La songwriter californiana, una delle più belle scoperte degli ultimi anni, ci svela i misteri di Pain Is Beauty, un disco che allestisce un’armonica guerra tra macchine e radici: l’impiego di synth procede con temi legati a natura, mitologia e tradizione, come avviene per esempio nella splendida traccia Ancestors, The Ancients. Proviamo a carpirne le formule magiche, sabbra cadabra.

Il titolo dell’album, Pain Is Beauty, oppure la canzone Destruction Makes The World Burn Brighter fanno pensare a tormento e solitudine… Qual è il rapporto tra sofferenza e arte?
In generale trovo che vi sia un disegno, nella natura e nell’umanità: periodi di grande dolore e sofferenza conducono a tempi di pace, prosperità e conoscenza. Io trovo la bellezza nella verità e nella comprensione, e per me la relazione tra sofferenza e arte funziona allo stesso modo. I due titoli che hai citato e le loro idee, derivano dalla consapevolezza che il fuoco è una parte importante nel sistema di rigenerazione di una foresta. Se un incendio viene trattenuto innaturalmente troppo a lungo, può essere dannoso. Ciò che appare come orribile fa in realtà spazio ad alberi destinati a crescere; è un processo naturale. Così ho pensato per similitudine che nelle nostre esistenze ci sono momenti di fuoco, ma se perseveriamo ne possiamo uscire con nuova linfa, nuova forza e nuova saggezza. Questo però non vuol dire che tutto ciò sia facile, e non prendo quel fuoco con leggerezza, che sia nella foresta o nelle nostre vite.

La tua musica è ammantata da un’aura dark in cui molti ascoltatori riscontrano influssi gotici. Come hai iniziato ad addentrarti in questi luoghi oscuri?
Fin da giovane ho conosciuto e capito la tristezza umana e l’oscurità, che ho tradotto in parole. Ho iniziato semplicemente buttando giù degli scritti, in poesie o trafiletti, ma non sapevo perché. Sapevo solo che avevo bisogno di riassumere quel che sentivo, forse in una sorta di percorso catartico. Quando ho cominciato a scrivere canzoni, ho incanalato la medesima sensazione nella musica. Ci sono sempre un sacco di domande e non sempre abbastanza risposte, ma c’è sempre della speranza. Non penso molto all’etichetta “gothic”, faccio soltanto quel che faccio e mi approccio alle cose alla mia solita maniera. Percepisco un contrasto, un’alternanza tra buio e luce nei miei brani. So che c’è della pesantezza ma c’è anche una sorta di aspettativa, che sia nella melodia, in uno strumento o nei testi.

In Feral Love canti che l’amore è “bestiale”.
Feral Love esamina cosa vuol dire amare come un animale. Quel tipo di amore istintivo, finalizzato a proteggere, provvedere all’altro e andare avanti. Penso ai branchi di elefanti e altri animali che si avventurano in tragitti lunghi e pericolosi per procacciarsi acqua potabile e cibo. È così bella, questa interminabile marcia verso la sopravvivenza.

Mi parli di Sick, per ora il mio pezzo preferito in scaletta?
Sick ha una doppia interpretazione: significa sia ferire qualcuno che ami sia combattere contro qualcuno che ti sta facendo del male. Per un periodo mi sono trovata contemporaneamente in entrambe le situazioni e cercavo di tenere in piedi la mia folle esistenza. Quando finalmente mi sono svegliata e ho riconciliato la faccenda, la vita è diventata più tranquilla. Sebbene l’inizio del brano sia oppressivo e deprimente, alla fine c’è un trionfo.

Il disco è contrassegnato da un maggior uso dell’elettronica: come mai tale scelta?
Ci sono anche degli episodi chitarristici ma, sì, ho stabilito che era arrivata l’ora per questi pezzi elettronici sui quali stavo lavorando da anni, in attesa di trovar loro una sistemazione. Quindi non si tratta di una reazione a un evento, né di una decisione. Io e il mio compagno di band Ben Chisholm avevamo composto delle tracce elettroniche e originariamente pianificato di pubblicarle in un side project, ma nel corso del tempo hanno seguito uno sviluppo che mi ha fatto ancor più affezionare e ho voluto incorporarle nel discorso Chelsea Wolfe. Ne abbiamo suonate un paio durante i tour e, quando abbiamo assemblato l’album, ci siamo riaccostati a esse registrandole. Mi piace lasciare che le cose avvengano spontaneamente e prendermi il tempo necessario, in parte perché cambio spesso idea e in parte perché la mia vita si muove al rallentatore e non mi sento a mio agio alterando il corso dei fatti. Non sono sempre in grado di definire con esattezza perché qualcosa è appropriato per un certo disco, ma sapevo che era il momento giusto per queste canzoni.

