Sylvie Richterová è nata a Brno, che qualcuno ha definito «città più kafkiana di Praga». La stessa città dove sono nati Janáček, tra i massimi compositori del XX secolo, Skácel, uno dei grandi poeti moderni delle lettere ceche, gli scrittori Jan Trefulka e Antonín Kratochvíl, la scrittrice Vera Linhartová e i due romanzieri cechi più conosciuti al mondo: Hrabal e Kundera. Nel 1963 si trasferisce a Praga, dove studia lingue e letterature moderne. Nel 1971 sceglie di vivere, caso eccezionale nell’emigrazione dell’Est, in Italia, a Roma, dove  insegna lingua e letteratura ceca fino al 2009. La sua è una scelta d’amore. Un amore non proprio ripagato dal nostro paese. La bellezza della sua prosa, nel corso del tempo, è passata per lo più inosservata. Richterová, autrice oggi fra le più apprezzate in patria e in altri paesi, in particolare la Francia, ha scritto diverse raccolte poetiche, molti saggi raffinati e sei romanzi: Ritorni e altre perdite, pubblicato nel 1978 presso la Sixty-Eight Publishers di Toronto, la casa editrice fondata dallo scrittore ceco in esilio Josef Škvorecký; Figure dissipate (1979), Topografia (1983), Sillabario della lingua paterna (1986), tutti usciti inizialmente in samizdat, e Secondo addio (1994).

Nel 2014 pubblica Che ogni cosa trovi il suo posto, uscito di recente nel Belpaese (Mimesis) nella sapiente traduzione di Alessandra Mura. Nella prefazione alla traduzione italiana di Topografia (1986), Milan Kundera afferma: «Jean Cocteau definiva tutti i suoi romanzi “poesie di romanzo”. Questa espressione mi è sempre piaciuta e distinguevo tra gli scrittori coloro che sono “poeti” del romanzo e coloro che non lo sono […] Essere poeta del romanzo significa concentrarsi ostinatamente sull’essenziale (esistenzialmente essenziale) ed eliminare il resto». Anche Che ogni cosa trovi il suo posto, dove l’autrice viaggia con la memoria tra Roma e Praga dal secondo dopoguerra ai giorni nostri, attraverso le  tappe fondamentali del 1945, del 1968 e del 1989, si concentra su ciò che è «esistenzialmente essenziale». Per un vero romanziere la Storia non è altro che un «laboratorio antropologico» per mettere alla prova i suoi personaggi. La Storia, infatti, è la quintessenza dell’astrazione: è popolata da uomini e donne senza volto. Il romanzo corregge la Storia: offre a ogni individuo un volto, scopre un lato sorprendente in ogni situazione. Si leggano, ad esempio, le pagine sul Natale uno e trino così come era vissuto nel 1965 sotto un regime comunista: «marxista in pubblico, pagano in famiglia e cristiano in segreto».

 

 

Oppure quelle su Lucie che scopre che il suo paese è stato occupato dai russi dallo sguardo impietosito e meravigliato che i clienti di un supermercato rivolgono al suo bambino nella carrozzella: «come se avesse con sé un gobbetto o un ritardato». Richterová attraversa la dimensione storica e ci immerge nel presente del romanzo, dove il passato non passa, neppure quando gli archivi dei delatori bruciano, o quando le persone, come il padre di Marie, spariscono senza lasciar traccia. Allo stesso tempo esplora il segreto che si nasconde dietro a ogni esistenza, perché ogni esistenza, anche la più bieca come quella della spia della polizia segreta Kazimír, è degna di essere accolta e narrata, non fosse altro che per comprendere fino in fondo come il caso e il malinteso governino, spesso più incontrastati dei dittatori, le sorti dell’umanità. In questo romanzo ogni parola, come in poesia, è importante e la forma apparentemente fluida e nutrita di insospettabili ramificazioni riesce, attraverso una tecnica calibratissima del collage, a dare unità all’opera.

Che ogni cosa trovi il suo posto può essere letto come un’opera sull’esilio. «Nel nostro mondo – mi scrisse una volta l’autrice – la condizione dell’esilio è ormai un fatto acquisito. Ora si tratta di comprendere come da qui ci si possa aprire ad una comunicazione più umana». L’autrice, per la sua biografia, si trova al confine tra due forme d’esilio: quella che abbiamo conosciuto, conseguenza dei regimi totalitari della seconda metà del XX secolo, e un esilio come condizione permanente e marginale, se si pensa alla rapidità con cui, a partire dagli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, dopo averne incensato nostalgicamente negli anni ’80 il «mito», l’Occidente si è allontanato da quella che erroneamente chiamava l’Altra Europa, definendola poi una volta per tutte con il nome ancora una volta erroneo di «Mitteleuropa». Non voleva più sentirne parlare. Di più, gli ha fatto la guerra. Una guerra umanitaria! Chi ricorda più le bombe su Belgrado? E il più lungo assedio dopo la seconda guerra mondiale, quello di Srebrenica, sotto gli occhi allucinati dei caschi blu? Non che prima, nel corso degli anni ’60 e ’70 avesse davvero ascoltato i suoi scrittori e intellettuali… Ha preferito di gran lunga convertirli in eroi politici. Del resto, solo così, solo attraverso le lenti miopi della politica, ha potuto trasformarli in trofei della dissidenza. Se l’Europa oggi è introvabile lo dobbiamo anche a quel dialogo mancato.

Credo che questo allontanamento accelerato nei confronti del passato oggi non riguardi solo la Richterová, né solo certe letterature, ma riguardi tutti noi. Infatti, non si tratta del semplice riflesso storico di una condizione d’emigrati, ma di una possibilità nascosta della Storia, terribilmente concreta, che può appartenere all’esistenza di ognuno. Nel romanzo lo spazio di ogni vita è un viaggio continuo da una sponda all’altra dell’Europa che non ha altra ragion d’essere che comporre un sillabario della memoria: un viaggio errante alla frontiera del tempo. C’è un’avvertenza: la biografia di un uomo o di una donna è sempre composta da molte vite, reali e possibili. Quante vite costituiscono una vita? Domanda inesauribile. Domanda romanzesca, che dà un senso esistenziale alla forma errante e poetica dell’opera. Se noi, infatti, siamo il risultato di quello che abbiamo vissuto, di ciò che la Storia si è incaricata di farci vivere, noi siamo anche fatti di ciò che non abbiamo vissuto o di quello che abbiamo vissuto in silenzio, di tutto ciò che abbiamo pensato e non abbiamo detto, di tutto ciò che la nostra mente ha registrato e che non è riuscita a esprimere. La Richterová ci fa comprendere, al di là della sua vicenda privata, come la memoria storica dei vincitori non può fare a meno del racconto artistico dei perdenti. Bisogna ricordare al fine di essere in grado di dire addio a ciò che è stato, certo, ma l’arte, se non vuole essere un puro evento senza tempo e senza alcuna gerarchia, ha il compito di distinguere ogni giorno ciò che è vivo e ciò che è morto: prendersi la libertà di non riconciliarsi con la Storia. Solo così ogni cosa troverà il suo posto.

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