Quell’anno, Julio Cortázar stava scoprendo se stesso. Scrive un romanzo, “Soliloquio”, che tenterà di dimenticare devolvendolo al fuoco (“Ho bruciato un romanzo di seicento pagine… Era un romanzo molto sentimentale…. Il protagonista, che aveva molto di me stesso, rappresentava il giovane argentino super-lettore, super-coltivato, europeizzato, quanto a gusti letterari”). Il primo di altri – Divertimento, El examen – che, troppo occupato a crescere, con foga, lo scrittore lascerà a sparse pubblicazioni postume. In effetti, è il fuoco a dettare la vita, il rifiuto a glorificare, si fa pratica di sé distruggendosi. Era il 1948 e Cortázar aveva preso a collaborare con “Los Anales de Buenos Aires”, la rivista diretta da Jorge Luis Borges, dove furono pubblicati alcuni racconti che sarebbero confluiti in Bestiario (1951), l’autentico esordio del divo Julio. Nel 1945, in reazione al “populismo peronista”, aveva mollato la cattedra di letteratura francese all’Universidad de Cuyo, Mendoza; traduceva Jean Giono e André Gide e quell’anno, il 4 marzo del 1948, a Ivry, nella clinica del dottor Delmans, era morto Antonin Artaud. Il primo articolo che Cortázar firma per la mitica “Sur” di Victoria Ocampo s’intitola Muerte de Antonin Artaud, è pubblico sul numero 163 della rivista, nel maggio del 1948. L’articolo – che pubblichiamo di seguito – non è esattamente un ‘coccodrillo’: Cortázar denuncia una poetica, focalizzata sul surrealismo non tanto come ‘moto artistico’ ma come rivoluzione dello sguardo, rivolta della vita, dacché “Vivere è più di scrivere”. Qualche anno dopo – forse preda delle sirene di Artaud – Cortázar lascia l’Argentina, per sempre, per Parigi. Era il 1951.

 

Con la morte di Antonin Artuad tace, in Francia, una parola sbrecciata, solo per metà dal lato dei vivi, per il resto, piena di una lingua irraggiungibile, che invocava e balbettava una realtà intravista nell’insonnia di Rodez. Come è naturale da noi, abbiamo appreso di questa morte da venticinque righe stipate nella “lettera dalla Francia” che invia mensilmente alla rivista “Cabalgata” il signor Juan Saavedria. Artaud, è vero, non è né molto né ben letto da alcuna parte, poiché il suo definitivo significato è il surrealismo nel più alto e difficile grado di autenticità: un surrealismo che non è letterario, anzi, è anti ed extra letterario; e non da tutti possiamo pretendere di rivedere le proprie idee sulla letteratura, il ruolo dello scrittore, eccetera. Eppure, è ripugnante la violenta pressione dei professori di estetica nell’integrare il surrealismo nell’ennesimo capitolo di storia letteraria, impedendogli il legittimo significato. Gli stessi baroni crollano per la stanchezza, tornano a capo chino al “libro di poesie” (ben altra cosa rispetto alle poesie in un libro), all’Arcano 17, al manifesto iterativo. Bisogna ripeterlo: la ragione del surrealismo eccede tutta la letteratura, tutta l’arte, tutti i metodi localizzati e i prodotti che ne risultano. Il surrealismo è una visione del mondo, non è una scuola, non è un -ismo; è l’impresa della conquista della realtà, la realtà autentica, a dispetto dell’altra, fatta di cartapesta, fossilizzata; una riconquista del mal conquistato (la conquista a metà: con la suddivisione di una scienza, una ragione razionale, un’estetica, una morale, una teleologia) e non la mera ricerca, dialettica antitetica, del vecchio ordine artatamente progressista.

