tratto da Improvviso il Novecento. Pasolini professore.

Verso la fine degli anni Ottanta, in libreria, l’epigrafe di un romanzo mi colpì tanto da farmi invaghire della storia che non avevo ancora letto. Erano gli anni delle infatuazioni narrative, i libri erano un’eterna ricerca di risposte. Solo più tardi avrei capito che quello che nei libri si deve scovare sono le domande; allora c’ero solo io, i miei sedici anni, una libreria, un particolare dell’Incubo di Louis Yanmot, un’epigrafe: «Leone o Drago che sia, / il fatto poco importa. / La Storia è testimonianza morta. / E vale quanto una fantasia». Nel romanzo, poi, trovai una storia d’amore, le vette dell’«Appennino più scemo d’Italia», l’età di trapasso tra la lebbra e la sifilide. Che era poi l’idea dell’eterno sovrapporsi delle malattie alle cure degli uomini, in quegli anni di AIDS conclamato, il male assoluto, per noi.

Dentro le pieghe della Storia, in quei luoghi «più a sud che si può, però sempre dentro lo Stato Pontificio», si raccontava dell’«unico e tenerissimo amore» del giovane medico Tommaso Nicola De Tommaso per una donna bellissima e triste come la Annabel Lee di Poe. Quel medico, si diceva, aveva deciso «di aiutare i disgraziati, i quali hanno sempre avuto bisogno di poca sapienza per essere curati». E così Tommaso Nicola De Tommaso si fondeva con il ricordo del “Doctor Meyers” e di “Doc Hill”, degli epitaffi di Edgar Lee Masters che sentivo e risentivo su un vecchio giradischi scassato – presto sostituito da uno stereo giapponese – tutti i pomeriggi, cantati in italiano da Fabrizio De André. Il Pasolini dei miei primi anni si nascondeva dietro le miserie dei malati vecchi e nuovi, nel lazzaretto di De Tommaso. Da dentro le pagine un insonne parlava con le parole dello stesso Ovidio che studiavo al liceo, e io imparavo che di là dalle cronache ci sono le persone vere, se si ha abbastanza tempo e voglia di dargli una vita fuori dagli archivi. Vera o falsa che sia.

Ancora non sapevo, in quella primavera cittadina, che l’autore del libro era stato allievo di Pier Paolo Pasolini alla Francesco Petrarca di Ciampino. Dopo La lepre (questo era il titolo del romanzo), sarebbero arrivati il Giovanni di Un borghese piccolo piccolo, la «crisi pedagogica dei padri» e «le nevrosi dei figli cresciuti nella sfiducia dei padri» – come ebbe a scrivere Caproni – di Addio Lenin; i buffi di Benigni e di Albanese. Ma quello che mi viene in mente, adesso che sono al Teatro Vittoria, circondato da via Zabaglia e da via Franklin, a un salto dal Lungofiume, è solo il ricordo di quel Tommaso Nicola De Tommaso a metà strada tra la Storia e la fantasia. Davanti a me Vincenzo Cerami, nel camerino che, durante le repliche di Canti di scena, divide con Nicola Piovani. Insieme a De André, Nicola Piovani ha dato una musica ai dottori di Masters. Tutto ritorna, come in una sceneggiatura riuscita.

All’inizio di Fattacci lei scrive: «Di là c’è l’inferno. La linea di demarcazione, quasi invisibile, è segnata con la punta di un sasso sull’asfalto dissestato della mia infanzia, davanti al palazzo di via Benedetto Varchi 7, a Roma, nel quartiere Alberone». Vorrei partire da lì, da via Benedetto Varchi, e arrivare alla sua vita ciampinese. Perché io non so bene quando lei è arrivato a Ciampino. Se subito dopo la guerra, oppure appena prima delle medie con Pier Paolo Pasolini…

Io sono nato a Roma, in casa – in quegli anni tutti nascevano in casa – il 2 novembre del 1940. Proprio nel palazzo di via Benedetto Varchi, che è una stradina che sta vicino all’Alberone. All’epoca l’Alberone c’era davvero, era un albero grande grande. Qualche anno fa è caduto e hanno piantato un alberello che stenta a crescere: forse si rifiuta di farlo in mezzo ai rumori e al fumo. In quella casa ci sono rimasto fino a dieci anni, fino al 1950. I primi anni, quelli della guerra, sinceramente non me li posso ricordare. Ero troppo pic­colo. Ho però, davanti agli occhi, come delle macchie in penombra di alcune immagini che mi sono tornate per tanti anni e che hanno finito, col tempo, per diventare quasi degli incubi ricorrenti. Vedo una piazza, che poi è quella piazza… piazza Ammirato, che confina con via Benedetto Varchi. C’era una fabbrica, che adesso non c’è più. E mi ricordo le camionette, la celere, le donne che avevano collaborato coi nazisti e che erano state rapate a zero. Sono ricordi sfumati. In particolare mi ricordo che le strade ai lati di via Varchi, che era asfaltata, erano ancora di terra. Eppure stavamo in una zona di Roma che non era nemmeno, come si potrebbe pensare, la periferia più lontana. Certo, era periferia. Ma la campagna non cominciava proprio da lì. Già c’erano i primi accenni dei palazzoni che sarebbero venuti su negli anni successivi.

In un racconto che fa dell’immediato dopoguerra, a Ciampino, lei scrive, a proposito di sé stesso e dei suoi coetanei: «Nessuno di noi, in virtù dell’anagrafe, ricordava nulla della guerra. I nostri fratelli maggiori, invece, ne portavano ancora, nello sguardo, la cicatrice. Noi giravamo le spalle alle case diroccate, loro facevano fatica a voltarsi, ancora terrorizzati». Che è poi una sorta di “accettazione” delle macerie, un’idea della guerra vista “dai ragazzini” che trasformano in gioco le case distrutte e le buche delle bombe…

Infatti i miei ricordi veri della guerra sono più quelli di Ciampino che quelli di Roma. La mia prima infanzia è un’epoca che io vedo in penombra. Non tanto per via della fragilità della memoria, o perché è una memoria lontana, ma perché mi è rimasto il segno di quegli anni, un segno brutto, dominato dalla paura. Mio padre c’era e non c’era; era co­stretto a nascondersi. Io andavo alla “Garibaldi”, una scuola e­le­mentare che sta a via Mondovì, poco lontana dalla mia ca­sa di allora, e ho ancora oggi gli incubi, quando ci penso. Non so perché. Mi sentivo solo, spaventato. Ecco: di quegli anni ho solo l’immagine nitida di noi tutti – me e la mia famiglia – chiusi, con tutto il condominio, dentro un “luogo”, anche se non saprei dire, adesso, dove stavamo. Ricordo che c’erano delle fontane; le facce delle persone, stravolte. Le paure che avevo. Ma tutto all’interno di una quotidianità normale. Non c’è un episodio preciso.

Per i primi cinque anni della sua vita Vincenzo Cerami vede l’esistenza come una variabile di Roma. L’infanzia trascorre tra via Varchi e piazza Papi, Ponte Lungo e l’Alberone, un bersaglio verde ancora svettante in mezzo alle case. Le consolari che gli sfilano accanto a due passi sono una presenza costante, come costante è il vociare dei romani, l’affaccendarsi delle madri tra le bombe e la spesa. La guerra sfiora Vincenzo e gli passa vicino, come è normale per tutti quelli che nascono quando la guerra è l’unico modo di vivere, e non c’è tregua nei volti delle persone, il sonno è interrotto dalle sirene, ci si accalca ad aspettare il fragore, e il fragore non arriva, ma potrebbe arrivare. E quando la guerra finisce, rimangono le ombre scure sui muri della memoria, appena abbozzate, «come delle macchie in penombra». Fino alla fine della guerra, Vincenzo non ha idea che esista “un luogo chiamato Ciampino”. Una notte, per una fuga di gas, Vincenzo e i suoi sono costretti a correre in ospedale. Vincenzo è rimasto intossicato, e i medici consigliano ai familiari di portarlo fuori Roma, in campagna.

“Subito dopo la guerra mio nonno ha ricostruito una casetta, a Ciampino, sulle macerie di un’altra casa distrutta dalle bombe. Una casa piccola, con un orto di duemila metri quadri. Io non c’ero mai stato, prima della fuga di gas, anche perché quello era proprio il periodo della ‘ricostruzione’.

