Abbiamo visto “ Come pietra paziente “ diretto da Atiq Rahimi.

Rahimi è uno scrittore afgano che ha pubblicato in francese “ Pietra di pazienza “ nel 2008 e questo suo testo è diventato il caso letterario dell’anno in Francia, riuscendo a vincere il prestigioso Premio Goncourt.   Ha avuto un tale successo di critica e di pubblico che il libro è stato tradotto in molti Paesi, tra cui l’Italia ( Einaudi ).  Il testo è un monologo di una donna che approfitta del marito immobilizzato, e a quanto pare privo di conoscenza, per raccontargli tutte le ingiustizie e la solitudine che ha vissuto da quando è stata costretta a sposarsi con lui ( ma certo non è un caso isolato, certo riguarda una cultura che si nutre di fondamentalismo ).  Naturalmente lei è una giovane donna afgana con burqa e rispettosa delle regole di vita afgane, lui invece è un eroe della guerra ma non sappiamo su quale fronte talebano è schierato, ma poco importa.  Rahimi ci racconta in un intervista  “ Nel 2005 sono stato invitato a partecipare a un incontro letterario a Herat, una grande città nell’Afghanistan occidentale. Una città rinomata per un passato culturalmente molto ricco, per i suoi poeti e i suoi intellettuali illuminati. Ma una settimana prima della partenza ho ricevuto una telefonata che mi annunciava l’annullamento dell’incontro: una giovane poetessa afghana, Nadja Anjouman, era stata uccisa dal marito. Nadja era una delle organizzatrici più attive del festival. Addolorato, colmo di indignazione, scandalizzato da questa vicenda definita un dramma familiare, sono andato là per indagare di persona.  E mi sono state raccontate altre storie – ancora più terribili, ancora più raccapriccianti -, sulla sorte di molte donne in quella contrada cosiddetta illuminata.  Avrei voluto incontrare il marito della poetessa in prigione.  Ma si era iniettato della benzina nelle vene. Era stato portato all’ospedale.  L’ho visto da lontano.  Era in coma. In quel momento avrei voluto essere una donna.  Avvicinarmi a lui. Parlargli piano in un orecchio. Dire tutto. Le cose più terribili, le più orribili. Come quelle che lui aveva fatto. Non è stato possibile avvicinarlo.  Dopo questa visita, ” les mots m’ont attaqué “, come diceva Duras. Volevo scrivere una storia, un’altra storia che non fosse il racconto della vita della poetessa. Volevo scrivere una storia scandalosa, la storia di una donna che vuole vendicarsi ! “

Atiq Rahimi ( alla sua seconda regia dopo “ Terra e cenere “ 2004 ) si è unito al grande autore di Cinema Jean Claude Carriere ( suoi gli script “ Diario di una cameriera “ di Bunuel, “ Valmont “ di Milos Forman, per citarne solo due ) e conoscitore delle tematiche mediorientali ( sua moglie è l’iraniana Nahal Tajadod, autrice del bellissimo “ About Elly “ ).  Ma pur con grande sensibilità e con eleganza di stile, Rahimi e Carriere hanno prodotto un film un po’ troppo didascalico, monotematico e troppo fedele al romanzo scritto; ne risulta un film che bisogna andare a vedere con consapevolezza e non per vedere l’ennesimo film sulla vita nell’Asia centrale.

La pietra paziente ( Synguè Babour ) nella cultura persiana, e afgana, è una pietra magica, alla quale si possono rivelare le proprie sofferenze, i propri segreti, e quando si è detto proprio tutto esplode in mille pezzi.  In questa storia “ la pietra paziente “ è il marito della donna che non può far altro che ascoltare e alla fine si ‘ rompe ‘.

Una giovane donna vive alla periferia di Kabul in una misera abitazione con due figlie piccole e accudisce il marito mujaeddhin che ha una pallottola nel collo e si trova immobilizzato e in coma.  La donna oltre che curare suo marito quasi fosse la sua serva, deve lottare con la mancanza di denaro, e quindi di cibo e anche di acqua.  Le sue escursioni fuori della casa, tra pericoli e rovine della guerra la obbligano a indossare con un gesto abituale un burqa che nasconde la persona; le mète sono la farmacia per tentare di avere la soluzione per il marito e cercare cibo e dell’acqua da bere e per poter scaricare il gabinetto di casa.  Ma sembra andare tutto storto e presa dalla disperazione, va a chiedere aiuto a una sua zia, ma la donna non abita più lì.  Dopo vari tentativi e molte insistenze riesce a sapere dove è andata a stare e la raggiunge in un bordello che la donna gestisce.  Quel posto così poco onorevole per un’afgana diventa un rifugio per la giovane donna e per le bambine, un luogo sicuro contro la fame e la guerra senza senso; quella zia in fondo è una donna saggia e amorevole, benestante ed evoluta, che già in passato l’ha aiutata in un momento di grave difficoltà personale.  A questo punto la giovane donna si sente più libera e torna a casa sua solo per vegliare il marito rimasto solo.  Un senso di libertà che le permette di lasciarsi andare e di confidare al coniuge malesseri, pensieri tra i più intimi e qualche segreto inconfessabile che altrimenti non avrebbe mai potuto svelare.  In questa parte del film inizia un monologo della donna, pensato ed espresso verbalmente, di stampo psicanalitico e coscientemente liberatorio, un po’ lungo e di stile teatrale; ma viene interrotto prima da un’irruzione da parte di due talebani armati e successivamente da uno dei due, il più giovane, delicato e balbuziente, che la paga per prostituirsi e tra i due nasce qualcosa di più intimo e profondo.   Questo tempo ‘ suo ‘, questa confessione al marito, rende la donna cosciente di sé e più forte, ma quando lei giunge a confessare la sua azione più imbarazzante e oltraggiosa verso l’uomo, il marito si risveglia e cerca di ucciderla, ma lei…

Una ottima interpretazione di Golshiften Farahani ( “ About Elly “, “ Just Like a Woman “ ), come ben scelti sono tutti gli altri personaggi che restano tuttavia sullo sfondo, una buona regia e una splendida fotografia mentre la storia – pur originale – resta troppo legata al testo scritto.

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