I diari inediti del collezionista e filantropo Reynolds Morse – fondatore del Salvador Dalí Museum a St. Petersburg, Florida –, conservati negli archivi dello Smithsonian of American Art, fanno luce sui rapporti personali tra il pittore catalano e Francisco Franco. Morse aveva l’abitudine di registrare le sue conversazioni con l’artista: quando gli chiese se avesse paura di morire, con il possibile avvento della Rivoluzione in Spagna e la fine di Franco, “Certo”, gli rispose Dalí, “se non avessi lasciato la Spagna prima della guerra sarei certamente morto, mi avrebbero ucciso, come hanno fatti quegli ignoranti contadini con García Lorca… aveva una relazione con un ragazzo e la gente lo ha fucilato”.

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Il franchismo onorò a dovere l’artista, tornato dagli Stati Uniti in Spagna nel 1948, ma il riconoscimento personale di Franco si fece attendere. “Sono il simbolo che dimostra la tolleranza di Franco”, diceva Dalí a Morse. La scelta del Cestino del pane di Dalí come immagine per raffigurare il Piano Marshall, pubblicata nel 1948 sulla copertina di “The Week Magazine”, rivista con una tiratura da 15 milioni di copie, mostrava l’artista del genio e della follia che rimedia alla sua vita di scandali in un tempo in cui l’amministrazione Truman riteneva Franco un argine al comunismo. Ciò contribuì a preparare il ritorno di Dalí in Spagna.

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Secondo il racconto di Morse, nel 1955, sullo yacht Azor, il dittatore si ancora nella baia di Cadaqués, con l’intento di incontrare Dalí. Poliziotti pattugliano le colline. Il pittore si prepara, si rade, indossa una uniforme da ammiraglio, bianca. Dalí attende invano la visita. Il giorno seguente, lo stesso annuncio: Franco vorrebbe fargli visita. Dalí si prepara di tutto punto, il dittatore non arriva. Il terzo giorno, stessa situazione. Nulla di fatto. Franco, in realtà, è lì per incontrare Miguel Mateu, uno dei suoi più stretti consiglieri.

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Nel 1956, finalmente, l’incontro. “Dalí intraprese un lungo viaggio a Madrid per vedere Franco, aspettando con ansia la conferma della visita. Dalí, accompagnato da Gala, era ansioso di tornare a Port Lligat per continuare a dipingere, così, dopo tre giorni di attesa vana vi tornarono. Appena arrivati, furono sorpresi da un telegramma che notificava l’incontro con Franco. Allora si spostarono a Barcellona per prendere il treno: a Dalí non piaceva volare”. L’incontro si tenne a El Pardo, il 6 giugno, fu il primo di cinque.

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Dalí disse a Morse che Franco gli era apparso “molto intelligente e interessato all’arte”, lo elogiò per aver creato “una monarchia con la stessa genialità con cui Velázquez ha creato Las meninasFranco rise, rifiutò di ritenersi un genio come lo voleva Dalí, l’idea di monarchia era piantata nella sua testa, Franco voleva restaurare la monarchia in Spagna, con lui come capo degli eserciti”.

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Morse ricorda un giorno di marzo del 1958 in cui Dalí, furibondo, gli telefona nella casa a Denver. Sulla rivista “Art in America” aveva scritto che la pittura religiosa di Dalí era un modo di legarsi a Franco. “Non ho mai dipinto per far piacere a qualcuno oltre me stesso! Sei un nessuno! Una troia!”, urlò l’artista. “Il corso degli eventi mi ha portato dall’anarchismo al conservatorismo, dall’ateismo sacrilego al mondo mistico. Sono lo stesso di quando ero giovane, è cambiato il mondo: la guerra civile, la bomba atomica”. Dalí e la sua pittura storica e religiosa erano il modo con cui il regime tentava di contrastare Picasso, esiliato a Parigi, e Miró, ritiratosi a Maiorca, orgogliosamente antifranchista.

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Dalí dettagliò a Morse l’incontro con Franco accaduto nel castello di Peralada, nel 1970. “Prima arrivò un elicottero, poi i soldati con i fucili, infine due limousine. Da una di queste uscì un vecchio traballante, che teneva tutto sotto controllo”. Dalí fu sorpreso dall’energia dimostrata da un uomo così fragile, “Deve essere un mistico”. Durante quell’incontro, il pittore fece il ritratto della moglie di Franco, Carmen Polo, accettò di dipingere una nipote. Dalí avrebbe cercato di ottenere dal dittatore un sostegno finanziario per i propri lavori mistici e patriottici e per la costruzione del suo Teatro Museo a Figueres, che presentò come contrappunto alla creazione del Museo Picasso a Barcellona.

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Dalí si credeva di gran lunga superiore a Picasso e a Miró, accettò di trarre profitto dalla collaborazione con una dittatura che aveva bisogno di usare la cultura come campagna di immagine contro le democrazie occidentali. Durante la prima biennale di arte ispanoamericana del 1951 una fotografia ritrae Franco, in uniforme militare, che ride. Tàpies racconta che l’immagine cattura il momento in cui il dittatore è informato di camminare nella “sala degli artisti rivoluzionari”, mentre risponde, “Ah, beh, finché fanno la rivoluzione così…”

*L’articolo è stato pubblicato su “El País”; la copertina con Salvador Dalí è tratta da qui

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