Al visitatore occidentale il nome di Asakura non dice granché. Eppure capita di essere presi da una singolare emozione nell’entrare in queste stanze, dopo essersi tolti le scarpe e averle riposte nel sacchetto di plastica che il museo mette a disposizione. In Giappone anche il minimo dettaglio è pianificato. Prima ancora di essere entrati nella casa-museo, si è già varcata una soglia che resta per lo più invisibile al viaggiatore occidentale. Prima ancora che se ne accorga, è già dentro un cerimoniale minimo, ma inaggirabile, di vestizioni e svestizioni, di atti e di posture. In fondo quella giapponese è una cultura della soglia. Lo si scopre ben presto, visitando i templi buddisti o scintoisti o i monasteri zen.

Il 朝倉彫塑館 (nome inglese: Asakura Museum of Sculpture) è la prima e unica casa-museo che visiteremo durante il nostro viaggio in Giappone, un paese che ha con il nome proprio e le sue sopravvivenze un rapporto evidentemente molto differente da quanto capita in Occidente. Fumio Asakura (1883-1964) è stato uno scultore di assoluto rilievo all’interno dell’arte giapponese del ’900.

All’interno di questa casa non solo ha vissuto e lavorato, ma vi ha anche istituito un’accademia di scultura. Lo spazio che visitiamo è pertanto uno spazio complesso da decifrare già per questa sua natura intermedia: non è casa senza essere scuola, non è accademia senza essere dimora, non è familiare senza essere al contempo uno spazio pubblico. È insieme intimo ed esposto, senza soluzione di continuità e senza che sussista il benché minimo cenno di contraddizione tra le due dimensioni. Ogni opposizione è annullata nel senso dell’unità di tutto con tutto, che qui predomina. È anche, lo scopriremo poco a poco, uno spazio tra Occidente e Oriente, quello che Asakura si è costruito qui a Tokyo, nel quartiere di Yanaka, dove la città assume un altro volto e la megalopoli dei grattacieli cede il passo alle case basse, ai cortili e alle stradine.

 

L’atelier di scultura è decisamente moderno, ispirato all’art déco. Qui non si disdegnano soluzioni tecniche all’avanguardia, come l’ascensore per portare alle statue sotto il livello del pavimento e poter così scolpire meglio il blocco di pietra. La casa è una dimora tradizionale giapponese, dotata di un accesso diretto all’atelier, ma anche di un’altra entrata sulla strada. Al suo centro domina uno splendido laghetto, visibile dai quattro lati interni dell’edificio, che gli si sviluppa intorno. Noi che chiamiamo “immobili” le nostre case, vediamo ora come la staticità non sia separata dal movimento dell’acqua e dalla presenza delle piante, che emergono dal laghetto, e da quella dei pesci che vi nuotano all’interno. In Giappone la casa tradizionale pone esplicitamente al suo centro la convivenza tra la vita umana e altre forme di vita.

A casa Asakura troviamo realizzata l’unione potente di elementi della cultura giapponese con elementi occidentali. Ma non sono contrapposti, sono essi stessi la loro differenza. Quello che a noi pare Occidente, quello che è sicuramente occidentale, non è che una delle anime che popolano la cultura giapponese. Questa non ha infatti mai smesso di fare i conti con quell’altro così lontano e così prossimo che è sempre stato l’Occidente e le sue differenti manifestazioni.

 

L’atelier è la prima sala che accoglie il visitatore, ed è quella dalle forme più occidentali. Contiene alcune delle sculture più celebri di Asakura, tra cui uno dei suoi capolavori, il Custode delle tombe del 1910. Sarà che qui siamo vicinissimi all’immenso cimitero del quartiere, ma questa statua ci sembra essere qui di casa accanto a quella di un ministro degli affari esteri giapponesi o alle grazie nude scolpite o ai numerosi gatti in bronzo che incontreremo al piano di sopra. Più incongruo ci sembra – ma può benissimo essere un’interferenza del nostro sguardo – il fatto che le statue più grandi siano qui presenti in una loro versione realizzata in plastica. Di fronte ai terremoti che con una frequenza singolare si abbattono contro l’arcipelago, il pragmatismo giapponese ha escogitato anche questo espediente per evitare qualche danno di troppo.

Se lo spazio espositivo non si distacca dai canoni dell’atelier occidentale, già le stanze della biblioteca che conducono verso la casa richiamano i dettami stilistici del Giappone. La guida ci racconta che questa è la biblioteca del maestro di Asakura presso la Tokyo School of Fine Arts, Toru Iwamura. Asakura la ricomprò dagli antiquari dopo la sua morte, per evitare che venisse smembrata e dispersa.

Se l’atelier s’ispira a un modello occidentale e la casa a uno orientale, lo stesso giardino, costruito secondo i dettami del giardino zen giapponese, rappresenta un terzo spazio, un paesaggio ovunque presente sia in fuori che dentro la casa. Questa casa ha al suo centro uno spazio di attraversamento, incentrato sulla presenza dell’acqua. Non ci sono che l’acqua e il vento, la luce e le ombre proiettate dagli alberi, ad attraversarlo, mantenendo in una singolare relazione tutti i lati della casa, anche quelli opposti e più lontani l’uno dall’altro. Qui tutto si fa elogio dell’impermanenza. Anche i dettagli apparentemente più contingenti e banali, anche le carpe e il rumore dello scorrere dell’acqua, divengono voce che trapassa le pareti scorrevoli e viene a far parte della vita casalinga. Qui anche l’opposizione tra natura e cultura è superata. È vero: ci sono soglie e sono soglie molto salde. Eppure esse non sono dei muri. Sono invece quegli espedienti necessari ad accordare l’arte del passaggio, a permettere che vi sia attraversamento. Qui la rete di soglie si fa paesaggio dell’anima, per raccontare una vita.

 

Si prenda l’orto sul tetto, una novità assoluta rispetto agli standard della cultura dell’epoca, non solo giapponese. L’orto era parte integrante dell’insegnamento di Asakura e ne condivideva la cura con i suoi studenti. L’orto entrava così a far parte della casa, così come il giardino costituiva il centro di irradiazione dell’energia domestica. Il dentro e il fuori finiscono così per compenetrarsi e per costituire la stessa dimora. L’abitazione non è un dentro opposto a un fuori, come sarebbe per le case che assomigliano sempre di più a cittadelle fortificate. È invece essa stessa il fuori del suo essere dentro, del suo abitare e di coloro che la abitano. È per questo che durante la visita la percezione netta è quella di attraversare più volte una serie di soglie che, benché inapparenti, non sono per questo meno potenti. Come Walter Benjamin sapeva, la soglia non è mai separazione assoluta, ma è funzionale al passaggio, alla mescolanza e all’unità di tutte le differenze.

Forse in Europa una casa-museo ricorrerebbe a una cronologia o a una mappa, per esempio dei posti abitati dall’artista o di quelli da lui visitati. Qui tutto accade in una stanza: il microcosmo della casa giapponese contiene in una stanza il paesaggio di tutta una vita. La rete di soglie apre alla possibilità di un viaggio dentro queste mura. Così una vita non diviene mai oggetto, nemmeno di esposizione. Al visitatore è però permesso farne esperienza. Non essendo mai qui stati prima d’ora, riusciamo tuttavia a immaginarci perfettamente quale sia l’esperienza di chi respira l’aria di questa stanza, del suo giardino, del suo orto. Riusciamo a capire cosa significhi prendersi cura delle soglie e farsene ispirare. Ricorrendo a una semplificazione potremmo dire che se in una casa-museo europea l’esperienza che facciamo è un’esperienza visiva, ottica, qui è tutto il corpo che chiede di restare ancora un momento in più, magari seduto sul tatami, sulla soglia tra casa e giardino.

Se il giardino fa da filo conduttore alla visita, è perché nella cultura giapponese non diventa mai semplice oggetto di contemplazione, non è mai esterno a chi lo ammira. Nella filosofia che permea questi spazi, noi siamo queste pietre, quest’acqua, questo muschio, accanto a cui sediamo. Se guardiamo, diventiamo lo sguardo che si volge verso l’acqua che scorre. Dunque guardiamo lo scorrere di quell’acqua solo perché siamo noi stessi quello scorrere, quell’acqua, quelle pietre, quelle ombre. In questo senso la casa è un cosmos, un tutto. E questo tutto cos’è? Un giardino, una biblioteca, degli spazi dove la vita circola. Una casa che è due case, una casa che è un paesaggio e che come tale può aprirsi nei suoi numerosi spazi all’accoglienza di amici, studenti, visitatori.

Ogni soglia che domina questa casa – e certamente il giardino è la soglia per eccellenza – fa saltare l’opposizione tra dentro e fuori, tra sotto e sopra, a cui noi siamo abituati. Qui lo spazio si istituisce a partire dal vuoto centrale. Ora il vuoto non è mai oggetto. È piuttosto il ni-ente rispetto a tutti gli enti. È un fare spazio, affinché nulla possa impedire il libero esercizio e lo svolgimento della vita. Così benché sia formato con un’attenzione massima al dettaglio, questo spazio è al tempo stesso l’assenza di qualsiasi forma. Nessun’intenzione può raggiungerlo, nessun desiderio può acciuffarlo, nessuno sguardo carpirlo, se non al prezzo di immergersi e di sprofondare. Nessun uomo può abitarci, se non perché quel vuoto abita in lui.

È da qui che nasce l’ospitalità: non da una semplice predisposizione del padrone di casa, ma dal fatto che questa dimensione – che è domestica e insieme pubblica – è tale perché il suo raccoglimento è già da sempre accoglienza dell’altro. È una sorta di annullamento della distanza per prossimità. È questo ad aprire la casa, a renderla adatta ad accogliere.

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