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Come valuti Pain Is Beauty in relazione alla tua precedente produzione?
In un certo senso vorrei definirlo un culmine, ma la sensazione è anche quella di una rinascita. Pain Is Beauty riguarda la libertà; un’esaltazione dell’antica rabbia e di ciò che si possiede, trattiene dentro. Quando scrivevo l’album, ho iniziato in pratica a fare tutto ciò che volevo: indossare quel che desideravo, suonare la chitarra per ore, bere nient’altro che succo di frutta per giorni, cucinare funghi… Volevo sentirmi svincolata e lasciare fuoriuscire aspetti che prima non avrei potuto assecondare, quindi è divenuto un disco molto onesto e aperto piuttosto che un lavoro concettuale. Sulla relazione con i miei altri album, non saprei… Ho problemi di memoria, per cui a volte è facile andare avanti e allontanarmi dalle cose senza provarne nostalgia, dato che non riesco a ricordarle. Le uniche canzoni che di solito rammento sono quelle che continuiamo a eseguire dal vivo.

La tua voce, che una volta era spesso in contrasto con il clangore disturbante della musica, suona più eterea, cristallina, ultraterrena. Un effetto voluto?
Quando mi metto a cantare un brano, provo a lasciare venire fuori i primi suoni senza inibirli… Per The Warden i vocalizzi sono sussurrati, probabilmente perché il pezzo riguarda un manicomio e l’essere tormentati o torturati. C’era l’esigenza di veicolare il messaggio con tranquillità.

C’è anche un frequente impiego degli archi e sembra che il maledettismo abbia lasciato spazio a una maggior maturità. Il risultato è sempre di grande effetto ma più morbido e immediato.
Sono attratta dagli archi e dagli elementi classici e ho sempre cercato musicisti che potessero esprimere delle emozioni attraverso i loro strumenti. Mi sento fortunata ad aver conosciuto due musicisti di questo tipo, che hanno partecipato a Pain Is Beauty così come a Unknown Rooms: Ezra Buchla alla viola e Andrea Calderon al violino. A volte mi piacerebbe lasciarli suonare e scoprire cosa ne esce, a volte vorrei cantare una linea e farla convertire in partitura per violino. A volte le loro esecuzioni mi spezzano il cuore.

Nonostante le divergenze, se devo pensare a un’artista contemporanea a te affine opto per Soap&Skin.
Ho percepito un’affinità verso di lei quando ho guardato alcuni video on line. La sua voce e il suo stile sono davvero belli e sinceri.

Negli ultimi anni stanno emergendo tante songwriter di valore, come se le donne fossero più abili nel leggere i tempi correnti e metabolizzarne l’oscurità.
Non ne sono sicura, perché molte delle mie influenze sono uomini. Jack White, Josh Homme, Hank Williams, Neil Young, Ozzy Osbourne, Gaahl… Senz’altro di questi tempi ci sono diverse donne di talento, ma ci sono sempre state. Selda Bagcan, Joni Mitchell e Buffy Sainte-Marie sono alcune delle mie artiste preferite.

Tempo fa hai inciso un ep di cover dei Rudimentary Peni, mentre a proposito di cantautori Mark Lanegan ha appena riletto la tua Flatlands. Come ti è parsa?
Non l’ho ancora ascoltata ma non vedo l’ora perché amo la voce di Lanegan. Sono affascinata e influenzata da musicisti provenienti da molti generi e stili di vita differenti.

Con i tuoi dischi le distinzioni di genere sono infatti scardinate e si parla di rock, metal, drone, folk… Come descriveresti ciò che fai e dove ti senti più a tuo agio nel panorama attuale?
Sono un po’ una solitaria e mi piace lavorare per conto mio. Amo anche la gente, e incontrare musicisti con i quali percepisco sintonia e posso collaborare è una bellissima esperienza. Ma no, non penso che io e la mia band ci siamo mai inseriti in una scena e va bene così. Mi viene chiesto spesso come sia la situazione a LA e devo sorvolare perché onestamente non lo so. Forse è un riflesso della leggera claustrofobia che soffro fisicamente, ma non mi piace sentirmi incasellata. Mi piacciono lo spazio aperto e la libertà di muovermi, e desidero esplorare qualsiasi genere o sound mi sembri giusto. Sono grata che ci sia un piccolo quantitativo di persone che mi supporta.

Sei ormai divenuta un’icona, un’autentica figura di culto, anche grazie al magnetismo sprigionato on stage, dove celebri dei semi-rituali e talvolta ti copri il volto.
Sono abituata a coprirmi la faccia. Molte mie canzoni rivelano un senso di lutto così una volta mi sono vestita come se fossi reduce da una marcia funebre, e mi sono resa conto che questo aiutava a focalizzarmi sulla musica perché c’era un velo tra me e il pubblico. Ho sempre avuto paura del palco, ma un particolare tipo di paura perché non ho timore a cantare e suonare ma vorrei essere invisibile; a crearmi problemi è la fisicità, gli occhi altrui che con tutta la loro energia bruciano qualcosa dentro di me. Per i primi due anni di show ho continuato a indossare il velo per proteggermi. Quando è uscito Apokalypsis, ho avvertito che era tempo di essere coraggiosa e sbarazzarmi di questa tutela. Per definizione Apokalypsis significa anche “sollevare il velo”, quindi è stato pure simbolico. L’energia dell’audience è importante, per la mia musica e per la musica in generale. Cerco sempre di dare il massimo e perdere me stessa nelle note, anche se la gente è distratta. Sono sempre riconoscente agli spettatori che sono lì con me, pronti ad intraprendere una vera esperienza. Mi hanno insegnato parecchio.

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