Ricordo questo primo viaggio a Ciampino come un viaggio mitico. Soprattutto perché è stato fatto su di un carro merci. Dalla stazione delle Ferrovie Laziali partiva un carro merci, noi ci siamo saliti sopra, ed è cominciato questo viaggio in mezzo alla campagna. Campagna che non conoscevo, che non avevo mai visto. E quindi mi sono trovato, piccolino, ad arrivare alla stazione di Ciampino. A piedi siamo arrivati in via Trento, dov’era la casa di mio nonno. E mi ricordo di questi grandi campi di lupini, gli orticelli, più o meno sparsi, gli alberi pieni di frutta. Entrammo in uno di questi orticelli, e io ho chiaro il ricordo della casa, proprio piccola: due camere, cucina e bagno. Dietro la casa c’erano un piccolo pergolato e un lavatoio. Le finestre dovevano ancora essere fissate. Tant’è vero che abbiamo mangiato su di una finestra, messa per terra, sui mattoni, a mo’ di tavolo.

Mentre i miei mangiavano io ho osato uscire fuori dal can­cello, un cancelletto piccolo… e mi ricordo che non c’era nessuno. Il silenzio assoluto.”

In Memoriale del convento José Saramago fa dire a Do­menico Scarlatti, quando parla con padre Bartolomeu de Gusmão: «Rimane il silenzio dopo la musica e dopo il sermo­ne, che importa che si lodi il sermone e si applauda la musica, forse solo il silenzio esiste davvero». Probabilmente ciò di cui si sente più il bisogno, durante una guerra, è l’idea del silenzio. Di un silenzio che ci possa stare attorno anche senza che ce ne accorgiamo, lontano da quel vago sentore di pericolo che ci accomuna agli animali, quando da ogni angolo potrebbe spuntare la canna di un fucile. E se questo va bene per un adulto, o almeno per chi ha conosciuto già il tempo in cui la mancanza di rumori non è che un riposo del mondo tra un boato e un altro, tanto più grande dovrebbe essere la scoperta del silenzio per chi non l’ha mai neppure previsto. Si tratta di uno stupore senza riposo, una pausa musicale tra la vita e altra vita, come la prima consapevolezza delle mani che si fa un neonato quando si tocca le dita, i polsi, e poi li muove, per cercare di capire a chi appartengano. Forse scrivere è solo l’eterno tentativo di dare una voce al primo silenzio che abbiamo sentito.

“Una delle prime cose che ho visto, oltre il cancello, sono state queste grandi buche che mandavano un forte odore di acido. Perché proprio lì accanto c’era una fabbrica di scarpe. Un grande capannone. Nelle buche delle bombe buttavano gli scarti della lavorazione, che avevano forme strane, un po’ come gli avanzi di pasta che rimangono quando si fanno i ravioli. Mi ricordo il viola di queste pelli trattate con gli acidi. Ce n’erano tantissimi, di questi scarti di tomaia, o di suola. Li raccoglievamo per giocarci. Ma questo dopo, quando ci siamo trasferiti definitivamente a Ciampino. Allora non conoscevo nessuno.”

Quindi lei tornò a Roma, dopo questa prima parentesi ciam­pinese.

Sì. Quello è stato solo il mio primo “incontro” con Ciampino. Poi siamo tornati in via Varchi. Dopo poco tempo, però, alla Garibaldi, la scuola di Roma, mi presi la difterite, una malattia particolarmente grave all’epoca. I vaccini c’erano, ma ancora non funzionavano bene. Fatto sta che hanno vaccinato me, poi hanno vaccinato tutta la scuola. Hanno chiuso la scuola, hanno vaccinato mia sorella, mio fratello, mia madre. Tutti quelli che erano stati a contatto con me. Rimanemmo a Roma, all’inizio, anche perché la malattia mi procurò una cecità temporanea.

Quando guarii del tutto i miei decisero di trasferirsi a Ciam­pino. Mio padre prese la “liquidazione” della casa; non perché fosse sua, eravamo in affitto, ma c’eravamo stati a lungo e la liberavamo… e con questa specie di liquidazione abbiamo cominciato a costruire, accanto alla villetta di mio nonno, un’altra cosa un po’ “megalomane”. Volevamo costruire una palazzina a due piani, per fare un negozio al pianterreno e andare ad abitare sopra il negozio. Ci siamo fermati, naturalmente, sotto. E siccome non avevamo soldi, le fondamenta le abbiamo fatte io, piccolino, mio fratello, mio padre, mio nonno. E un capomastro, che ogni tanto veniva ad aiutarci. Fondamenta larghe due metri, ovviamente, perché si pensava di tirare su un piccolo bunker. In realtà, fermandoci al pianterreno, questa cosa s’è rivelata un disastro.

Lei lo ricorda, quest’episodio, nel racconto sulla sua “adolescenza ciampinese”: «Io abitavo nella casa più brutta del paese e oggi pagherei chi sa quanto per poterla avere a disposizione, identica, con gli stessi poveri mobili, con lo stesso odore e circondata dagli stessi rumori».

Sì. E parlavo anche dell’umidità… Credo che la mia cervicale dipenda ancora da quella casa. La mattina mi alzavo molto presto, per andare a scuola, e dovevo asciugare i pantaloni, le camicie… Più che umida, era una casa bagnata.

Com’è avvenuto il suo incontro con Pasolini?

A Ciampino feci l’esame d’ammissione e mi iscrissi alla scuola Francesco Petrarca. La prima media non andò bene. Ero molto nevrotico, molto timido. Avevo perduto la vista per più di un anno. Per me era molto difficile parlare. Quando mi interrogavano non rispondevo neppure. Ero molto chiuso… In maniera anche un po’ patologica, a dire la verità… Non rispondevo. Furono costretti a bocciarmi, e ho dovuto ripetere la prima media.

Ma Pasolini non era ancora il suo professore…

Pier Paolo insegnava alla terza media, quando io facevo la prima. Mi hanno bocciato. Lui, lasciata la terza è venuto in prima e io me lo sono trovato come professore di italiano e latino. All’inizio dell’anno mia madre parlò con lui. Gli disse delle mie difficoltà; cercò di spiegargli che non ero un bambino molto sereno. Pier Paolo non le disse nulla. Però poi, in quei tre anni, con molta intelligenza pedagogica e anche, direi, psicanalitica, è riuscito piano piano a farmi diventare estroverso. Io sentivo la necessità di parlare con questo giovane professore, che aveva ventotto, ventinove anni. Che parlava una lingua così lontana. Aveva quest’accento… esotico… Aveva una grande grazia, ma anche una grande severità: quando si trattava di cose serie diventava molto austero e qualche volta persino furioso. E poi era la stessa persona con cui noi giocavamo a pallone o andavamo in gita a Fiorano. Io avvertivo la necessità di parlare con lui, perché sentivo che mi voleva bene e che mi stava aiutando. Anche perché, poi, mi sentivo davvero meglio. Volevo parlare ma ero timido, non riuscivo a parlare. In più lui mi metteva in soggezione, perché per me era proprio un marziano. Era giovane, un ragazzo vestito come noi; ci faceva lezione ma, nello stesso tempo, si sentiva la sua voce alla radio, che leggeva racconti…

Quindi da subito lei ha saputo della vita artistica di Pasolini…

Sì. Io lo ascoltavo alla radio, al pomeriggio. E, in verità, io la letteratura l’ho scoperta proprio così… È una cosa a cui ho pensato molto, in questi ultimi anni. Quando mi sono chiesto da dove nascesse il mio amore per la letteratura.

In “Confessioni di un invidioso”, racconto pubblicato nel­la raccolta La gente e letto (in parte) anche a teatro, in Canti di scena, Vincenzo Cerami scrive:

Tutto l’armamentario che ha fatto da corredo alla mia formazione di cittadino italiano, oggi posso dirlo con cognizione di causa, non mi è mai piaciuto. Mi ha costretto a una fatica inutile e inumana: quella di ricostruirmi intorno ciò che altri, più fortunati, hanno avuto in dono nel momento stesso della nascita. Malgrado tutto questo, alla mia infanzia e alla mia adolescenza sono profondamente affezionato.

Forse perché, come spiega alla fine del monologo, «non aver mai avuto privilegi, in fondo, è meglio che averli perduti».

“Mio padre era un maresciallo dell’aeronautica, lavorava al Ministero. In casa mia non c’erano libri. C’era solo L’Aquilone, che era poi la raccolta di libri dell’aeronautica di mio padre. I miei erano monarchici…”, racconta Vincenzo Ce­rami, sorridendo dietro il fumo della Merit. “È con Pier Paolo che ho scoperto che esistevano i libri. I romanzi, le poesie. Ro­man­zi che lui ci leggeva, a scuola, l’ultima mezz’ora di le­zio­ne. Non solo le poesie, da Dante a Bertolucci, Penna, Ca­proni… Romanzi interi.”

Come mescolava Pasolini il Dante dei programmi ministeriali con i versi di Bertolucci? Per dei ragazzi di undici, dodici anni, poi…

Non è difficile da capire. Lui ci presentava la poesia soprattutto come un evento linguistico. Come qualcosa che ci apparteneva. “La poesia – ci diceva – non è una cosa da studiare per fare i compiti”. Noi stessi dovevamo trovare la nostra problematica; almeno indovinarne, inventarne una, nostra, sulla base di quella logica che è la logica poetica. Naturalmente con i poeti contemporanei la questione era più semplice, probabilmente, perché con loro la lingua è, in pratica, la tua lingua. Questo non toglie che ci facesse anche studiare Dante. Pensa che sapevamo interi canti a memoria.

In “Storia a strisce”, un racconto di Cerami incentrato sulla trasfigurazione di un episodio autobiografico che Andrea, un “fumettaro”, riporta sulle sue tavole da disegno, il protagonista si chiede, in una riflessione metanarrativa sulla chiarezza di una sua citazione da Quevedo: «Non era chiaro, era espresso in modo troppo criptico il concetto che la realtà non obbedisce ad altre leggi che a quelle della rima. Si chiedeva: “Capirà il lettore da questa illustrazione che Anteo concepisce la vita come un processo linguistico e non come una pura e casuale esistenza di tutte le cose?”». E poco dopo, Andrea risolve la questione così: «Il lettore non comprenderà, ma almeno spero che leggerà questa scena con lo stesso spirito evocatore con il quale si coglie il sapore di una rima». Il monologo di un cinquantenne che vuole fissare l’ordine dei piani con cui si legge un’opera d’arte. In ricordo di un allievo di dodici anni che rimaneva stupito, insieme con i suoi compagni di classe, sentendo incatenarsi le parole le une alle altre nei versi dei poeti.

“Grazie a Pier Paolo ho capito di avere una vocazione narrativa. Non potevo impararla, ma l’ho scoperta proprio du­rante le medie. Il meccanismo è stato questo: io volevo comunicare con lui, però non riuscivo a farlo – come ti ho detto – perché mi vergognavo. Mi ricordo che una volta, addirittura, facendomi un coraggio da leone, andai da lui e, rosso rosso, gli chiesi cosa volesse dire ‘metempsicosi’. Perché avevo trovato questa parola difficilissima, e mi era sembrata un’occasione buona: avevo una ragione per andarci a parlare. ‘Lui fa il professore, me la deve spiegare’, mi ero detto. Pier Paolo rise molto, perché capì che era una scusa. Io me ne sono andato, mi sono letteralmente nascosto… Ben presto capii, però, e l’episodio di ‘metempsicosi’ era stata una conferma, che a lui piaceva molto ridere. E che io lo facevo ridere. Allora ho cominciato, ogni tanto, a dire delle battute, durante le lezioni. Mai direttamente a lui: qualcuno diceva una cosa e io, in qualche modo, ero una sorta di anticlimax. Questo è stato il mio primo passo di ‘avvicinamento’.

Di avere una vocazione narrativa vera e propria l’ho scoperto con un tema che ci ha dato, se non sbaglio, all’inizio dell’anno scolastico. Me lo ricordo ancora, perfettamente: ‘Che cosa avete fatto durante le vacanze?’. Ma chi le faceva, allora, le vacanze? Io mi ricordo di essere stato al massimo in campeggio, in quegli anni. E allora mi inventai di essere stato in montagna. E nel tema ho descritto una gita in montagna, cercando di metterci dentro una serie di episodi comici, sapendo che lo avrebbero fatto ridere. Dopo la prima rilettura, però, mi sono accorto che qualcosa non tornava; si capiva che non ero mai stato in montagna. Allora presi il testo e cominciai a inverarlo. Aggiunsi due o tre dettagli che, sebbene mi facevano pagare un prezzo narrativo, davano l’idea che io, in montagna, ci fossi stato davvero. ‘Perché uno che si ricorda questo dettaglio – mi dicevo – in montagna deve esserci stato per forza’. E mi ricordo che, con mia grande sorpresa, prese questo tema e lo lesse in classe. Gli unici voti belli che ho preso sono stati quelli in italiano scritto…”

Vi dava anche dei consigli tecnici, per la scrittura?

Pasolini mi correggeva – lo dico spesso, perché è la cosa che mi impressionava di più – quando ad esempio scrivevo, come tutti i romani, “strazzio” con due zeta. Ma mi segnava quest’errore in rosso. Mi spiegava che si scriveva con una zeta ma non lo considerava un errore grave. Perché non voleva frustrare la parte della lingua che in noi era viva. Usava la matita blu solo se scrivevamo banalità, dette per inerzia o, peggio, per captatio benevolentiae

Da un certo momento in poi i temi sono diventati una sorta di “dialogo a distanza”…

Sì. Io non vedevo l’ora che ci desse da fare i temi. Non tanto quelli letterari o storici quanto quelli liberi. Proprio perché potevo inventarmi delle storie che, tra le altre cose, lo facevano anche ridere. E quindi io ho scoperto attraverso quei temi di avere la capacità di raccontare. E, soprattutto, ho capito che cos’è la letteratura: inveramento, vale a dire creare artificiosamente un senso di verità attraverso la menzogna.

Anche nella Lepre lei inizia il libro fingendo di raccontare una «storia veracissima. Perché so che al lettore di bocca fina», scrive, «piace credere che niente esiste al di fuori di ciò che succede, e le cose non successe sono parole che volano come mosche, chi le capisce?».

È vero. Tant’è che la bibliografia finale è finta. Addirittura, in uno dei testi citati, Statera facta corporis, il nome del­l’autore è un mio anagramma: V. Armice, Vincenzo Cerami. Già l’epigrafe di Caproni spiega il senso del libro, se la storia «vale quanto una fantasia» tanto vale raccontare una storia di fantasia dall’inizio.

Allora anche le telefonate notturne di cui parla nel romanzo, quelle fatte al suo «amico esperto di parole antiche» – il filologo Aurelio Roncaglia – sono frutto di questo processo di inveramento attraverso l’aggiunta di dettagli…

Ovviamente non sono mai state fatte, quelle telefonate… Ho citato Roncaglia solo perché è un filologo. Lui si è divertito molto, quando ha letto il libro. Vedi: l’inveramento è veramente il segreto della narrazione. Con quel tema di cui ti ho parlato io ho scoperto per la prima volta che per dare la verità tu devi, per forza di cose, mentire. Devi ricostruire artificiosamente un sentimento che, in quel momento, non puoi provare. Tu l’hai provato, eventualmente, e nel momento in cui lo ricostruisci tu ricostruisci il “mito” di quel sentimento. Quando ho capito questo, ho scoperto l’artifizio della scrittura. E che l’unico modo che avevo, allora, di parlare con Pier Paolo, era quello di farlo attraverso i miei temi.

Nella Lepre, appena dopo la presentazione dei protagonisti, l’autore si concede una digressione e narra la fiaba della Menzogna e della Verità attraverso le parole che Patronio «da amoroso consigliere, dice al suo Conte Lucanor». «C’è la menzogna semplice», dice Patronio, «quando si promette di fare una cosa mentre già si sa che non la si farà mai. C’è poi la menzogna doppia: quando si giura da spergiuri. E c’è la menzogna tripla, il massimo della falsità. Ed è questa la frase che mi tormenta il sonno, che mi tradisce come sicuramente tradisce il candido Conte: “La menzogna tripla, che inganna a morte, è quella di chi mente e inganna dicendo la verità”». È un concetto caro a Cerami, quello filtrato attraverso gli anni direttamente da quel tema del ’52 fin dentro i suoi racconti, se anche nell’“Ipocrita” il protagonista spiega alla giovane e ingenua Mirella come ci si debba accostare al tavolo da lavoro, al momento di scrivere: «Il vero poeta è sempre cinico: i suoi sentimenti, che nei versi appaiono con forte e naturale slancio, non sono che simulacri, artificiose ricostruzioni».

E ancora, parlando del Pascoli: «Certo la morte del padre, così violenta e così straziante, quei sentimenti li aveva provocati. Ma molto tempo prima, non nel momento della scrittura. Il Pascoli che devi immaginarti, il poeta, prendeva carta e penna con lo stesso spirito di un appassionato di enigmistica, che passa il tempo a giocare con le sciarade, gli indovinelli e gli anagrammi. Tu, Mirella, fai l’esatto contrario: scrivendo non ti diverti, anzi ne approfitti per versare la­cri­me». E in “Ceci n’est pas une pipe”, un breve racconto in for­ma di saggio sul famoso quadro di Magritte, si legge: «D’altra parte la menzogna è la materia principale con la quale lavorano gli artisti».

“È molto importante, per me, la questione dell’artifizio nella scrittura. Ne ho parlato anche nei Consigli a un giovane scrittore”, mi conferma Cerami, “quando dico che, per uno scrittore, inventare significa ricordare qualcosa che non è mai accaduto o che è accaduto in parte.”

Dopo le medie il dialogo tra il giovane allievo e il suo professore continua per iscritto. Mentre frequenta il liceo scientifico Plinio Seniore, Vincenzo Cerami comincia a “scrivere delle poesiole” che porta a Pasolini, ogni tanto, andando in littorina da Ciampino a Roma, e poi in autobus, “prima a via Fonteiana, poi a via Carini”. Sono fogli dattiloscritti che Vincenzo lascia in lettura al suo professore e che torna a ritirare dopo “quindici, venti giorni”. Pasolini le legge, quelle poesie, scrupolosamente, ogni volta annotando con cura osservazioni e consigli. “Le lasciavo a casa sua. Poi tornavo a ritirarle. Lui aveva fatto delle annotazioni, ne parlavamo. Un solo segno vicino al verso significava che era buono; due, molto buono. Se c’era uno ‘sgorbio discendente’ di lato significava che i versi non gli erano piaciuti… E io conservavo tutto contento quei dattiloscritti”.

Durante gli anni del liceo, Vincenzo vede tutti i giorni Franco Avaltroni, che frequenta con lui la stessa classe, e, molto spesso, Maurizio Arcari e Luigi Ciappi. Tutti compagni delle medie che condividono con lui la passione per l’arte e la letteratura e il ricordo del professor Pasolini. “Ciappi aveva una cartoleria, a Ciampino. In via Roma. Adesso è diventata una profumeria. Arcari scriveva poesie e faceva musica. Ciappi scriveva poesie. Anch’io scrivevo. Per questo ci vedevamo spesso. La cartoleria di via Roma non vendeva libri. Noi, però, cercavamo di fargli comprare alcuni libri degli autori che all’epoca ci affascinavano di più. Machado, Garcia Lorca, Neruda. Ciappi li ordinava, noi li leggevamo – prendendoli ‘in prestito’ – poi glieli ridavamo tutti. Non avevamo una lira. E poi, però, i libri rimanevano lì, perché nessuno se li comprava. A Ciampino chi comprava Machado, allora?”.

I libri non se la passano troppo bene neanche adesso, mi viene da dire, perché malgrado gli sforzi iniziali l’unica libreria di Ciampino è diventata, per metà, un rivenditore autorizzato Omnitel.

Ho notato che in alcuni suoi libri lei parla espressamente di Ciampino e cita i nomi dei suoi amici dell’adolescenza. Penso ai massoni di Un borghese piccolo piccolo, al maresciallo Ciappi. Ai luoghi raccontati in Addio Lenin: «fu una bomba da piccolo / fuori di un rifugio al Sacro Cuore di Gesù / accanto ai sacchi di latte in polvere». O ancora: «E la farmaceutica? In via 4 novembre?»… Questo testimonia di un legame forte con il mondo della sua adolescenza…

A parte l’uso che è tipico, credo, di tutti i romanzieri – quello, cioè, di usare nomi “reali” per i personaggi – è vero che comunque questa umanità ciampinese, un’umanità piccolo-borghese ma “per bene”, seppure con l’inferno sotto, mi è sempre rimasta dentro. Come un punto di riferimento…

Proprio a proposito di questa visione dell’umanità che traspare dai suoi personaggi… Fu Italo Calvino a scrivere, nella presentazione alla prima edizione di Un borghese piccolo piccolo: «È una storia di vittime e nello stesso tempo di mostri, quella che Cerami racconta: vittime d’un assurdo che possiamo scegliere di definire sociale oppure metafisico senza che questo cambi nulla nell’oscura, quasi inarticolata determinazione con cui vi si muove chi non ha altro fine che il farsi largo entro un chiuso orizzonte». E lei stesso, nell’introduzione ai Racconti di fantasmi scrive, a proposito della «passione sfrenata per il racconto» di Charles Dickens: «È così trascinato da tale passione che l’universo dei dati sociali con cui organizza il materiale realistico delle sue pagine diviene pre-testo, pura occasionalità». Questo è ciò che lei nota come prima cosa in Dickens.

Ecco… in Consigli a un giovane scrittore lei ha premesso: «Qual è la mia poetica? Scrivere». Una dichiarazione di metodo molto netta. Però in questa visione del mondo incentrata intorno agli esseri umani, più che intorno al dato sociale – che diventa spesso un pretesto – io ho notato una sorta di filo conduttore che lega tutti i suoi libri…

Molto probabilmente questo è il punto cruciale della questione… Io ho sempre visto i miei personaggi con un sentimento che viene chiamato “pietas”… Sentimento che mi è stato dato da qualcuno… La verità è che io non riesco a non amare anche i mostri, perché ne cerco d’istinto la parte innocente, la parte che è stata castrata, coperta, frustrata, corazzata. Io parto da un principio, che è poi quello dell’Ecclesia­ste: «Anche un re nasce nudo». Per cui innanzitutto una persona è una creatura, fa parte della costellazione della natura, è un pezzo della natura, quindi in quanto tale è neutrale, né cattiva né buona. Ha l’innocenza di un sasso. Poi, dopo, arriva la cultura. Tu nasci e cresci. Dopodiché tutto dipende da come ti vesti, da quello che mangi, dalle persone che incontri. E ti vengono messi addosso degli abiti da cui non ti puoi liberare. Non puoi scappare, non c’è niente da fare. Né ti puoi difendere. Quando sei adulto puoi scappare. Ma appena nato, da piccolo, tu sei quello che vedi intorno a te. È per questo che io sono molto polemico anche con il neo-neorealismo. Perché se si pensa al neorealismo, agli sciuscià, ai ragazzini che si muovono tra le macerie della guerra, ti appare chiaro che loro non avevano un’idea di cosa non era una maceria.

Io stesso, e i miei coetanei, ci divertivamo ad arrampicarci sui ruderi. Metà dei nostri giochi d’infanzia li abbiamo fatti sulle montagnole di pozzolana: andavamo su e cercavamo di buttare giù quello che era arrivato in cima prima di noi. Quella era la felicità dei nostri giochi in mezzo ai cantieri. Certo, a un borghese dei Parioli che vede questi giochi nella pozzolana quegli stessi ragazzini sembrano delle persone inferiori… Allora ecco che, in questo caso, è importante comprendere la “cultura” o, meglio, la “sottocultura” che rende mostri persone che invece per me sono sante. Ogni essere vivente, per me, è santo. E questo sentimento sacro nei confronti di tutto il creato forse l’ho ereditato da Pier Paolo. In questo senso mi sento profondamente religioso, anche se poi provo un dolore potente che mi mette in conflitto con la realtà, così da amare e odiare contemporaneamente. Io ho sempre molto amato Giovanni, il protagonista di Un borghese piccolo piccolo, altrimenti non avrei mai potuto descriverlo. Eppure, se ci pensi bene, è un assassino e un torturatore. L’essere più detestabile che si possa immaginare.

Già nel racconto “L’assassino” lei fa dire al giovane omicida, un ventenne che aveva ucciso in preda all’istinto, e che invece era stato accusato di premeditazione dagli inquirenti: «Io stesso, nella solitudine della galera, finii per convincermi di aver organizzato una scellerata spedizione punitiva contro quel giovanotto». Finii per convincermi… E nella prefazione ai quattro racconti di Fattacci scrive: «La mia paura più ricorrente, ancora oggi, è di confessare un delitto mai commesso nella convinzione profonda di averlo commesso. Una lampada in faccia e confesso l’inconfessabile. E questo perché in un angoletto nascosto della nostra personalità c’è scritto che saremmo capaci di uccidere proprio perché siamo capaci di non farlo. Riconosciamo in noi il male che è negli altri, come fece Henry Jekyll fissando Hyde allo specchio».

E anche quella, la paura, la «capacità di non farlo» è una forma legittima, sacrosanta, di difesa… Perché non dovresti andare al di là della linea? Non ci vai perché di là c’è l’abisso. Di là c’è il mistero. Ma è lo stesso Dostoevskij a dire che la prigione è un punto fermo, per i criminali. È un obiettivo: puoi finirci dentro o puoi evitarla, però deve essere un punto fermo all’orizzonte. Se tu cancelli l’idea della prigione i criminali impazziscono.

Dickens, Dostoevskij, Stevenson… Leggendo i suoi libri si ha l’idea – penso in particolare al Don Attilio Paolocci della Lepre, che parla col protofisico indicando i versi di Ovidio in un vecchio volume – che i classici siano visti non solo come contemporanei, ma come veri e propri compagni di viaggio interni al testo. Che non abbiano valore solo nella concezione della storia ma che siano una vera e propria componente della trama.