Salvo da ogni tentativo di essere addomesticato, per grazia di una statura che lo ha sostenuto in una continua attitudine alla purezza, Antonin Artaud è l’uomo per cui il surrealismo incarna la condizione propria dell’animale umano. Per questo, si è proclamato surrealista con la stessa radicalità e naturalezza con cui chiunque si riconosce uomo; un modo d’essere, intendo, inevitabile, immediato e originario, senza la contaminazione culturale propria di un qualsiasi -ismo. È bene che questo venga esaltato, soprattutto in favore dei giovani, presunti surrealisti, che tendono a imitare il tic, a precipitare nelle determinazioni, a dire “questo è surrealista”, come uno mostra un rinoceronte a un bambino, e che disegnano cose surreali sulla base di una realtà deformata, ideologica, meri teratologi; è col tempo che si comprende che le cose autenticamente surrealiste sono quelle che non hanno l’etichetta surrealista (orologi che si sciolgono, gioconde con i baffi, ritratti profetici con un occhio solo, e mostre e antologie). Semplicemente, il surrealismo più profondo pone l’accento sull’individuo più che sul prodotto: è assodato, infatti, che ogni prodotto nasce da una inadeguatezza, consola e rimpiazza con la tristezza della copia. Vivere è più di scrivere, a meno che scrivere non sia – come accade raramente – vivere. Pronto all’azione, il surrealismo propone il riconoscimento della realtà come una poetica che va esperita: così si avverte che non c’è una differenza essenziale tra una poesia di Desnos (modo verbale della realtà) e un evento poetico – un certo crimine, un certo knock-out, una certa donna (modi fattuali della stessa realtà).

“Se sono un poeta o un attore, non devo scrivere o declamare poesie, ma viverle”, scrive Antonin Artaud ad Henri Parisot, dal manicomio di Rodez. “Quando recito una poesia, non è per essere applaudito, ma per sentire i corpi di uomini e donne, ho detto corpi, che tremano e vibrano e virano all’unisono col mio, come ci si volge dall’ottusa contemplazione del Buddha seduto, cosce ingarbugliate e sesso gratuito, all’anima, cioè alla materializzazione fisica e reale di un essere integrale della poesia. Voglio che le poesie di François Villon, di Charles Baudelaire, di Edgar Poe o di Gérard de Nerval diventino realtà, che la vita esca dai libri, dalle riviste, dai teatri, dalle messe che la trattengono, la sconfiggono, la crocefiggono, per lasciarla sfociare, sfogare nell’immagine dei corpi…”. Chi potrebbe dirlo meglio di lui, Antonin Artaud, fiondato nella vita surreale più esemplare dei nostri tempi? Minacciato da innumerevoli maledizioni, proprietario di un bastone magico con cui tentò di ribellarsi agli irlandesi, a Dublino, fendeva l’aria di Parigi con un coltello contro gli incantesimi, evocando sortilegi lui stesso, è stato il viaggiatore favoloso nel paese dei Tarahumara: quest’uomo ha pagato il caro prezzo di chi tira dritto. Non voglio dire che fu un perseguitato, né proseguire nel lamento sul destino beffardo… Penso che siano altre le forze che hanno trattenuto Artaud sull’orlo del grande salto; che queste forze dimorassero in lui, come in ogni uomo che resta realista nonostante la volontà di ‘surrealizzare’ se stesso; sospettava che la sua follia – sì, professori, state tranquilli: era pazzo – fosse la testimonianza dell’eterna lotta tra il millenario homo sapiens (eh, Sören Kierkegaard?) e quell’altro che balbetta nel profondo, e lotta nel desiderio di coesistere e di confluire nella fusione totale. Artaud fu questa aspra battaglia, il massacro in mezzo al secolo, l’andare e venire tra l’Io e l’Altro che Rimbaud, il più grande tra i profeti, ma non nel senso preteso dal sinistro Claudel, proclamò nel suo vertiginoso giorno.

Ora è morto, e della battaglia restano brandelli, e un’aria umida, priva di luce. Le orribili lettere scritte dal manicomio di Rodez a Henri Parisot sono un testamento che alcuni di noi non dimenticheranno. Ho tradotto la prima, la sola che non provocherà la chiusura moralizzante di questa rivista.

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