Giuseppe Sansonna è in libreria con Hollywood sul Tevere. Storie scellerate (minimum fax): pubblichiamo una galleria dei personaggi raccontati nel libro e vi segnaliamo che domani, domenica 23 ottobre, alle 17 l’autore presenta il libro alla Libreria Notebook all’Auditorium, all’interno della Festa del Cinema di Roma con Flavio Bucci, Gianluca Nicoletti e Francesco Zippel.

Alighiero Noschese

Pier Paolo Pasolini e Maria Callas erano fra le vittime preferite di Alighiero Noschese. Li aveva sempre incarnati in coppia, in una Colchide immaginaria, set della P.P.P.neide.

La celebre soprano veniva trasformata nella avidissima e gretta Callade.

Si rivolgeva ad Aristassis, sosia grossolano di Onassis, sussurrandogli: “Vieni avanti cresino!”, parafrasi di un refrain dell’avanspettacolo. Pasolini, ribattezzato Pasoleo, appariva come un mago invasato, compiaciuto cineasta di film censurabili, pellicole da “Porcile”. Zeus, presentato come conservatore, decide di incenerirlo con un fulmine. Non lo uccide, ma riesce a riconvertirlo ad un’ esasperata eterosessualità. Nel finale dello sketch Pasoleo insegue eccitato Callade, velocizzato come in una comica del muto, saltellante, in piena satiriasi. Derisioni grossolane e conservatrici, di due figure fragili. Le loro morti tragiche, tra il 1975 e il 1977, contribuiranno a gettare ombre fosche sul celebre imitatore, minandone la popolarità.

Gian Maria Volonté

Per diventare Aldo Moro, Gian Maria Volontè si scrollò di dosso tutta la propria ruvida, virile consistenza. Preparandosi a girare “Todo modo”, si chiuse in moviola come un monaco, a sciorinare rituali, vezzi e cineserie (come le bollava Elio Petri) dello statista democristiano. Darà vita a un Moro ipermimetico, “così perfetto da sembrare Noschese”, come stigmatizzeranno alcuni critici.

Viso esangue, smarrimento rassegnato, smorfia amara della bocca, esasperatamente mellifluo, piagnucoloso, in eterna ricerca di assoluzione. Gelidamente comico. Due anni dopo il film, Moro troverà una morte tragica, assurgendo a Banquo eterno della cattiva coscienza italiana. Trascolorando in una figura di umana spiritualità: così lo reinterpreterà lo stesso Volontè, nel riparatorio “Il caso Moro”, diretto da Giuseppe Ferrara nel 1986.

Ugo Tognazzi

“Faccio il treno”, annuncia alle tre di notte Ugo Tognazzi con nasale quanto impropria solennità. Impiastrato di brillantina Linetti, baffetti sottili, completo chiaro, che ne evidenzia l’imbolsimento, si lancia in un tip tap estremo da locomotiva umana. Un vecchio numero con cui strappava applausi a scena aperta, sui palcoscenici sconnessi dell’avanspettacolo, in una gavetta spesa in lungo e in largo per le provincie della penisola. Lo replica sul set di “Io la conoscevo bene”: è perfetto per Baggini, vecchio comico di rivista, personaggio che Antonio Pietrangeli, gli ha cucito addosso. Imbucato ad una festa, in cerca di scritture, si lascia umiliare dalla ferocia della star Enrico Maria Salerno.Che lo costringe alla gogna di un ballo all’ultimo respiro, da foca ammaestrata. Ritto su un tavolino, per allietare un salotto affollato di cortigiani e aspiranti starlette.

Un frammento di dolce agra vita, che Tognazzi riesce a restituire in un cameo indelebile, pieno di fisiologica, affannata umanità.

Tina Aumont

Sarebbe stata la Dirty perfetta di un film ipotetico, mai realizzato, da estrarre da “L’azzurro del cielo” di George Bataille. Torbida e pura, nella sua grazia demoniaca. Condannata da una bellezza lancinante, da bambina perennemente violata, da sé stessa e dalla vita. I lunghi guanti eleganti servivano spesso, sui set, a coprire le vene martirizzate. Pallida di cipria e di vizio, occhi liquidi, sempre pronti alla deriva, diventava sempre più vicina alla dimensione di un eros vampiresco, bruciante. Ingestibile da un cinema italiano che pretendeva maggiorate poppute, dal rassicurante retrogusto materno. Relegandola ad un apparire e sparire immediato, come accadeva nel Casanova felliniano.

Francesco Rosi, in Cadaveri eccellenti, le regala un cameo da prostituta scafata e sprezzante. Conservando il suo timbro roco, da mezzo soprano, venato di echi francesi. Perturbante, perfino per il granitico Lino Ventura.

Salvo Randone

“Sembra sbucare da un sentiero della Magna Grecia, con l’aria di chi ha visto tutto l’Ade. Ed è tornato,” diceva Piera Degli Esposti, descrivendo Salvo Randone. Accidia meditativa, dolce stoicismo, scettico senso di estraneità al mondo: un Enrico IV pieno di emozione fremente e delirio logico. Prandellianamente sospeso tra il patire ragionando e ragionare soffrendo, tra luce e ombra. Un dissidio che trapelava intero nella sua voce, contemporaneamente cupa e roboante.

Elio Petri gli affida il ruolo di Militina, ne La classe operaia va in paradiso. Impazzito dopo anni di catena di montaggio, recluso in manicomio, recita un monologo con echi alla Foucault, lasciando che la propria consistenza realistica debordi nel metafisico. Non ispira pena, ma perturba, come un incubo ricorrente.