Questo crea un rapporto metonimico proprio con quanto si diceva prima. Quando Pier Paolo ci faceva leggere gli autori contemporanei e, contemporaneamente, ci faceva leggere Dante Alighieri e i poeti antichi, noi li ponevamo tutti sullo stesso piano. Non c’era un atteggiamento filologico in un caso e puramente estetico nell’altro, solo per il fatto che si trattava di autori molto vicini a noi. Era ai nostri occhi un parlare di noi attraverso linguaggi diversi e forme – in quel caso poetiche – diverse. Anche oggi credo che questo sia l’unico modo di vivere la cultura. Un qualsiasi testo classico ha sempre una grandissima attualità; se non è attuale significa che non merita di essere annoverato tra i classici. Questa, tra l’altro, è una delle battaglie che conduco inutilmente da anni contro gli enti lirici, contro i teatri stabili che hanno museizzato la cultura, che hanno museizzato i classici. Li hanno chiusi in una teca e vengono semplicemente rispolverati e riproposti ogni tanto. E hanno, invece, chiuso spazi alle voci nuove. Ma non si dovrebbe mai dimenticare che se oggi ci sono i teatri lirici dove si mettono in scena le vecchie cose, questo accade grazie al fatto che c’erano dei contemporanei che raccontavano la loro contemporaneità.

Rossini, Verdi, Puccini… Anche loro sono stati contemporanei, una volta… Sono stati contemporanei e venivano rappresentati. A differenza dei contemporanei di oggi, che non si rappresentano. E se devo essere sincero, non sono tanto d’accordo neppure con l’idea che editorialmente le collane dei classici vadano separate dalle altre. Il classico va letto come se fosse stato pubblicato ieri. È ovvio che poi sono necessari dei rilievi linguistici particolari, però quando io leggo Ovidio, specialmente quando parla d’amore, mi sembra sempre che parli di cose universali. E attuali per questo.

Lei usa anche le lingue antiche, nei suoi testi teatrali. Penso al greco antico “rivisitato” di una canzone di Canti di scena, al latino della Pietà mescolato con una descrizione poetica della realtà quotidiana…

Sì, in Canti di scena c’è una canzone in greco antico. O meglio, è un testo che vuole riecheggiare un suono antico attraverso dei versi in greco: nella finzione scenica, è Esiodo che parla. L’uso del latino nella Pietà, invece, permette di esplicitare chiaramente il tema. Perché sono partito dalla liturgia dello Stabat mater, che di solito viene fatta con il testo latino di Iacopone da Todi. La pietà comincia con la traduzione dei versi originali in italiano, perché l’uso della lingua contemporanea mi permette di raccontare con normalità il presente. Nel testo io parlo di due madri, una nera e una occidentale, che piangono la morte del proprio figlio. Si tratta di due lessici e di due panorami completamente diversi: la traduzione mi porta con naturalezza a parlare dell’oggi senza un salto violento dal punto di vista linguistico e stilistico. Solo alla fine, all’apice della ninna nanna che le due madri cantano, parte invece lo Stabat mater classico, in latino, perché piano piano il canto “alto” delle due madri si solleva dalle ragioni contingenti e precise della morte dei loro figli – uno morto per fame, l’altro per un’overdose – fino a diventare un unico pianto, un unico dolore. Così il tema acquista da solo un tono sacro, perché si descrive il pianto, in senso platonico quasi, ed è per questo che ha un senso introdurre il canto latino della liturgia che chiude tutta l’opera.

A proposito del terzo mondo e dei rapporti con la cultura occidentale, lei, intervistato sulle possibilità che la cronaca di tutti i giorni offre ai romanzieri, ha scritto: «Quello da cui partirei per costruire il mio romanzo è uno di quei fatterelli che si notano appena nelle “brevi” della cronaca. È la storia di un premio letterario che si svolge in un paesino del Friuli. Una commissione sta esaminando una serie di racconti in friulano. Il più bel componimento, quello in cui la lingua friulana viene usata con maggiore abilità letteraria, viene scelto all’unanimità dalla giuria. Il giorno della premiazione, a sorpresa, si scopre che l’autore è un extracomunitario». Questa storia credo si riferisca alla premiazione, da parte della giuria del premio “Le Torate” di Cussignacco, del racconto “Fur dal timp”, in friulano, del tunisino Ridha Brahim. Anch’io sono rimasto affascinato da questa storia vera, quando l’ho letta sui giornali, e – credo – per gli stessi motivi per cui l’ha notata lei… Il dialetto friulano, la storia di un emigrante che, come lei stesso ha scritto, «arriva da noi come clandestino e trova lavoro come garzone di un mobiliere. Per integrarsi, per farsi accettare, si rende conto che deve imparare il dialetto locale. Così inizia a studiarlo». C’è la lezione pasoliniana, dietro questa storia?

Vincenzo Cerami ci riflette su per qualche secondo. “È mol­to probabile… Anzi…”, decide, “È sicuramente così… So­­lo che questi sono meccanismi inconsci sui quali non ri­fletto mai. Non per altro se non perché devo riuscire a mantenere intatta la mia parte istintuale. Nel momento in cui capisco certe cose, allora decido di non farle più, perché rischierebbero di diventare troppo riduttive. Però l’istinto è quello, sicuramente… Guidato dall’istinto io ho inconsciamente obbedito a questo legame antico. Ed era una storia talmente bella… Chiarisco i motivi del mio interesse per questo episodio alla fine dell’articolo, quando confronto le due immagini del giovane extracomunitario che studia il friulano e del figlio del mobiliere che va a lezione di inglese”. (“Quello che mi piacerebbe venisse fuori è l’immagine di questi popoli che vogliono rivendicare la propria identità regionale, però lo fanno in maniera astratta, e in realtà poi non insegnano neanche più ai loro figli il dialetto, perché preferiscono far studiare loro l’inglese.”)

Suggestioni pasoliniane sono spesso presenti, nei suoi testi. Penso, tanto per fare un esempio, all’ultima sceneggiatura scritta con Antonio Albanese, La fame e la sete. Se non sbaglio l’inquadratura del caseggiato dove abita Pacifico, il terzo fratello, con il particolare della targa “via dei Dimenticati” è proprio un omaggio a Pasolini…

Sì, sì, quella è proprio un’inquadratura classica pasoliniana. Richiama i cartelli stradali di Uccellacci e uccellini: «Istambul, km 4253»… o i nomi delle strade, «via Benito La Lacrima – disoccupato», «via Antonio Mangiapasta – scopino», messi a testimoniare che non bisogna per forza essere patrioti e poeti per farsi dedicare una via…

All’Università, mentre frequenta la Facoltà di Fisica, Vincenzo Cerami capisce di voler “lavorare a teatro” e decide di presentarsi, insieme con un suo amico ciampinese, Giancarlo Cappellari, a un colloquio al Teatro Ateneo. Vengono presi tutti e due come aiuto-registi. Non fanno in tempo ad aiutare nessuno, però, perché di lì a poco il Teatro Ateneo viene occupato. In quello stesso periodo, Vincenzo incontra Pier Paolo per strada. “Che stai facendo?”, gli chiede il professore. “Vorrei fare teatro”, gli risponde Vincenzo. “Ma non subito, credo. Abbiamo occupato l’Ateneo”. Pasolini gli dice che sta allestendo la Santa Giovanna dei Macelli di Brecht, al Quirino. “‘Se ti piace il teatro vieni al Quirino’, mi disse, ‘così puoi orientarti meglio… puoi dare una mano’. Mi ricordo che mi lessi tutto Brecht in pochi giorni”. Ma la Santa Giovanna non viene affidata a Pasolini. “Poi non se ne fece nulla, perché non vollero dargli i diritti di rappresentazione. Devi sempre ricordare quanto fosse odiato, Pasolini, soprattutto in quegli anni”. Sfumata la prima esperienza teatrale, Pasolini propone a Vincenzo Cerami di lavorare nel cinema. Nel Vangelo secondo Matteo è assistente alla regia. “In realtà dovevo soltanto fermare le macchine, perché non finissero nelle inquadrature mentre Pier Paolo girava”. In Uccellacci e uccellini, mentre Sergio Citti – conosciuto, insieme con Ninetto Davoli, nella casa di via Carini – si occupa della ricerca degli attori, Vincenzo Cerami, “più che altro”, aiuta Totò, ormai cieco, a imparare le battute.

Lei ha parlato di Totò con grande trasporto, scrivendo nei Consigli: «Stando alla testimonianza di chi ha avuto la fortuna di vederlo in teatro, il Totò che noi conosciamo, quello del cinema, non vale un decimo rispetto al comico ca­ricato a molla sulle tavole del palcoscenico». E lo ha posto a modello, insieme con Petrolini e Benigni, del suo saggio sull’improvvisazione comica.

Quello che mi ha folgorato, di Totò, quando l’ho conosciu­to di persona, è stata soprattutto la sua straordinaria capacità di creare comicità dal niente. Che è la cosa magica di Totò. E, a dire la verità, Pier Paolo aveva nei confronti della comicità un approccio eccessivamente letterario, un distacco che in qualche modo lo ingessava. Lui pensava di essere molto comico, ma non era vero. Era troppo letterato per potersi immergere completamente in quella dimensione reazionaria che è tipica del comico. Perché il comico deve essere profondamente reazionario. E questo Pier Paolo non lo avrebbe mai potuto accettare.

Totò ha una cecità permanente dovuta ai riflettori che l’hanno inseguito per tutta la vita, quando Vincenzo Cerami lo aiuta, scandendo le battute del copione una per una, a imparare a memoria i dialoghi. In realtà Totò cambia le battute ogni volta che le ripete. Lo stesso Pasolini lo lascia fare, durante le riprese, perché, come spiega Cerami, ad ogni ciak Totò ricordava “perfettamente tutto ciò che era successo fino a quel punto e che cosa sarebbe successo nel seguito. I suoi interventi creativi erano diretti alla forma verbale e lasciavano intatta la sostanza narrativa”.

“Io mi sono appassionato alla comicità e ai meccanismi che la determinano soprattutto dopo avere incontrato Totò. Quando ero ragazzo, ma anche al tempo dei film di Pier Paolo, Totò era considerato poco più di un guitto. Solo pochi – Fellini, ad esempio – lo apprezzavano veramente… Io penso, tra l’altro, che lui stesso non credesse molto nella propria genialità. Soprattutto da un certo momento in poi della sua carriera, quando cominciò a prendere venti milioni a film. Accettava qualsiasi sceneggiatura gli proponessero senza neppure leggerla. Girava un film dietro l’altro.

Va pur detto che il suo talento non dipendeva dal film. Gli bastava anche una sola sequenza che gli desse la possibilità di inventare, di improvvisare fino a farla diventare qualcosa di assolutamente unico. Infatti i suoi film più belli, secondo me, sono quelli come Totò a colori o Totò story (che è postumo, addirittura): i film che raccolgono tutte le sue gag migliori. Sono pochi ‘i film belli’ di Totò; forse quasi nessuno. Penso a quelli con autori come Monicelli, De Sica. Che però poi, se si va a vedere, non sono neanche comici. Guardie e ladri o L’oro di Napoli non sono film comici.”

Mi riesce difficile pensare a un Totò “inconsapevole” del proprio talento. È vero che è stato lui stesso a dire: «Credetemi, mai nella mia vita ho avuto l’ardire di paragonarmi a quel genio di Charlie Chaplin»; e, parlando di sé stesso e di Petrolini, «lo scritto rimane, un quadro rimane, anche un lavandino rimane. Ma le chiacchiere degli attori passano»… È anche vero, però, che fu sempre lui a prendersi una rivincita su critici e detrattori proprio con il nastro d’argento del 1966 per l’interpretazione di Uccellacci e uccellini, un premio che gli era arrivato, come scrisse in uno “sberleffo” di ringraziamento, «fra la capa e il cuollo»: «Ringrazio sentitamente la giuria dei critici cinematografici che hanno avuto la bontà di assegnarmelo, ringrazio le autorità intervenute, ringrazio ancora S.E. l’onorevole Andreotti, e a prescindere da tutto quello che ho detto io mi auguro che questo argenteo nastro mi sia di sprone a far meglio, se mi riesce. Ringraziando ancora una volta faccio a tutti tanti auguri per il prossimo Natale e il Capodanno, auguri estensibili a tutto il ferragosto».

Sicuramente dentro di sé Totò sapeva benissimo che quello che faceva nasceva dal puro talento, però sapeva anche che tutto questo non era riconosciuto da nessuno. Totò era considerato un attore in vernacolo, quando in realtà non c’era nessuno più lontano di lui dal dialetto. Quello di Totò era un talento metafisico. Anche perché la comicità non è mai vernacolare. Tutto puoi dire di Totò tranne che fosse “un comico napoletano”. Come di Petrolini, romano, con tutti i suoi non-sense, non puoi dire che “reciti in romanesco”. La comicità è la distruzione della sociologia, della psicologia, dell’ideologia. È bidimensionale; è come un fumetto. È la poesia del nulla. La glorificazione della morte fatta con allegria. È un’arte straordinaria. E nasce sotto le dittature, là dove la centralità del potere è più oppressiva. A me piace sempre ripetere che la tragedia è attica, la comicità latina.

Certo alle volte si arriva al paradosso, come nell’Italia di questi ultimi anni. Prima era molto più semplice fare la satira politica. Dai leghisti in poi non è più facile come prima trovare formule originali di satira. C’è già un’intera classe politica che si prende in giro da sola…

In una sua nota del 1971 sulla gag in Chaplin, Pasolini ha scritto che la «”gag” è generalmente un processo stilistico che vuole rendere automatica l’azione: un po’ come la ma­schera del teatro dell’arte vuole rendere automatico il personaggio». E poco dopo, a proposito del comico nel cinema: «Solo i films comici muti sono costituiti soltanto di gags. Essi sono dunque un fenomeno tecnico e stilistico a sé. Il cinema di Chaplin non assomiglia ad alcun altro cinema: è un altro universo». Lei ha detto che ha cominciato a riflettere sui meccanismi della comicità proprio in seguito al suo incontro con Totò, e ha dedicato una parte dei Consigli a un giovane scrittore proprio all’analisi e alla teorizzazione della drammaturgia del comico. Come ci si pone di fronte alla scrittura di un testo comico che, evidentemente, non può essere costituito da sole gag? Pasolini stesso ha sottolineato che «nei films parlati di Chaplin» si perde quell’«originalità assoluta» che è invece evidente nei film muti, perché «in comune con gli altri films ci sono i dialoghi: i quali sono la negazione delle “gags”».

Bisogna principalmente tenere presente che la gag, in par­tenza, è un’incongruità linguistica. È una cellula estranea in un corpo ordinato e coerente. E la comicità, secondo me, ha trovato nel cinema il suo brodo. Perché la macchina da presa ti permette di gestire una scena in movimento e, nello stesso tempo, di andare nel dettaglio attraverso il montaggio. Il cinema è in grado di cambiare ambiente in continuazione, di riprendere (ed evidenziare) tutto ciò che in teatro, ovviamente, sfugge. Puoi vederlo, il dettaglio del “piede che si poggia su una buccia di banana”. È per questo che la comicità, con il cinema, è diventata meravigliosa. La gag è il segreto della risata, e dato che un’opera comica deve far ridere il più possibile, è necessario che sia costituita da una somma di gag. Il problema nasce dal fatto che non si posso­no fare solo gag meccaniche. Parecchie gag vanno co­struite attraverso tutta una serie di meccanismi comici. C’è il “tormentone”; c’è il meccanismo “della sposa e della cavalla”, ovvero il fraintendimento, il malinteso. Tutte cose già usate da Plauto più di duemila anni fa. Questi meccanismi, in un film comico, vengono messi in ordine. Ed è proprio nelle parti prive di gag che la gag va preparata. In quei punti il film rischia di essere molto noioso. Allora bisogna fare in modo di rendere interessanti questi intervalli. Tutta la fatica non sta soltanto nel trovare le gag (cosa di per sé molto difficile, nel genere comico: perché, a voler essere sinceri, «le ha già pensate tutte Chaplin»…). Il problema è scrivere anche le “fasi preparatorie” secondo strutture drammaturgiche originali.

Dopo Uccellacci e uccellini lei ha continuato a collaborare con Pasolini, e l’ha aiutato nella sceneggiatura di Teorema

Quando Pier Paolo ha scritto per il cinema non l’ha mai fatto proprio da solo. Ha sempre avuto bisogno di qualcuno che gli facesse da “muro”. E, naturalmente, Sergio Citti – che l’aveva assistito nella scrittura altre volte – non poteva essere utile in un film come Teorema, perché si trattava di descrivere un mondo che non gli apparteneva. Dopo l’esperienza fatta sui set del Vangelo e di Uccellacci e uccellini, con Pier Paolo c’è stato un salto qualitativo anche sul piano affettivo. Quindi, per il nuovo film, pensò a me. All’inizio lo aiutavo in maniera puramente meccanica: Pier Paolo stava alla scrivania, io mi sedevo davanti a lui con il registratore acceso e lui mi raccontava il film passo per passo. Mentre mi raccontava io prendevo degli appunti. A casa rileggevo gli appunti, sbobinavo la registrazione e poi, quando avevo finito, tornavo da lui. Ogni volta che mi rendevo conto di contraddizioni o di doppi sviluppi della trama glielo segnalavo, e gli facevo notare anche le parti del racconto che non riuscivo a capire o che non si collegavano col resto della sceneggiatura. Lui, ogni volta, per spiegare a me le idee che voleva mettere nel film, correggeva e riscriveva le varie parti del testo. È per questo che durante il lavoro Pier Paolo aveva bisogno di un’altra persona che gli ponesse dei problemi di “comprensione”.

Scrivere per il cinema è un lavoro molto delicato. La cosa più difficile da fare è quella di riuscire a far passare sullo schermo quello che veramente si vuole far passare. Certe volte tu credi di fare un film, poi lo vai a vedere e te ne trovi di fronte un altro, completamente diverso. Per questo è necessario avere accanto qualcuno che ti faccia da “muro”, ap­punto, come si dice in gergo; qualcuno che “ti rimandi” le cose. Con Pier Paolo ho fatto proprio questo lavoro; e ho cominciato a imparare “dall’interno” le regole fondamentali della scrittura cinematografica. Già sul set avevo potuto assistere alle riprese (che sono, poi, una sintesi di tanti lavori precedenti), ma ho cominciato solo durante la stesura di Teorema a pormi una serie di problemi di carattere stilistico. Seguire una costruzione drammaturgica soltanto sul piano della sequenza delle immagini è stato per me una scuola importante. Da allora in poi ho trovato il coraggio di cominciare a scrivere delle sceneggiature per conto mio. Sceneggiature che ora saranno nei cassetti, forse… non so neppure dove. Episodi di mezz’ora, per lo più. Erano degli esercizi…

E dopo l’esperienza di Teorema, quali sono state le prime sceneggiature che ha scritto?

Per un po’ di tempo ho fatto il “negro”, perché avevo bisogno di guadagnare. Stavo ancora a Ciampino, in quegli anni. Ero molto povero, dormivo a casa di mio fratello, e allora ho cominciato a fare il negro: scrivevo per altri sceneggiatori famosi, che poi firmavano le sceneggiature. Ho scritto tanti film sulla mafia, film di guerra. “Guerra e mafia”, soprattutto. E western. Sempre negli anni Sessanta, fino al ’69, quando sono andato in Giappone a fare il gag-man

Lei ha scritto che per più di un anno ha fatto il gag-man negli Stati Uniti…

Sì. Sono stato prima negli Stati Uniti e poi in Giappone… Nell’ambiente cinematografico girava voce che fossi velocissimo a scrivere sceneggiature. A una co-produzione italo-americana serviva assolutamente qualcuno che scrivesse velocemente perché c’erano dei problemi con le scadenze dei contratti. Avevano già provato altri tre scrittori, ma tutti e tre erano “crollati”. E allora hanno provato anche con me. Mi hanno mandato a New York. Da Ciampino a New York. Il primo aereo che ho preso in vita mia è quello che m’ha portato a New York… e lì ho scritto il soggetto e la sceneggiatura per un film che era ambientato in Giappone.

C’è una lettera del 7 ottobre 1972 in cui Pier Paolo Pasolini presenta a Mario Gallo un trattamento cinematografico scritto da lei, «provvisoriamente intitolato», scrive Pasolini, «Vieni, dolce Umanesimo». L’idea di un “neoumanesimo” è presente sin dall’inizio, nella sua produzione… Mi può dire se quel progetto, poi, è stato realizzato?

No. In quegli anni no. Si trattava di un mio racconto, che volevo adattare per il cinema perché sapevo che non lo avrebbero mai pubblicato. Questo prima di Un borghese piccolo piccolo. Questo racconto, “Vieni, dolce Umanesimo”, era in realtà il primo abbozzo della Lepre. Era già La lepre, praticamente. In quella prima versione avevo ambientato in Francia tutta la vicenda, perché ero stato influenzato dalla lettura della Storia della follia di Foucault. Proprio parlandone con Pier Paolo lui mi consigliò di “spostarla” dentro i confini dello Stato pontificio, perché questo mi avrebbe permesso il recupero di una lingua a me più familiare. Il film, in realtà, è uscito parecchi anni dopo, nel 1987, con il titolo La coda del diavolo e con un’ambientazione francese. Mentre lavoravo alla “riscrittura” del racconto – anche perché io mi porto dietro i romanzi per anni, alle volte per decenni – uscì il Borghese, nel marzo del ’76. La quarta di copertina avrebbe dovuto scriverla Pier Paolo. Aveva le bozze del libro sul suo tavolo. Poi, invece, alla fine del ’75, Piero Gelli mandò le bozze a Calvino. E la scrisse lui. Pier Paolo però aveva fatto in tempo a parlarne, del Borghese, nella sua rubrica letteraria su «Tempo illustrato»…

Nelle sue considerazioni di “fine anno” apparse su «Tempo illustrato» del 23 dicembre 1973 – pubblicate, insieme con gli altri articoli letterari, nel volume postumo Descrizioni di descrizioni – Pier Paolo Pasolini rivela di es­sersi accorto che, salvo poche eccezioni, in un anno non ha «par­­lato nemmeno una volta dell’opera prima di un giova­ne». Dopo aver passato al vaglio un ristretto «elenco di o­pere pregevoli di trentenni» (quattro in tutto, per Pasolini), aggiunge: «L’istinto consolatore mi ha poi fatto correre col pensiero a dei manoscritti di giovani che ho qui a casa mia: una sceneggiatura, di alto livello intellettuale, dovuta a Sandro Gennari, e un bellissimo romanzo neocrepuscolare, atroce (Un borghese piccolo piccolo) di Vincenzo Cerami».

“Quando finii di scrivere il Borghese, Pier Paolo, che stava passando dalla Garzanti alla Einaudi, mi chiese se preferivo dare il manoscritto in lettura alla Garzanti, dov’era stato per anni, o alla Einaudi, la sua nuova casa editrice. La prima cosa che mi venne in mente, quando mi fece questa domanda, fu il ricordo di quando con lui, a Roma, eravamo andati in giro per le librerie. Per andare a vedere il suo libro in vetrina, Ragazzi di vita. Edito da Garzanti. Lui si era emozionato tanto, nel vedere un suo libro in vetrina per la prima volta, e quest’episodio mi era rimasto così impresso, che io risposi senza alcun dubbio Garzanti, quando mi chiese a chi inviarlo. Perché anch’io volevo provare la stessa emozione di quel giorno, con il mio primo libro. Alla Garzanti il libro rimase tre anni, prima della pubblicazione.”

Nei suoi racconti degli ultimi anni, accanto a esercizi di stile e giochi linguistici (penso soprattutto alle parole viste come entità in “Giorgio e Matteo”) mi è sembrato di notare una ricerca espressiva fondata su una vera e propria “rastremazione” della parola scritta, una progressiva parcellizzazione del reale che tende a far risaltare il non detto – la zona d’ombra che avvolge le storie – attraverso una sorta di cono di luce proiettato sui singoli personaggi, sulla particolarità delle vicende raccontate. Nel prologo di Canti di scena lei dice di «credere ormai soltanto alle parole che non parlano»; e anche nella “Cantata del fiore”, quel che rimane, dopo la morte di Narciso, è solo un eterno silenzio cosmico sottolineato dalla voce in musica di Eco.

In effetti non si può non pensare al silenzio quando si pensa alle parole. Perché la parola si scolpisce sul silenzio, prende senso proprio dal fatto che riluce in filigrana attraverso il silenzio. Anzi: la parola è al servizio del silenzio, perché è la parte che del silenzio riesce a venire a galla. È la parte che emerge; ed è fatta di parole. Parole che, nel caso della letteratura, vanno soltanto lette in silenzio. Così come sono state scritte. E naturalmente la retorica della parola scritta “in silenzio” per essere letta “in silenzio” è una retorica complessa e ha una logica non sempre codificabile. Siamo in presenza dell’idea di una voce che è solo trasognata. Perché uno scrittore non recita le parole che scrive. Guai anzi se lo scrittore dovesse pronunciarle, quelle parole, perché allora la sua voce vera finirebbe per ridurre il senso di quello che scrive. Ridurrebbe l’“oggettualità” delle parole. Quando si vuole trovare “la parola giusta”, questa va cercata in rapporto al silenzio: deve saper raccontare quanto il silenzio.

È il silenzio che cerca una verbalizzazione possibile all’interno di un codice estremamente repressivo. Repressivo e anche regressivo, perché in quel silenzio noi non pensiamo attraverso la grammatica italiana, col soggetto e il predicato; dobbiamo invece cercare di tradurre qualcosa – e di verbalizzare qualcosa – che verbalizzato non è. Dobbiamo trovare il modo giusto per raccontare qualcosa che non ha parole. E il paradosso sta proprio nel doverlo fare solo con le parole. È allora che ci si rende conto che, per esempio, raccontare in maniera immediata e pedissequa quello che ci salta in mente con una frase che ce lo illustri semplicemente, ti fa scrivere soltanto una frase bugiarda. Non riesce veramente a darci il senso di quello che vogliamo dire. Perché quello che vogliamo dire è più complesso; e non ha parole. Ogni volta devi trovare nel codice linguistico la formula giusta; la sintassi – lo stile, in realtà – che ti permetta di essere il più vicino possibile a questo impulso, a questa “frase che vuoi dire”.

