Abbiamo visto Cogan (Killing them softly) regia di Andrew Dominik.

Non conosciamo lo scrittore George V. Higgins, tantomeno il suo romanzo Cogan, ma ad istinto deve essere un bel romanzo, senza le solite lungaggini e prive di pesantezze psicologiche. La storia è periferica, senza importanza, con uomini senza qualità. Ma che vivono un rapporto con la vita di precarietà e di lotta, che vivono e muoiono con la stessa passività,

che sanno di essere in fondo soli ed hanno la coscienza che il loro Paese, gli Stati Uniti, non sono quello che dichiarano di essere, un luogo di libertà, di democrazia e di una seconda possibilità, bensì un luogo di esseri umani soli nella folla, egoisti e indifferenti. E scusate se è poco. Soprattutto per un libro che è stato scritto quasi quarant’anni fa ma che filmicamente è stato ambientato quasi ai nostri giorni, durante la corsa alle presidenziali americane del 2008 tra Obama e McCain. In un film infondo di genere, di azione senza fantasmagorie tecniche troviamo frasi del tipo “L’America non è un Paese. È un business”, oppure “In un periodo di crisi l’unico modo per far soldi è rubarli a chi li ha già rubati” o ancora, “Io vivo in America e in America sei sempre solo”.

Il bravo ma non eccelso regista neozelandese Andrew Dominik (quarantenne, al suo quarto film dopo Chopper, L’assassinio di Jesse James… e Blonde) ha spostato l’epoca della storia e il luogo – che nel romanzo era ambientato a Boston negli anni Settanta – . La città adesso è New Orleans e i giorni sono quelli della fine del mandato di Bush, prima delle elezioni di Obama, quando la crisi di oggi era iniziata ed era già dura. New Orleans è la città in cui l’uragano Katrina, i suoi effetti e il liberismo selvaggio, mostrano la devastazione di un Paese utili a quello che ci vuole raccontare Dominik: infatti la prima scena è su una periferia disfatta, senza alcuna anima, con devastazione dappertutto e sullo sfondo il rumore di treni merci e le sirene della polizia.

Due poveri cristi sbandati, Frankie (un bravissimo Scoot McNairy – lo potrete vedere in questi giorni anche nel film Argo) e Russell (Ben Mendelsohn, bravissimo nel ruolo del tossico) vanno da un piccolo delinquente che gestisce una lavanderia per cercare un qualsiasi lavoretto e Johnny Amato ha qualcosa per loro. Fare un’irruzione in una bisca clandestina e durante una partita di poker rubare i soldi che ci sono più quelli dei clienti. I due resistono alla proposta per il timore della mafia e della sua reazione, ma Amato è sicuro di quello che dice: il gestore della bisca Markie Trattman (Ray Liotta) sarà il colpevole del furto giacché in passato ha organizzato lui un colpo simile.

Tutto procede come previsto e sembra che tutto vada bene, ma la mafia – tramite un avvocato dall’aspetto bonario e pacifico – convoca Jackie Cogan (Brad Pitt) un sicario fantasma, dal carattere tranquillo, dalle idee sovversive ma anche molto preciso e fiscale. Gli viene chiesto di occuparsi della cosa, di pestare Trattman, anche se sanno che non c’entra, solo per dare l’esempio, e di scoprire ed eliminare i veri colpevoli riportando l’ordine e mettendo a tacere le chiacchiere a colpi di calibro 38. Nei pochi giorni Cogan riesce a scoprire tutto e a compiere il suo lavoro, non prima però di aver incontrato un killer suo amico (un James Gandolfini perfetto, ma forse un po’ troppo lungo), un gorilla italoamericano, qualche imbroglioncello e qualche scroccone.

Il film cerca di coniugare una storia di genere, crime story, con un discorso politico sia interno alla storia che esterno, con le ripetute voci in off di Bush e di Obama e raccontate continuamente dalla radio e dalla televisione. Ma la sceneggiatura fatica ad amalgamare bene queste intenzioni e a volte sembrano due mondi paralleli che non si uniscono fluidamente. Originale invece la metafora della crisi vista dal mondo della malavita in cui le organizzazioni criminali funzionano come aziende (praticano nello stesso modo il concetto estetico ed etico). La cupola è un sistema come quello bancario, prevede debiti e crediti, interessi, costi da sostenere. Il costo di un killer si alza e si abbassa in base alle garanzie offerte e a quando denaro circola, proprio come ogni altro commercio di questi tempi. Non nuovissima l’idea che gli Stati Uniti non esistono come Nazione, ma sono l’aggregato di uomini fuori dalla legge.

Un inizio che coinvolge lo spettatore, per le atmosfere, per il tono serrato, sboccato e cinico dei dialoghi e per la scelta del cast molto efficace, ma dopo un po’ sembra che la storia e i suoi personaggi si avvitino su se stessi e si aspetta il finale serenamente. Probabilmente la stessa sceneggiatura affidata ad un altro regista avrebbe lasciato un segno profondo invece può apparire un po’ pretenziosa.

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