Gualtiero Jacopetti

Con Addio Zio Tom, Gualtiero Jacopetti quattro anni prima di Pasolini, dà vita una Salò bizzarra e scanzonata, alleggerita da un fantasioso viaggio nel passato. Nel film, datato 1971 e realizzato con il fido Franco Prosperi, l’America schiavista e coloniale viene osservata trionfalmente dalla prospettiva dei persecutori. Gli schiavi sono mostrati come bestie fameliche, con le facce affondate nelle greppie, come polli affamati. Dando in pasto alla scopofilia dello spettatore il brivido sadico di sentirsi schiavista. Accarezzando l’inammissibile piacere dato dal disporre, a proprio piacimento, di corpi magnifici, maschili e femminili, appesi e inermi. La macchina da presa dei due autori indugia pesante sui corpi lucenti di neri ingabbiati, umiliati, violati, esposti. Nemmeno i neonati vengono risparmiati. Si gira ad Haiti: tutte le comparse sono gentilmente offerte da Papa Doc Duvalier, dittatore pittoresco quanto sanguinario.

Flavio Bucci

“Io, nel cinema, apparivo sempre in chiave critica. Sono stato tutto quello che non si doveva essere. Brutto, inquietante, pazzo, malvagio, incontrollabile”. Così Flavio Bucci, ultimo, bizzarro supersite di una stirpe mattatoriale, ama definire se stesso.

Ligabue televisivo a parte, è entrato nell’immaginario peninsulare, con una manciata di minuti, incastrati ne Il marchese del Grillo di Mario Monicelli. Uno strappo nel cielo di carta della tappezzeria ottocentesca di un film molto imbalsamato. Pieno di scene madri sordiane dalla trivialità romanesca vagamente corriva, e spesso troppo ovvia. Due passi più su dal duo Monnezza Bombolo. Il Padre Bastiano di Bucci è invece un’epifania, nel film: memorabile la sua derisione del forcaiolismo di massa e la sintesi sulla caducità dei poteri e sulle illusioni di progresso storico. Recitata sul patibolo, prima di essere decapitato, in una sequenza gore.

Carmelo Bene

Capricci è un film diretto e interpretato nel 1969 da Carmelo Bene, nel corso della sua breve, fiammeggiante parentesi cinematografica. La pellicola ha una fotografia sporca, che ne consolida l’immagine di antologia decomposta dei generi cinematografici. Carmelo Bene tritura polizieschi e spaghetti western, melò sentimentaloidi e adattamenti dei grandi classici, restituendo integra la propria nausea per i veleni nascosti nella rappresentazione. Una delle scene clou del film assurge a summa della sua poetica. Protagonisti, tre nonagenari e una ragazza discinta, in un deformato estratto dell’elisabettiano Arden of Feversham. Commentato in voice over dallo stesso Carmelo Bene, che legge un frammento di Roland Barthes, dedicato ai reportage gastronomici della rivista Elle.

Franco Citti 

“Franco Citti ha occhi neri di putto”: così Pier Paolo Pasolini definiva lo sguardo infantile e perforante, del suo Accattone. Morto a ottant’anni, chiudendo serenamente una vita scellerata il volto magnificamente scavato, da Edipo Re, la magrezza impudica, la zazzera ancora folta, ormai argentea e la barbetta ispida.

La gratitudine piena d’amore per il suo antico mentore era rimasta intatta. Come ai tempi in cui il suo regista lo portava in giro, costringendolo a trascinare la propria indolenza metafisica per set e festival. “Sei il mio Toshiro Mifune”gli confessava Pasolini, a cuore aperto. Si volevano bene, ma erano un mistero, l’uno per l’altro. “Pier Paolo, ovunque fossimo, a una certa ora della sera doveva sparì, doveva fa frigge le gomme”. Sgommando verso ignoti altrove, per lasciarsi inghiottire dalla notte. Fino all’ultima sera, ad Ostia. Il suo miglior attore è morto quarant’anni dopo, a un passo dall’Idroscalo, in una casetta di Fiumicino. Fiaccato dagli anni e dagli acciacchi, negli occhi ancora la stessa perversione innocente di quando era Accattone. Scrutando le traiettorie degli aerei in volo, smaniando di partire per Bangkok, per morire tra le braccia dell’ultimo amore thailandese.

Ciprì e Maresco

Nel 1998 esce al cinema “Totò che visse due volte”, secondo film di Daniele Ciprì e Franco Maresco. Incappa, sulle prime, in una censura totale, commutata successivamente in un divieto ai minori di diciott’anni. I due autori vengono anche assolti dall’accusa di vilipendio alla religione.

Il film attinge alla forsennata attività televisiva del duo palermitano, transitata dalla Rai Tre di Angelo Guglielmi sotto il nome di Cinico Tv.

Una sequela di frammenti, realizzati ingaggiando nelle periferie autenitici freak, ridotti all’immobilità frontale e bidimensionale. Dal linguaggio franto in rantoli dialettali, tendente alla progressiva afasia beckettiana.

“Totò che visse due volte” ha l’indubbio merito di lasciar esplodere sul grande schermo una fisiologia mafiosa ripugnante, non seducente. Lontana dalle delinquenze inevitabilmente eroiche, seriali e patinate dei tanti romanzi criminali, suburre e gomorre a venire.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *