La più bella battuta cinematografica sull’America post-Undici Settembre l’hanno scritta due fratelli (ora sorelle) di Chicago, per un film uscito prima del disastro del World Trade Center. È incorrotta dalla retorica come tutte le profezie, e arriva a metà di Matrix, pronunciata dal Morpheus di Laurence Fishburne come il vibrato di un martello contro muro di specchi: «Benvenuti nel deserto del reale», dice. È una battuta che funziona, per perfezione formale e per impatto, tanto che nel film la suggella un tuono di disneyana tempestività, ma la sua fortuna arrivata dopo, oltre i titoli di coda.

Nel 2002 Slavoj Žižek intitola Welcome to the desert of the real una raccolta di saggi in cui esprime una sua teoria sulle distorte fantasie delle democrazie occidentali. La domanda che il filosofo si pone, e a cui risponde con la franchezza di Morpheus, è questa: «è facile dar conto che i poveri del mondo sognano di diventare americani, ma cosa sognano gli americani benestanti, immobilizzati nel loro benessere?» La risposta: «Sognano una catastrofe globale che sconvolgerà la loro vita».

Sembra l’assunto rinnegato che giace sul fondale Zero K (Einaudi), l’ultimo libro di Don DeLillo, che si fa beffe del fascino per il disastro e, dopo averne assimilato l’importanza, lo lascia intravedere come l’anatomia canonica dietro il Picasso cubista.

Di Zero K si è parlato tanto: è la storia di un uomo abbozzato, Jeffrey Lockhart, che osserva confusamente l’ibernazione della giovane moglie di suo padre prima, malata terminale, e dello stesso genitore poi, perfettamente sano ma incapace, di fronte alla possibilità offerta dalla criogenesi, di dire «No, grazie, muoio come ai vecchi tempi». Sembra sci-fi ma non è: punto primo, farsi ibernare (post-mortem) è possibile e non costa nemmeno troppo, circa 200.000 dollari; punto secondo, Zero K non pretende di intrattenere, non è divertente e non evoca esotismi “di genere”.

DeLillo si limita a raccontare, con una levità bergmaniana, le meditazioni di un uomo comune che scopre una curiosa alternativa alla morte, o meglio all’impotenza nei confronti della morte, ma invece di restarne affascinato o nauseato reagisce soppesando il resto, cioè la vita ricevuta, l’immanenza misurabile in cui l’unico lusso strappato al tempo è l’atto di ricordare. Questo non fa di Jeffrey Lockhart un eroe, né di Zero K una denuncia. È piuttosto una partitura di silenzi e osservazioni, in cui i dialoghi sono ridotti a preziosità surreali, sulla distinzione tra la voglia di vivere e quella di non morire, e sull’ostinazione di preservare i corpi spacciandoli per l’anima.

Un tema che Zero K condivide con “l’altro” libro importante del 2016, La vegetariana di Han Kang (Adelphi), vincitore del Man Booker International Prize. La storia di Yeong-hye, giovane casalinga di Seul che dopo un sogno smette drasticamente di mangiare carne nel dissenso generale della sua famiglia, è un romanzo di reazioni, proprio come Zero K, e Kang come DeLillo approfitta di queste reazioni per raccontare la conservazione di sé; solo, a parti invertite.

In DeLillo, Jeffrey osserva l’ostinazione di suo padre per la sopravvivenza, la sua fascinazione per l’immortalità; in Kang è Yeong-hye ad essere oggetto di osservazione da parte di marito, sorella e genitori, i quali non accettano il suo graduale e volontario deperimento. In entrambe le storie, non a caso, a suggellare il cambiamento è l’uso che si fa del ghiaccio: Yeong-hye dismette il congelatore, svuotandolo una volta per tutte delle barricate di bistecche di manzo, il padre di Jeoffrey vi si immerge, insieme alla giovane moglie, convinto di risvegliarsi in un lontano futuro.

La più grande differenza fra le due opere sta nel modo di raccontare questa iper-corporalità del mondo contemporaneo, per cui al leggero scetticismo di Jeffrey Lockhart, passivo come da prassi occidentale nei confronti della modernità, si contrappone la passione mistica di Yeong-hye, il suo domino disperato di gesti estremi per rinunciare alla carne e, sorpresa, alla carnalità, fatta di desiderio e consapevolezza di essere corpo, o meglio creatura corporale.

Scrive Kang: «Quello che aveva davanti agli occhi era il corpo di una bella ragazza, convenzionalmente un oggetto di desiderio, eppure era un corpo dal quale era stato eliminato ogni desiderio. E non il rozzo, crasso desiderio carnale, non nel suo caso: ciò a cui la cognata aveva rinunciato, o così sembrava, era piuttosto la vita stessa che il suo corpo rappresentava». Cioè, c’è un’alternativa alla vita oltre che un’alternativa alla morte, e chi la corteggia è una creatura ben strana, certo più strana di chi si fa ibernare.

Con La vegetariana a dire la sua sull’esistenza, all’americano (maschio, bianco) che, mani conserte, osserva il mondo con lucidità, muovendosi tra il vetro e il ghiaccio, il personaggio-tipo che quest’epoca ci ha dato in sorte, risponde un Ovidio sudcoreano che riscrive il mito di Filemone e Bauci, impreziosendolo di un’ossessività da letterati feticisti: la frase «Ho fatto un sogno» a giustificazione del proprio vegetarianismo è figlia del Bartleby di Melville («Preferirei di no»), del paziente del dottor Galvan di Pennac («Non mi sento tanto bene») e di Mersault, un personaggio a cui Yeong-hye somiglia tanto.

Certo, il finale de La vegetariana offre un risultato meno filosofico e più narrativo, rispetto allo Straniero e alle premesse delle sinossi ufficiali, che rinfranca il lettore e fa pensare che, sì, anche il libro di Kang è un capolavoro – ma per grazia, oltre che per intelligenza. Non un dato trascurabile.

DeLillo, d’altro canto, relega il meglio del romanzo negli spaccati familiari, intimi, dimostrando con efficacia le ragioni del partito Caducità dolorosa contro quello della Vita surgelata. Accade proprio come in Underworld, è tutto un attendere di ricordi, autenticità e reminiscenze, ma centellinate, in Zero K, con una perfidia disfunzionale. Una perfidia tipica dell’Occidente, il cinismo delle sentenze scagliato contro il garbo delle domande.

Anche sul campo della medesima conclusione, cioè che l’uomo non ha ancora chiarito cosa sia la vita e che uso debba farne, e se il possesso del proprio corpo denoti libertà o costrizione, l’America decreta, in prima pagina, che «Tutti vogliono possedere la fine del mondo», mentre l’Oriente chiede, in conclusione: «Perché, è così terribile morire?»

È raro, ma qualche volta i libri dialogano tra loro.

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