C’è un’opera di Andy Warhol che non conoscevo, finché non ho letto Olivia Laing parlarne in The Lonely City: Laing racconta che l’artista dei party aveva raccolto per anni gli oggetti e i detriti che le persone si erano lasciati dietro – vestiti, orecchini spaiati, un pezzo di pizza, i biglietti della metro che avevano ricoperto il pavimento della Factory – e li aveva sigillati in seicentodieci scatole, le sue Time Capsule. Non c’è personaggio più lontano da Kafka di Andy Warhol; tra l’alto e sgraziato scrittore di Praga e l’inventore delle celebrità non c’è praticamente niente in comune (anche se leggendo le rispettive biografie viene da dire che tra il desiderio di essere ovunque e quello di non essere affatto, non c’è poi grande differenza), eppure Questo è Kafka? segue lo stesso desiderio nascosto in ognuna di queste identity box, ricordare che certe figure una volta erano state persone, che avevano vissuto, come tutti.

Novantanove reperti: Reiner Stach, noto studioso di Kafka, nel corso della preparazione della sua mastodontica biografia, ha raccolto ricordi, aneddoti, note e racconti su Franz Kafka e ne ha tirato fuori questo strano libro, uno scrigno di quelli che si costruiscono a volte da bambini, fatto di oggetti raccolti per caso e dimenticati.

Così Questo è Kafka? (pubblicato da Adelphi) diventa un ritratto dello scrittore per tappe, quasi un’introduzione al resto del suo lavoro o un modo per ricordare che Kafka è esistito, fuori dal mito dell’autore che prima di morire aveva chiesto che tutti i suoi manoscritti fossero bruciati, il recluso, l’uomo goffo e gentile che una volta due bambini avevano scambiato per il diavolo (reperto 85).

Ci sono i registri di classe, le grandi foto degli aereoplani di Brescia (reperto 76), dove si ingrandisce l’immagine fino a ritagliarne la figurina sgranata che sembra assomigliargli, le lettere in cui lui, costretto da una vita a sottoporsi a dottori e cure, si dichiara scettico nei confronti della medicina tradizionale e dei vaccini (reperti 27 e 28) e i consigli d’amore che gli vengono rivolti (reperto 84); poi i bordelli, la birra di Milano che sa di vino, un’idea geniale che renderà lui e Max Brod milionari quando la metteranno in pratica, i casinò dove  invece perdono tutti i loro soldi: Questo è Kafka consegna un’immagine mossa e divertita dello scrittore, imprecisa come il colore dei suoi occhi (reperto 13) eppure esatta – ogni volta che si apre il libro si è certi di trovare lo stesso autore di cui ci si è innamorati da qualche parte tra La Metamorfosi e Il Castello.

Si parla tanto anche di scrittura e la sezione Leggere e scrivere serve a correggere l’idea di un Kafka che viveva nascosto: già nei primi annunci editoriali, si legge che  “Franz Kafka è da tempo noto a chi segue il cammino dei nostri giovani scrittori più promettenti” e se ne attendono le pubblicazioni con interesse; saranno pochissime durante la vita, ma i rapporti con Milena traduttrice, le correzioni di bozze di Un medico condotto (che pubblicato nel 1920, otterrà una sola recensione), tutto riporta all’immagine di uno scrittore perfezionista e ambizioso, a volte quasi incapace di rassegnarsi al suo talento. Reiner Stach si premura di ricordarci anche della celebre lettura pubblica de Nella colonia penale (tanto impressionante che sui giornali si scrisse, esagerando, di svenimenti e di spettatori in fuga), di fornirci di una pianta di casa Samsa e della lettera di un uomo che proprio non era riuscito a capire La Metamorfosi e che adesso era costretto a fornirne una spiegazione alle cugine e alla madre.

È questa la curiosa vita di Franz Kafka, sembra suggerire Stach, una cosa imprendibile e imperfetta: tutti questi frammenti di puzzle non formano nessuna immagine alla fine, se non il profilo fragile di una fronte intenta a elaborare un nuovo racconto di sé. I reperti sono, quindi, novantanove passi – uno in meno di cento – in nessuna direzione: c’è qualcosa di kafkiano nel non riuscire ad arrivare a un punto, a una definizione esatta; ma quell’uomo alto e sottile avrebbe sempre ricordato un’ombra, una figura sfuggente al lato dello sguardo.

Nel reperto n.70, Dora Diamant, l’ultima fidanzata dello scrittore, ricorda dei tempi berlinesi e di un Kafka che per consolare una bambina incontrata al parco, le scrive ogni giorno una lettera fingendo di essere la sua bambola scomparsa: voleva insegnarle cos’è la perdita, com’è che si lasciano andare le persone – lui sarebbe morto l’anno successivo al fianco di Diamant, stremato dalla malattia al punto di non riuscire a concludere un’ultima lettera per i genitori; aveva insistito perché non andassero alla casa di cura dov’era ricoverato, perché non c’era bisogno di prendersi quel disturbo, che ci sarebbero stati giorni migliori. Si sbagliava o, forse, voleva risparmiare a tutti una pena: aveva già redatto due testamenti un paio di anni prima della morte, chiedendo, si sa, a Max Brod di bruciare tutti i suoi scritti ancora esistenti. Brod, e si sa anche questo, non avrebbe mai esaudito il suo desiderio: la disobbedienza più dolce di tutte.

Franz Kafka verrà sepolto l’11 giugno 1924 nel Nuovo Cimitero Ebraico del quartiere praghese di Strašnice, raggiunto poi dal padre e dalla madre. A Milena, l’amatissima Milena, era toccato il compito di scrivere un necrologio in fretta e furia, di rimettere insieme i pezzi: questo libro conclude il lavoro iniziato quel giorno. Qui ogni cosa è Kafka

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