Nelle foto dell’epoca sembra Jovanotti. Era un frate. Un frate un po’ turbolento. Da ragazzino era stato in riformatorio. Da adolescente nella Legione Straniera. Da giovanotto in galera. Poi in convento. Poi nelle favelas sudamericane. Poi nella guerriglia armata. Il suo nome era Silvano Girotto ma lo chiamavano Frate Mitra. Divenne famoso il giorno in cui si infiltrò nelle Brigate Rosse e fece catturare Renato Curcio e Alberto Franceschini, due dei capi storici. Da allora divenne per la sinistra italiana un infame. Si è rifatto una vita, si è sposato, ha avuto due figlie, è diventato capo della manutenzione di una grande azienda alberghiera. Ancora oggi gli dà fastidio che qualcuno continui a considerarlo una spia mentre lui si considera uno che si è sacrificato per il bene del suo Paese. E così ha deciso di raccontare la vera storia della sua vita in un libro, “Mi chiamavano Frate Mitra”. “Il libro è nato come l’esigenza di un padre che deve spiegare alle figlie perché ogni tanto il suo nome compare sui giornali. Avevo cominciato scrivendo una lettera. Poi la lettera è diventata un fascicolone. I Paolini lo seppero e mi chiesero di pubblicarlo”.

Che cosa provavano le sue figlie nei confronti della sua vita passata?

“Disagio e curiosità”.

La domanda che le facevano più spesso?

“Mi dicevano: è proprio vero che sei stato un prete? Ma non sei stato un prete come gli altri, no?”

Lei inizia il racconto con la sua adolescenza. Un’adolescenza turbolenta.

“L’adolescenza è una fase delicatissima del processo di maturazione di una persona. Si può facilmente imboccare una strada che può portare alla catastrofe. Ci si sente sicuri di sé, non si attribuisce alcun valore all’esperienza dei più grandi. E’ un momento pericoloso. L’altro giorno, scherzando con le mie figlie, ho detto: “Sono contento che siate sopravvissute alla vostra adolescenza”.

La sua era una famiglia borghese.

“Borghese ma non ricca. Papà faceva il carabiniere”.

L’educazione l’ha avuta buona quindi…

“Certamente. Avevo il permesso di uscire soltanto per andare all’oratorio dei salesiani”.

Ma poi finì con degli sbandati. A fare delle “bravate”.

“Ancora oggi non riesco a vedere quei gesti come cose gravi”.

Che la portarono in riformatorio.

“Avevamo scassinato una cassetta di bibite”.

E in galera?

“Un gruppo di ragazzetti della mia età, una banducola, alle tre di mattina decise di procurarsi delle sigarette. “C’è una tabaccheria che basta spingere una finestra per entrarci dentro, dice uno. Invece dentro c’era anche il tabaccaio che sorprese quello entrato. Colluttazione. Fuga generale. Noi rimasti fuori non avevamo nemmeno visto la scena della colluttazione. Ma per il codice penale quella era una rapina. E venne addebitato a tutti, non solo a quello entrato. Mi dettero sette anni. Ne ho fatti cinque”.

Tra il riformatorio e la galera ci fu la Legione Straniera.

“Avevo sedici anni, sentivo vergogna nei confronti della mia famiglia, decisi di rifarmi una vita. Fu un’esperienza durata pochissimo, tre mesi. Scappai dopo avere assistito a una tortura. Un episodio che forse forgiò anche il mio atteggiamento di ribellione assoluta contro l’ipocrisia della società”.

E poi la galera. Dove avvenne la conversione. Dal 63 al 69 visse in convento. Poi?

“Decisi di andare in America Latina, una scelta radicale per entrare in contatto con i poveri del mondo”.

In Bolivia. E scoprì la religione nei Paesi del sottosviluppo.

“Era molto in auge, allora, la cosiddetta Teologia della Liberazione, l’affermazione che non ci si poteva limitare soltanto a predicare e a promettere una vita migliore nell’aldilà ma ci doveva occupare anche dell’aldiqua. Il grande cambio dentro di me avvenne quando mi trovai nel pieno di un massacro, quando da un nido di mitragliatrici cominciarono a sparare sopra una folla di bambini e di mamme. Fu un momento di svolta: imbracciai le armi”.

Che cosa successe?

“Lanciai una granata e feci saltare il nido di mitragliatrici”.

Non ha paura di avere ucciso qualcuno?

“Purtroppo sono sicuro di averlo fatto. Una contraddizione da cui non sono ancora uscito. Non sono mai riuscito nemmeno a pentirmene”.

Nel libro lei giustifica anche la guerra in Afghanistan.

“Io non sono un buonista. Considero la violenza la situazione più terribile in cui un uomo possa trovarsi. Ma ritengo che a volte sia inevitabile. Io ho usato le armi contro l’ingiustizia, contro la dittatura, il massacro, gli squadroni della morte, sapendo che era l’unica strada”.

Quanto è durato il suo periodo “violento”?

“Dal 21 agosto 1971, giorno di quel massacro, all’11 settembre 1973, colpo di stato di Pinochet.

Ha mai avuto il sospetto di essere pervaso di narcisismo, di voglia di protagonismo?

“No, il fatto che io abbia dovuto intervenire perché una mitragliatrice stava massacrando donne e bambini non c’entra nulla col protagonismo. La considerazione di quello che ne avrebbero pensato gli altri non mi ha mai toccato”.

Anche quando, in seguito, si infiltrò nelle Brigate Rosse?

“Era proprio l’ultima cosa da fare se volevo guadagnarmi una buona fama. Il clima allora tirava dalla parte opposta. Ho affrontato 25 anni di linciaggio morale”.

Perché lo fece?

“Ero appena uscito da un incubo e vedevo che in Italia c’era qualcuno che voleva creare le condizioni perché quest’incubo si realizzasse anche da noi”.

E si mise in testa di fermarli. Si infiltrò. Fece catturare Alberto Franceschini e Renato Curcio, due dei capi storici. Erano quelli meno fanatici, quelli meno “militaristi”. Fino ad allora le Brigate Rosse non avevano ucciso. Da allora cominciò il bagno di sangue. I sospetti sono forti.

“La vicenda può essere letta anche così. Per un po’ l’ho pensato anch’io. Io avevo detto ai carabinieri di lasciarmi andare avanti. Che avrei potuto ottenere risultati ottimi, farli catturare tutti. Invece loro vollero affrettare l’operazione e si accontentarono di prendere loro due. Non so se per pressappochismo, per frenesia del risultato immediato o per qualcosa di più e di diverso. A questo quesito non ho risposta. Alla luce di quello che è successo dopo tutto può essere”.

Moretti era stato avvertito da una misteriosa telefonata che stava scattando la trappola per Curcio e Franceschini. Ma non riuscì – disse – ad avvertirli. E divenne il capo delle Br.

“Trovo francamente la spiegazione di Moretti piuttosto inconsistente”.

Non ha paura di essere stato strumento di un gioco che andava oltre lei?

“Quando penso che posso essere stato strumentalizzato, la cosa non mi fa piacere. Sono convinto che se non mi avessero fermato sarebbe cambiata la storia d’Italia. Non ci sarebbero stati gli anni di piombo. Ormai avevo la possibilità di eliminare le Brigate Rosse alla radice”.

Prese precauzioni dopo la cattura di Curcio e Franceschini?

“Tolsi il mio nome dall’elenco del telefono”.

Ebbe il coraggio di andare a testimoniare al processo di Torino. Tra le continue minacce dei brigatisti che avevano fatto fuggire giudici popolari e avvocati d’ufficio.

“Tutta quella stampa comunista che aveva promosso il mio linciaggio tacque questo fatto perché mal si conciliava con la figura dello spione traditore. Io traditore non sono mai stato.

Tanti anni dopo ha incontrato Franceschini.

“Ci siamo parlati per tre ore, ci siamo abbracciati. E’ un uomo estremamente equilibrato. Che si è riconciliato con il suo passato”.

A me ha detto che la considera quasi un angelo custode. Se non ci fosse stato lei sarebbe diventato sicuramente un assassino.

“A me ha detto: “Ti ho visto dieci minuti e mi sono fatto 18 anni di galera”.”

E Curcio?

Ci scriviamo. Ma non parliamo di quegli anni. Non vuole assolutamente avere nessun altra occasione di ricordarli. Un’operazione di rimozione totale.

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