Abbiamo visto E ora dove andiamo? regia di Nadine Labaki.
Si va a vedere un film libanese di una regista-attrice, con un titolo che sembra un’analisi politica post panarabismo, con un manifesto che mostra una bella donna mediorientale, sola, forse confusa, vestita di nero e con un sole sullo sfondo sfocato di una terra arida, e forse pensiamo al solito rigoroso film dal tocco femminile (nonostante l’unico altro film realizzato dalla Labaki sia

“Caramel” una storia di cinque donne in un negozio di parrucchiere). Invece incrociamo un misto di Roberta Torre, un Germi Anni Sessanta (nella presa in giro di stereotipi sociali), qualche gag da Commedia all’Italiana, qualche caduta di stile, un buon gusto dell’immagine e molta fantasia al potere. La scelta poi di raccontare i conflitti interetnici e religiosi libanesi (tra Cristiano-maroniti ed Hezbollah-partito di Dio) tenendoli completamente sullo sfondo e riverberati sulle semplici persone di un paesino sperduto tra le montagne rendono questo film sia spiazzante che ondivago nel racconto e nella messa in scena. Anche la scelta di iniziare con una specie di musical terzomondista, (molto suggestiva la scena iniziale di un funerale senza bara e con sole donne in nero che avanzano battendosi il petto, sul genere tragedia greca) e poi riprendere un altro paio di volte il genere ‘musical’ senza tuttavia darne un contenuto stilistico costante e coerente, sembra confermare una regia più piaciona che originale, e che abbia voluto spiazzare tutti i ‘punti fermi’ di un certo tipo di Cinema.

La storia, a volte frammentaria, e senza punti di conclusione narrativa (l’innamoramento della bella cristiana con il giovane muratore mussulmano o l’arrivo di cinque ballerine che dovrebbero chissà cosa fare, su tutto) è ambientata in una zona montuosa del Libano – ma potrebbe essere in qualsiasi punto del Medioriente se non fosse per le due comunità religiose – in una piccola e semplice comunità modesta ma non indigente. Dove non c’è ancora la televisione, ma il sindaco ne possiede una in bianco e nero; dove si può saltare su una mina se si va in giro tra le montagne; dove le giornate trascorrono abbastanza tranquille e nell’unico bar del paese; dove gli uomini giovani sono arrapati e le donne quasi inesistenti o anziane matrone un po’ caricaturali; dove tutti hanno armi ma le donne gliele nascondono facendogli mangiare dei dolci all’hashish.
Nonostante la coralità della storia il centro è focalizzato su alcune donne, in particolare Afaf Amale, Yvonne, Saydeh, Takla che sono solidali tra loro e cercano in tutti i modi di distogliere i fessacchiotti mariti e figli dalla voglia di conflitti religiosi che possono trasformarsi in violenza vera. E tra uno sguardo cantato tra la proprietaria del bar e il giovane muratore, tra una ‘visione’ spirituale della moglie del sindaco in chiesa, un tentativo di vedere assieme la televisione, e i ragazzi pigri che passano il tempo a giocare a flipper, alcune donne scoprono che un bravo ragazzo si è beccato casualmente una pallottola vagante chissà dove e devono coalizzarsi e trovare un escamotage perché gli uomini non riprendano ad ammazzarsi a vicenda. E per riuscirci se ne inventano parecchie: fanno piangere sangue a una statua della Madonna, convocano delle ballerine da avanspettacolo dell’Europa dell’Est affinché i maschi siano interessati solo a loro, tolgono di mezzo le armi coinvolgendo il prete e l’imam. E il film termina con la missione apparentemente riuscita e con il funerale del ragazzo che giunge al cimitero debitamente separato tra cattolici e mussulmani.
La Labaki, come abbiamo già scritto, svaria dalla commedia al dramma, dalla gag facile all’improvviso dolore, infarcendo il tutto con sprazzi di musical, sfiorando in parte la favola morale. I cento minuti del film passano rapidi e qualche sorriso ci scappa, ma ci sono anche dei brevi momenti di noia; il dato narrativo che le donne siano concrete e furbe e gli uomini coglioni e infantilmente violenti non aggiunge niente di nuovo e rischia di essere un cliché a tutto tondo della classica borghese metropolitana che guarda con ironia un mondo un po’ di lontano. Girato con attori non professionisti che non sfigurano affatto (l’unica professionista è la stessa regista Labaki nel ruolo della sensuale Amale, proprietaria del bar) il film ha ottenuto al Toronto Film Festival il premio collettivo per la migliore attrice protagonista.
La scheda di Domenico Astuti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *