuro con certezza, se diamo ascolto al demone di Laplace. In meteorologia, al contrario, prosegue Wiener, il numero di particelle è talmente alto da impedire un’accurata registrazione delle posizioni e velocità iniziali; la simmetria fra passato e futuro viene rotta, il tempo delle meteore è irreversibile, non possiamo che affidarci alle probabilità statistiche per anticipare il futuro. Il nesso causale non è più lineare, l’evento aleatorio scuote la ripetizione dell’identico: il battito d’ali di una farfalla può scatenare effetti di vasta portata come gli uragani, ricorderà il meteorologo Edward Lorenz.

 

“All’astronomia abbiamo affidato la luminosa verità, alla meteorologia lasciamo il campo fluttuante ed instabile di quanto è, al più, probabile”. 

Dal tempo dell’orologio e del calendario, time, al tempo delle meteore, weather; dall’orologio di precisione, modello dei sistemi regolari, alle nuvole con le quali,  ricordava Karl Popper, possiamo dar figura a “sistemi disordinati e più o meno imprevedibili”. Le nuvole non hanno identità stabile, sono “senza qualità”, possiedono  il senso del possibile più del che del reale, come l’Ulrich protagonista de L’uomo senza qualità di Musil. Il I capitolo, “Da cui, cosa notevole, nulla segue”, ripropone il lessico delle meteore prima di quello dell’astronomia: “Si segnalava una depressione sull’Atlantico; essa si spostava da ovest verso est in direzione di un anticiclone situato sopra la Russia […]. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, di Venere e dell’anello di Saturno, come molti altri fenomeni importanti, erano conformi alle previsioni degli annuari astronomici”. E nella città di Vienna, “liquido in ebollizione”, non è facile fare il punto, stabilire la posizione e tracciare confini; nel caos del traffico può prodursi un incidente, evento singolare e casuale che rientra nelle statistiche. La sorte degli umani non segue una traiettoria precisa, non obbedisce alla  legge dell’ordine narrativo, a quel filo che vorrebbe disporre in successione, uno dopo l’altro, gli eventi della vita. Ed anche “il cammino della storia non è quello di una palla da biliardo che una volta partita segue una certa traiettoria, ma somiglia al cammino di una nuvola, a quello di chi va bighellonando per le strade”.

 

Anche l’altro ingegnere-filosofo della narrativa del Novecento, Carlo Emilio Gadda, sa che i nostri piedi non poggiano più su di una salda roccia cartesiana (o su di un estremo balcone dell’Ottocento, avrebbe detto Calvino): “Il terreno del filosofo è la mobile duna o la palude deglutitrice: o meglio la tolda di una nave reluttante contro nere tempeste. Ed è questa nave il ‘bateau ivre’ delle dissonanze umane” (Meditazione milanese). E chi governa la nave (ciberneta, appunto), nella buia notte in cui si svolge il suo peregrinare per mari strani e diversi, non ha alcuna stella a cui riferirsi, le cose “si dissolvono e si deformano da sé, come i cumuli delle nubi”. Ed è solo nostalgia consolatoria sperare che queste possano chiudersi in una poligonale che li “determini in modo certo, univoco, perenne”, che “abbiano forme fisse e canoniche, geometriche, definite, p. e. ovuloidi od ellissoidali” (MM). Certo, l’ipocrisia degli umani ha bisogno di immunizzarsi “dal mortifero pericolo d’ogni incertezza” (favola 114). Chi vuole allora ergersi, come la milanese contessa Brocchi, a custode delle apparenze e delle tradizioni familiari, di fronte al malo andazzo dei tempi, ha per unico conforto le certezze del calendario: «… E così invece, con lampi lividi, nere nubi ci rotolavano sopra ! […] Nulla più, che non fosse contaminato. Di tutti gli aspetti del mondo, strascinatili davanti al tribunale del moralista, uno solo ce n’era, che poteva salvarsi: il lunario! […] Il dabben lunario aveva addomesticato le stelle copernicane, metodico lampionario della celeste routine: così non fallirebbero a casa Brocchi né il 23 né il 24 di aprile, né il sabato, né la domenica …” (San Giorgio in casa Brocchi).

Il commissario Ingravallo del Pasticciaccio ha preso coscienza che non basta più riformare la categoria di causa passando dal singolare al plurale, dalla catena alla rete, come chiedeva la Meditazione: la rete si è fatta groviglio, “gnommero”, le variabili in gioco delineano lo spazio delle fasi di un sistema meteorologico (tra le varianti del titolo del romanzo, Gadda proponeva in una lettera a Garzanti del ’57, anche “Nuvole in fuga”). Le “inopinate catastrofi” sono l’esito di una molteplicità di “causali convergenti”, formano “come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo”; “il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata ‘ragione del mondo’. Come si storce il collo a un pollo”.

Ed ecco l’inizio di un altro romanzo, Le Meteore di Michel Tournier: “Il 2 settembre 1937, una corrente di perturbazioni in atto fra Terranova e il Baltico spingeva nel canale della Manica masse d’aria oceanica tiepida ed umida. Alle 17,19 un refolo di ovest-sud-ovest […] sfogliò otto pagine delle Meteore di Aristotele che Michel Tournier stava leggendo sulla spiaggia di Saint-Jacut”. Il romanzo ruota attorno alla storia di due gemelli, Paul e Jean, custode il primo dell’integrità della cellula gemellare, spinto il secondo da una forza centrifuga che lo induce a vagabondare per il mondo, fuggendo la simmetria del rapporto gemellare. Paul aderisce al partito astronomico, al sereno olimpo “le cui rivoluzioni sono regolate come un quadrante solare”, all’inalterabile mondo siderale che le perturbazioni non scalfiscono. Jean, che predilige l’imprevisto degli eventi meteorologici, esprime la sua filosofia del viaggio attraverso il personaggio di Passepartout de Il giro del mondo in ottanta giorni di Jules Verne; l’esatto contrario del suo padrone, Phileas Fogg (la nebbia), sedentario e pianificatore all’eccesso, “un vivente orologio”.

“Gli uomini esistano pure, se vogliono, / e poi uno dopo l’altro muoiano, / loro, le nuvole, non hanno niente a che vedere / con tutta questa faccenda molto strana. / Al di sopra di tutta la tua vita / e della mia, ancora incompleta, / sfilano fastose così come già sfilavano. / Non devono insieme a noi morire, / né devono essere viste per fluttuare”

Wislawa Szymborska, Nuvole.

Gli scienziati sognano, mentre i poeti calcolano. Un tempo, i giovani artisti erano invitati ad osservare cose confuse, le macchie sui muri, la cenere del fuoco, l’acqua torbida e le nuvole, per risvegliare l’immaginazione. Sono questi gli oggetti a cui si rivolge la matematica dell’anesatto, come la teoria delle catastrofi di René Thom: “le sbrecciature di un vecchio muro, la forma di una nuvola, la caduta di una foglia morta, la schiuma di un boccale di birra …”. Gli stessi oggetti indagati dalla teoria dei frattali di Mandelbrot, le sporgenze della linea costiera, il guizzare delle fiamme, il formarsi delle nubi.

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