L’homme couvert de femmes è il suo esordio. Nella vita come nel romanzo. Letteralmente coperto di donne fino al punto di asfissiare la propria inquietudine esistenziale. Invano. Farsi divorare dalle donne come un Orfeo nero di malinconia e di simpatie politiche, segnate più dal nichilismo che da un concreto progetto di città. Invano. Nessuna progettualità vera, concreta, ma solo una questione di stile come per un dandy che si vergogna di non essere fino in fondo quel guerriero che sente fremere dentro sé.

Uno stile, quello fascista, su cui hanno scritto acute analisi Armin Mohler, Tarmo Kunnas e George L. Mosse, una sorta di visione onirica che accomunò tanta intellettualità europea tra le due guerre. Un sogno, tra slancio e delirio. Pierre Drieu La Rochelle fu tanto incarnazione esemplare di quello stile quanto preda perfetta del delirio che ne conseguì. Fu, il suo, un talento letterario tra i più puri di quell’estetica della politica che pensò di colmare con iniezioni di volontà di potenza il profondissimo vuoto scavato dalle trincee dentro l’anima di decine di migliaia di giovani catapultatisi da aspiranti artisti e scrittori nella fornace del fronte bellico. Tutto esplose e si consumò tra 1914 e 1918. Il resto fu fuoco fatuo.

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Al cospetto di Drieu la gran parte della schiera dei “maledetti” annoverati ufficialmente come tali nelle antologie di letteratura francese rischia di scomparire. C’è ben poca maniera nella prosa di Drieu. Nitida e tagliente di precisione, la sua scrittura bordeggia il nulla senza volerlo, anzi cercando di evitarlo o comunque di attraversarlo tramite la consistenza di corpi e di cose, di donne e di uomini, di natura. È un condannato che interiormente si compiace assai meno di quanto possa apparire dalle foto che lo ritraggono, con cui cerca di nascondersi, atteggiandosi a dandy fuori tempo massimo. L’entre-deux-guerres non è tempo da dandy, infatti, semmai da nichilisti attivi, come ben comprese Hannah Arendt chiamata a tirare le somme di quell’epoca incastrata fra due guerre mondiali. Si capisce la vera anima di Drieu solo seguendolo nell’intera sua produzione, soprattutto nel diario, negli epistolari e in alcuni romanzi come L’homme à cheval, pubblicato nel 1943 da Gallimard. È questo uno dei romanzi più esplicitamente allegorici dello scrittore francese. Vi si coglie immediatamente quella tensione tra l’azione ed una sua contemplazione eccitata. La medesima che dilaniò la vita di Drieu nei ventisette anni successivi alla fine della Grande guerra.

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Come in questo e in altri romanzi il lettore di oggi può apprendere moltissimo sullo stato d’animo dell’intellettuale europeo uscito dalle trincee nel 1918, sopravvissuto nel corpo, ma morto dentro, comunque orrendamente mutilato nello spirito. Forse ancor meglio, o peggio: soffocato, a corto d’ossigeno, di linfa vitale. In cerca di un’adrenalina per il cuore e per la mente che in tempi di pace non potrà mai essere di entità e potenza paragonabili a quella scaricata nelle vene e tra i nervi in tempi di guerra. Un’orfanità che sarà anche di Yukio Mishima, dall’altra parte del globo, alla conclusione della seconda guerra mondiale, in quel 1945 che il 15 di marzo aveva registrato il mesto addio di Drieu, suicida in modo grigio e piccolo borghese, dopo due tentativi falliti nell’agosto dell’anno precedente: staccato il tubo del gas, ingerita una dose letale di fenobarbital, viene ritrovato il giorno dopo dalla sua cuoca seduto in cucina, morto, impietrito vicino al lavandino. Una fine che rivela quel fondo patetico che trovi tra le pagine di molti suoi romanzi, nel diario, nel carteggio. Qualcosa di effeminato e di infantile circola velenoso nella tempra per altri versi virile e saggia di Drieu.

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Nel 1963 il regista Louis Malle fu l’autore di una riuscita trasposizione cinematografica di Fuoco fatuo, romanzo pubblicato nel 1931. Il protagonista della storia narrata da Drieu è l’amico Jacques Rigaut, scrittore dadaista suicidatosi nel 1929, a trent’anni, come si era da tempo ripromesso di fare, tanto da aver preso in precedenza le misure con un righello in modo tale da esser sicuro che la pallottola gli trapassasse il cuore. Nella pellicola del 1963 Rigaut, alter ego di Drieu, sua persistente musa sfidante, viene letteralmente incarnato da un bravissimo Maurice Ronet, affiancato da un’altera e melanconica Jeanne Moreau. Il tutto accompagnato dalla musica di Erik Satie, a completare la perfezione di quel film. A proposito di questa sua opera Malle ebbe a dire che il suicidio del protagonista poteva essere spiegato anche nei termini di un «rifiuto di diventare adulto […]. Non che non possa farlo, ma ha stabilito che non gli interessa».

Rifiuto di crescere, certo; ma c’è anche un irrefrenabile cupio dissolvi che, alle origini della nostra èra cristiana, troviamo in san Paolo, per il quale una tale espressione non significava affatto desiderio di morire, semmai di vivere pienamente, sciogliendosi dal corpo per essere con Cristo. Nel secolo in cui fresco era l’annuncio della morte di Dio il rovesciamento di significato di quell’espressione non poteva essere che totale: desiderio di operare il disfacimento di se stessi per consegnarsi sbriciolato nelle braccia del nulla. Autodistruggersi, ridursi a niente, tornare all’origine cava che nulla dice, nulla spiega, tutto risucchia. Non c’è senso, ma almeno sicuro è l’approdo al silenzio eterno della morte. Cessa così il brusio molesto di chi ostenta noncuranza nel vivere, il ticchettio infernale di un tempo sfrenato e vertiginoso perché non sai trovargli né capo né coda. Così ci precipiti dentro. Meglio allora levar la mano su di sé per assicurarsi la prima notte di quiete.

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Emmanuel Berl ci ha consegnato questo ricordo di Drieu, di cui era stato per lungo tempo amico e confidente: «Avido e disgustato, postulante e recalcitrante, desiderava tutto e doveva subito disfarsene, denaro gettato, donne lasciate, oggetti perduti… Come se volesse guadagnare solo per avere più cose da perdere». Drieu fu dunque scrittore colpito in pieno da una maledizione autentica, imperdonabile e inassolvibile. La maledizione come macigno che sfregia, altro che posa compiaciuta per mascherarsi da icona sublimata! Quando è davvero così, quando t’imbatti nell’artista affetto da maleficio, la prima tentazione è scansarsi, non certo affiggere un poster in camera e sognare cavalcate con valchirie. Chi avidamente compulsa le testimonianze lasciate da un maledetto espone se stesso a forti rischi. La reazione del lettore leale e genuino è di fastidio acuto, affiora un retrogusto amaro, un’acidità che irrita mente e cuore e rischia di corrodere entrambi. Lettura velenosa, quella di Drieu, che però mi spiega perché all’artista nichilista si perdona quel che non si può concedere al nichilista ordinario, di rango comune, privo di un qualche barlume di genio creativo, di minimo talento generativo.

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L’artista nichilista è la migliore contestazione del nichilismo. Per il fatto stesso che crea, che dà vita a qualcosa che aspira all’eterno, egli nega la negazione che canta in quanto artista. L’artista è artefice che mima il Creatore, può farlo in modo furioso, con l’intento iconoclasta del negatore e del barbaro distruttore, ma nell’atto di dar forma egli fornisce la più perentoria ed inequivocabile delle confutazioni. L’arte è di per sé creazione e, come tale, il mezzo contraddice il contenuto, almeno fino a quando la forma non si conformi del tutto al contenuto. Se però il contenuto è distruzione, a forza di essere negazione per la negazione, esaltazione dionisiaca quando Dioniso è stato già da tempo sbranato, così che non ci sono nemmeno più binari da cui deragliare sensi peraltro ormai ineducabili, ebbene, quando il contenuto è così ridotto, la forma finisce per essere anch’essa distrutta ed ecco che il nichilismo si mangia pure l’arte e l’afasia è completa, totale. L’arte che si fa concetto esogeno, tanto esterno da risultare estraneo. L’opera d’arte come zombie, come manichino in balia del critico e del direttore museale, dei loro allestimenti, delle loro didascalie. Siamo allo zenith del nichilismo.

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La resistenza sta nel ribadire quell’adesione al reale da cui Drieu, come molti altri esponenti della cultura europea novecentesca, tragicamente si congedarono. Nel suo sommesso e mediocre suicidio si rispecchia la voragine di senso dentro cui un’intera civiltà è precipitata tra il 1914 e il 1945. Un’Europa in completa confusione, che rifiuta se stessa e si suicida, proprio come Drieu. Urgono artefici di bellezze che rinnovino di forme classiche e contenuti fertili un continente che da vecchio s’è fatto decrepito e sterile.

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