In un suo scritto sul cinema del 1967, “La paura del naturalismo”, Pasolini scrive: «Il facchino di un film – a differenza del facchino del cinema che è un facchino vivo – è un facchino morto. Non appena uno è morto, infatti, si attua, della sua vita appena conclusa, una rapida sintesi. Cadono nel nulla miliardi di atti, espressioni, suoni, voci, parole, e ne sopravvivono alcune decine o centinaia. Un numero enorme di frasi che egli ha detto in tutte le mattine, i mezzodì, le sere e le notti della sua vita, cadono in un baratro infinito e silente. Ma alcune di queste frasi resistono, come miracolosamente, si iscrivono nella memoria come epigrafi, restano sospese nella luce di un mattino, nella tenebra dolce di una sera: la moglie e gli amici, nel ricordarle, piangono. In un film sono queste frasi che restano». Di là dagli appunti teorici sul “mezzo” cinematografico, ho sempre pensato che queste parole in realtà nascondano una riflessione sull’essenza stessa dell’arte. Il fatto che solo alcuni momenti diventino “momenti raccontati”, solo alcune voci, scelte, diano voce ai romanzi, alle poesie, ai film…

La scrittura tenta di mettere in scena qualcosa che è rimosso ed è nascosto nel silenzio. O meglio: nel nostro silenzio. Noi passiamo l’ottanta, forse il novanta per cento della nostra vita in silenzio. È il silenzio stesso a offrirsi come vera e propria fusione di horror e amor vacui. E il contraltare del silenzio è la parola come storia. Perché le parole non sono qualcosa di morto. Una lingua è qualcosa che vive, si rinnnova e che racconta la Storia. Nel momento stesso in cui la parola perde significato, si svuota, rimane un guscio senza più contenuto ed è anche la fine del senso della Storia. E questo vuoto è la morte, il nulla. L’idea di questa specie di buco nero, di abisso intorno al quale si agitano tutti quelli che ormai non hanno occhi che per quel buco nero. Invece la vita è tutto un non vedere. È questa la meraviglia della vita: la vita è una distrazione.

Lei ha scritto, a proposito delle Ceneri di Gramsci: «Il metodo di lavoro di Pasolini è piuttosto complesso ed è speculare a una concezione magmatica e dinamica della scrittura, che deve essere totale, accogliere tutto, versi e prosa: dal frammento lirico alla confessione; dalle scene di un testo teatrale all’abbozzo di un romanzo o di un saggio, dal diario al fatto di cronaca, all’esercizio stilistico, eccetera. Ma lo spirito con cui egli continuamente ritorna sui materiali, inseguendo il presente, è quasi filologico». Ecco: in questa idea di una “scrittura totale” – pur nelle differenze sostanziali di interessi e di gusti –, di una scrittura che passi dai versi di una poesia alla prosa, alla sceneggiatura, c’è, in qual­che modo, una comunanza tra lei e Pasolini…

C’è sicuramente. Non solo: io faccio continuamente degli “spostamenti”. Il racconto “Confessioni di un invidioso”, apparso sul «Messaggero», è diventato prima un racconto del­la Gente e poi un pezzo di Canti di scena. E in questo passaggio da un’opera all’altra è diventato, obiettivamente, un’altra cosa. C’è stato un passaggio dalla retorica scritta a quella parlata. Dalla letteratura al teatro. E mi piace molto, fare queste cose. Anche l’introduzione di Canti di scena – che poi è una dichiarazione di poetica – è tratta da Addio Lenin.

Anche Pier Paolo, quando aveva un’idea per un’opera, si metteva a lavorare nel pieno della prima foga, seguendo l’entusiasmo della creatività. Spesso lavorava su più testi diversi. Alcuni di questi testi andavano un po’ alla deriva, li abbandonava dopo qualche tempo… Però li usava come appunti, come serbatoio di idee e di materiale. È per questo che, puntualmente, idee pensate per un’opera si ritrovavano in un’altra, riadattate, “cambiate di segno”…

Mi viene da pensare alla “Rondinella del Pacher”, il racconto pubblicato la prima volta nel 1950 con un’ambientazione friulana e poi trasformato nell’episodio della rondine in Ragazzi di vita

E questo, naturalmente, richiede un lavoro di tipo psicologico, culturale. Si trattava di operare uno spostamento di immagini dal Friuli alla Roma di quegli anni, utilizzando l’unica cosa in comune tra i due mondi: la descrizione di “ragazzi poveri” del Tagliamento, da un lato, di “ragazzi poveri” delle bor­gate, dall’altro. Il romanesco è stato sostituito alla lingua ma­terna: quindi c’è stato un “salto mentale”, conservando, in­tegro, il comune denominatore di sempre. Comune denominatore che è dato dalla “religiosità”; da un sentimento di pietas che accomuna tutti.

Di là dagli insegnamenti di “metodo”, dalla visione di una pietas che accomuna tutti gli esseri umani, il mondo che lei ha raccontato nel corso degli anni è in molti aspetti completamente diverso da quello pasoliniano.

C’è stato un progressivo allontanamento. All’inizio le prime poesie che scrivevo erano molto “pasoliniane”, per forza di cose: perché volendo piacere a lui, era ovvio che cercassi di scrivere in un modo che sapevo gli sarebbe piaciuto. Lui, con estrema normalità, senza dirmelo mai apertamente – e questo è forse il più grande insegnamento che m’ha dato Pier Paolo – mi spingeva a parlare di cose mie, di cose che conoscevo direttamente. Il punto centrale è questo: lui non ha mai utilizzato la piccola borghesia come materia espressiva, l’ha rimossa totalmente. Perché, come sai, ha voluto da un lato descrivere la condizione dei sottoproletari – di quello che chiamava il popolo – e dall’altro attaccare l’alta borghesia.

Nelle sue opere non esiste la piccola borghesia. Perlomeno non è mai stata trattata nei modi in cui in genere si tratta la piccola borghesia: cioè attraverso un rigoroso mimetismo linguistico, una regressione a una lingua piccolo-borghese. Io ho fatto esattamente l’opposto, ho assunto tutto questo, me ne sono fatto carico “sporcandomi le mani”…

Un borghese piccolo piccolo, in effetti, è una sorta di affresco della società italiana degli anni Settanta visto attraverso gli occhi di un uomo assolutamente “medio”, almeno prima della sua tragedia personale…

E anche la struttura del romanzo è lontana dallo stile narrativo di Pasolini. Pier Paolo ha quasi sempre usato la prima persona – nei poemetti, specialmente, perché è il modulo stilistico che per sua natura si attaglia alla scrittura autobiografica – io quasi mai. Preferisco sempre nascondermi dietro la terza.

In Addio Lenin, che è poi un romanzo in versi, c’è questa volontà di allontanamento dalla materia trattata, anche nei richiami marcatamente autobiografici.

In Addio Lenin ho usato, in sostanza, il discorso in­diretto libero. Stilema che Pasolini non poteva utilizzare a fondo, perché era quasi inaccettabile, per lui, l’impossibilità di immedesimarsi, nei versi, con la materia trattata. Se invece pensi al romanesco di Pier Paolo, il dialetto sembra quasi impiantato artificialmente su quella materia. E rende i racconti di Ragazzi di vita forse ancora più belli, perché sfidano il tempo congelati, tutto sommato.

Lei parla di racconti romani, per definire Ragazzi di vita e Una vita violenta, non di romanzi…

Perché Pasolini non è un “narratore”. Romanzi nel senso proprio del termine non ne ha mai scritti. Il romanzo è borghese, ha una struttura chiusa. Rifiutando la società borghese lui ha potuto usare solo una struttura pre-borghese. Per lui entrare nei personaggi, nelle psicologie, in una storia che si chiude, significava accettare e assumere tutto il lessico, l’universo piccolo-borghese. Mondo che lui rifiutava ideologicamente; anzi: era il nemico. La sua intesa con Citti – che ha una poetica pre-borghese, una visione picaresca e “a episodi” del mondo – va ricercata proprio in questo atteggiamento di Pier Paolo nei confronti della realtà. Nel mio caso è completamente diverso. Io, ripeto, ho voluto farmi carico dell’universo piccolo-borghese. Io cerco di chiudere una storia, sempre. Il mio approccio al romanzo è di tipo classico, dickensiano, appunto, cechoviano.

Pier Paolo è stato il mio grande maestro e io ho colto da lui tante cose che hanno formato il mio modo di guardare il mondo. Ma nella scrittura ho preso la strada opposta: la terza persona, una visione “dall’esterno” del racconto, la fuga dall’immedesimazione. Io non ci sono mai nelle storie che scrivo. Per me la letteratura è una cosa, la vita è un’altra. Per Pier Paolo letteratura e vita erano la stessa cosa.

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