Abbiamo visto “ Il grande quaderno “

Un film di Janos Szasz. Con László Gyémánt, András Gyémánt, Piroska Molnár, Ulrich Thomsen, Ulrich Matthes.   Drammatico, durata 113 min. – Germania, Ungheria, Australia, Francia 2013. – Academy Two uscita giovedì 27 agosto 2015

Il grande quaderno è il primo romanzo della scrittrice ungherese Ágota Kristóf ( 1935 – 2011 ), pubblicato nel 1987 prima in Svizzera e poi in altri trenta Paesi, verrà eletto Livre Européen dell’anno. Con i successivi due romanzi ( La prova del 1988 e La terza menzogna del 1991 ) diventeranno il libro Trilogia della città di K.. Stessi protagonisti, disavventure un po’ diverse: due ragazzini attraverso umiliazioni fisiche, ingiustizie, privazioni, fame, sete, autodisciplina, vittime di predatori sessuali, sopravvivono attraverso un rigido codice etico autoimposto. E’ indiscutibilmente un capolavoro letterario del secolo scorso, una fiaba nerissima che racconta il periodo più orribile che probabilmente ha vissuto l’Europa, la fine della Seconda Guerra Mondiale in Ungheria. E l’autrice ha centrato il suo obiettivo, con il suo rigore formale e l’asprezza caparbia della narrazione. Ma l’orrore è stato raccontato fin troppo, ma l’idea originale in questo caso è raccontare una realtà in cui il male è ovunque, non c’è alcuna differenza tra bene e male, la vita e la morte, tra i sentimenti e l’assenza, dove non c’è alcuna speranza per l’umanità; il tutto visto e vissuto da due gemelli non ancora adolescenti la cui innocenza li fa propendere per una scelta di inumanità priva di qualsiasi misericordia. I due bambini conoscono un mondo di orchi e di streghe e si allenano volontariamente sin da subito al dolore e alla sofferenza per non dover sottomettersi a un mondo violento e senza speranza.   E’ evidente che c’è materiale cinematografico per realizzare un capolavoro, c’è l’ha dimostrato per analisi chirurgica un regista come Michael Haneke ( Il nastro bianco, 2009 ), oppure sarebbe servito un regista come Terry Gilliam con una mise en scène eclettica, schizofrenica, diseguale, con uno stile classico ma con passaggi visionari come l’uso ripetuto del grandangolo, delle plongée e contre-plongée, delle inquadrature sghembe. Invece è stato scelto il regista ungherese Janos Szasz che segue con puntiglio la trama come se un romanzo avesse bisogno solo di immagini e non fosse un linguaggio a sé ( La solita diatriba tra Letteratura e Cinema, i linguaggi diversi ), e a questo si deve aggiungere che qualcosa resta inespresso tra le pagine, che la narrazione di alcuni fatti viene inserita e abbandonata senza darne spessore, che una temporalità di fatti non rispetta il tempo reale e che gli adulti, per necessità di sintesi, sono appena abbozzati o dati per dati. Peccato perché un materiale interessante e originale è stato reso puro lavoro impiegatizio.

Siamo probabilmente in Ungheria ( è l’autunno del 1944 ), in un paese mai nominato ( come mai verranno detti i nomi dei due gemelli ) giunge a casa della madre una donna che porta con sé i suoi due gemelli, li lascia alla odiosa nonna forse per risparmiare loro le fatiche e i pericoli della guerra in città.   L’anziana donna è un perfetto essere da fiaba nera, odiosa, sospettata di aver avvelenato il proprio marito anni prima, ritenuta dai paesani una strega-megera. Vive di mercato nero, beve da alcolista, e come le streghe ha un malloppo in gioielli nascosto in casa. Ma i paesani non sono certo molto meglio di lei né tantomeno gli occupanti nazisti, né chi verrà a liberarli. La nonna è costretta ad accettare i nipoti, maltratta e offende la figlia che andrà subito via e inizia la convivenza difficile tra i due gemelli inseparabili e la loro nonna egoista, manesca e volgarissima. Ma i due bambini crescono oltre che con il disprezzo e l’odio della nonna anche con la presenza in casa di un ufficiale omosessuale  tedesco e con la malvagità degli abitanti del paesino. Quasi da subito i due gemelli decidono di non soccombere o rischiare di morire, allora decidono di costruirsi una corazza personale: si picchiano a vicenda fino a svenire, per imparare a soffrire, non mangiano per giorni per abituarsi alla fame, camminano nella neve per imparare a sopportare il freddo e gli stenti. E in questo duro inverno di guerra i due ragazzini vivranno esperienze delle più varie, da quelle sessuali con l’ufficiale ma anche con la bella badante del curato, ricatteranno il prete che ha un segreto sessuale, proveranno solo riconoscenza per un ebreo che gli regala degli stivali; ma l’esperienza più truce – che dimostra loro di essere diventati forti e insensibili – sarà il ritorno notturno della madre con una neonata avuta da un ufficiale occupante, vorrebbe riprenderli per portarli con sé lontano ma loro rifiutano e assisteranno insensibili alla morte della madre con la neonata dilaniate da una bomba nel giardino, e successivamente anche alla morte del padre, ritornato dalla prigionia e aiutato dai figli a passare su un campo minato alla frontiera…

Opera non priva di buone intenzioni, soprattutto nella prima parte in cui realismo e fiaba riescono a convivere senza stridore, ma nella seconda parte scompare del tutto la fiaba e ad una storia di guerra si intromettono spunti grotteschi fini a se stessi.   Janos Szasz è un regista troppo prudente per affrontare le sfumature di un romanzo che racconta con maestria l’orrore che provoca la guerra negli uomini ma soprattutto nel bambini. E’ un po’ come se le domande tratte dal libro non trovassero una risposta né psicologica né tantomeno sociologica.

Da segnalare la bravura della nonna-strega Piroska Molnar ( grande attrice ungherese di Cinema, di Teatro e di televisione ) e la convincente fissità dei due gemelli ( László Gyémánt e András Gyémánt ) nell’evolversi della loro disumanizzazione. Molto bella la fotografia di Christian Berger ( direttore della fotografia di Haneke ).

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