Di recente mi è capitato più di una volta che in una conversazione qualcuno mi dicesse: “Dai, fai il critico teatrale! Consigliami qualcosa da vedere”. Il teatro resta per tanta gente una terra magica in cui è difficile orientarsi. E una volta, in effetti, la funzione del critico era proprio quella. Ma oggi, e siamo in tanti a chiedercelo, è ancora così? Consigliare uno spettacolo non è come consigliare un libro, che pure se parli di un autore meno noto o di un editore minore ti basta cliccare su Amazon e farti spedire il pacchetto a casa (se non hai, cosa auspicabile, un libraio di fiducia). Salvo poche grandi produzioni, che fanno lunghe teniture, oggi le tournée sono a singhiozzo, sparse a macchia di leopardo lungo la penisola, e gli artisti – quelli che ancora fanno questo mestiere col cuore – appaiono e scompaiono come ectoplasmi di un’arte antica e modernissima. Vuoi vedere questo spettacolo? Io l’ho visto, è bellissimo. Sarà due giorni a Milano, uno a Vicenza e due a Bari. Prenota in fretta che sennò il prezzo del treno sale.

È ovvio che, a parte pochi “ammalati di teatro”, non siano in molti a seguire gli spettacoli lungo le loro discontinue apparizioni. Ma si può provare a giocare d’anticipo. Perché nella seconda metà del 2014 si sono “materializzati” diversi capolavori piccoli e grandi, e tutti in quella terra di mezzo che è il teatro d’arte – no, Carminati non c’entra nulla – ovvero quel teatro di sudore e passione che spesso si manifesta in luoghi periferici, si annida nei cartelloni dei teatri, tra le assi del palcoscenico, dietro, affianco e nonostante le programmazioni più visibili e luccicanti, ma trite e ritrite come il cenone di Natale a casa della zia. Alcuni di questi spettacoli memorabili avranno delle tappe nel 2015. Proviamo a farne una breve mappatura.

I giganti della montagna

Partiamo da un premio Ubu, che è il più prestigioso del teatro italiano. Quest’anno il premio Ubu come migliore attore è stato assegnato a Roberto Latini. Finalmente, verrebbe da dire, perché è noto che Latini sia tra gli artisti più intensi della scena italiana. E non soltanto per il fatto di saper utilizzare la voce come un vero e proprio strumento, ma soprattutto perché Latini è portatore di una visione profonda e personalissima del teatro.

In questo senso è un piccolo paradosso il fatto che gli venga attribuito questo riconoscimento per l’interpretazione di un lavoro non suo, l’Arlecchino di Antonio Latella – anche se è nella natura dei premi concentrarsi sugli spettacoli che hanno più possibilità di essere visti.

Riflettere su questo aspetto è probabilmente una questione irrilevante, buona giusto per gli addetti ai lavori; ma allo stesso tempo è uno spunto ottimo per considerare i percorsi che portano gli artisti ad essere quello che sono. Il premio è stato accolto giustamente come un riconoscimento dell’intero percorso di Roberto Latini, che proprio quest’estate con il suo Fortebraccio Teatro ha portato in scena il primo studio dei Giganti della montagna di Luigi Pirandello.

Un lavoro straordinario, che avremo modo di vedere concluso nel corso del 2015, per il quale il critico Massimo Marino ha scomodato un parallelismo con una leggenda, i Giganti di Leo de Berardinis.

Non è un caso però: il teatro di Roberto Latini, come pochi altri, è in connessione tanto con la tradizione che con la contemporaneità. La scena dei suoi Giganti, per esempio, si apre su un panorama notturno, nel mezzo di un campo di grano dove i teatranti dell’opera pirandelliana si aggirano come fantasmi dagli occhi bianchi e inquietanti, simili a quelli degli zombi di The walking dead.

È un impatto visivo forte a cui si somma quello emotivo: bastano voce e microfono affinché si sprigioni un universo di personaggi, una polifonia a cui si aggiunge la presenza di Federica Fracassi.

Spesso accade così nei lavori di Roberto Latini, che molte volte parte dai classici del teatro: c’è un livello colto, di citazioni e sottigliezze che sono in grado di cogliere gli appassionati, e un livello emotivo in grado di arrivare a tutti. L’esempio più calzante è forse il suo Ubu Roi, spettacolo di grande bellezza in cui si aggirava vestito da pinocchio in una scena di abbagliante biancore – riferimento esplicito a Carmelo Bene, che in tanti chiamano in ballo parlando del lavoro di Latini, anche per via della particolare ricerca sulla voce.

(Lui, di fronte alla domanda lapidaria di Franco Cordelli a un convegno di qualche anno fa – “Leo o Carmelo?” – rispose sardonico “Perla”, alludendo a Perla Peragallo, alla cui scuola si formò quello che sarebbe stato un altro futuro protagonista della scena, Ascanio Celestini.)

Dove. Se siete tenaci avete tre occasioni a gennaio per vedere l’Ubu Roi: il 15 gennaio a Cuneo, il 18 a Castiglioncello (Li), il 21 a Casalecchio di Reno (Bo). Sono le ultime date di un lavoro che ha avuto quasi più repliche all’estero che in Italia, e che è uno dei più belli degli ultimi anni. I Giganti, invece, sono un percorso in costruzione: l’11 gennaio a Moncalieri (To) e il 24 a Vicenza va in scena il primo atto. Per ulteriori aggiornamenti: Fortebraccio Teatro.

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famiglia campione omini

La famiglia Campione

Di famiglie disfunzionali è pieno il mondo e pure la letteratura e il teatro. Ma la famiglia messa in scena dalla compagnia degli Omini ha qualcosa di speciale. E nelle relazioni minimali eppure corrosive di questo gruppo parentale di provincia toscana c’è molto delle nevrosi nei nostri giorni. Ma non solo.

La famiglia Campione è allo stesso tempo contemporanea e premoderna. Dà del tu a Dio e sogna la fuga all’estero come antidoto al pantano del nostro paese. Parla una specie di italiano guasto ed è una composta da due nuclei famigliari intrecciati, un primo marito padre di tre figli remissivo e un aggressivo secondo marito, padre di un altro figlio.

E se le colpe dei padri non ricadono necessariamente sui figli, lo fanno però i loro tic, il carattere, l’analfabetismo sentimentale che non permette nemmeno di comprendersi tra una generazione e l’altra – nonni, padri, figli – che affollano la casa di una famiglia che, vista l’assenza di mezzi di trasporto e di prospettive, è una microcomunità chiusissima e pericolosamente sulla soglia della povertà.

Così l’unica scelta se non di dissenso almeno di sottrazione è quello della quarta figlia, Bianca, autosegregata in bagno da giorni, di fronte alla cui porta ruotano le frecciate, i ringhi e la banalità di una disperazione quotidiana a cui non sai se reagire ridendo o angosciandoti. Perché non manca certo l’ironia in questo lavoro degli Omini, che di una comicità surreale e intelligente hanno fatto il marchio di fabbrica del loro teatro, ma è una dissacrazione amarissima, che esplode in una risata a scatti, quasi non potesse fare altro, quasi come un esorcismo.

In questo senso è semplice e geniale la scelta di Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi e Luca Zacchini di interpretare ognuno una linea genealogica: padri, figli e nonni dalla stessa identica faccia e dai destini ugualmente segnati. In mezzo ai personaggi, sul palco, c’è una semplice porta: anch’essa potente sintesi di un interno asfittico, un po’ come accadeva nel teatralissimo Dogville di Lars Von Trier.

Una porta che è quasi una quinta al contrario, oggetto centrale della scena attorno a cui ruotano i personaggi, girandole dietro e riuscendo trasformati nel personaggio successivo.

È una giostra in cui ci siamo dentro tutti, questo carosello della Famiglia Campione, che è allo stesso tempo una summa e uno scarto del teatro degli Omini. Uno scarto perché lo spettacolo, pur nato da una scrittura collettiva e poggiando su una drammaturgia solida, impreziosita di gag fisiche fatte di tic (bellissima la scena dei tre fratelli che annuiscono a ritmo), assume una venatura quasi pinteriana, pur essendo diversissima la radice e l’atmosfera.

Ma è anche una summa perché questo lavoro – come sempre con gli Omini – nasce da una prolungata indagine sul campo, da uno sguardo antropologico che collassa sulla scena, e torna a rovistare in modo diverso ma contiguo in quel materiale sociale e incandescente che era già oggetto di Crisiko!, il lavoro che ha lanciato la compagnia. Ed è normale che sia così, perché, come ricorda il trio toscano, “Siamo tutti soli, siamo tutti diversi, siamo tutti omini”.

Dove. La famiglia Campione sarà il 14 febbraio a Pieve di Cento (Bo), il 14 marzo a Bucine (Ar) e il 20 marzo a Lastra a Signa (Fi). Non ve la perdete. Se salterà fuori qualche data aggiuntiva, magari più vicini a chi non abita in Emilia o in Toscana, di certo la trovate su Gli omini.

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Stasera sono in vena

Attori autori che riempiono la scena: tutti conoscono Ascanio Celestini o Carmelo Bene. Lasciate che vi presenti Oscar de Summa. E il suo Stasera sono in vena. Quelli – non pochissimi – che conoscono il suo lavoro sanno che si tratta dello spettacolo con cui prima o poi l’attore pugliese doveva fare i conti.

La sua scrittura ha attraversato vari “diari di provincia” più o meno macchiettistici e ha fatto i conti con lo scivolamento nella follia in un testo, Selfportrait, incluso nella raccolta di testi teatrali curata da Debora Pietrobono per Minimum fax e intitolataSenza corpo.

Ma con questo spettacolo De Summa va finalmente alla radice più profonda della sua ricerca, rimestando in una materia autobiografica che risale agli anni ottanta, al prendere piede della Sacra corona unita in Puglia e all’esplosione del mercato della droga, passando per le vite distrutte che questo comporta. Eppure si ride, e molto.

I fatti sono quelli che, diversi eppure identici, ricorrono quasi sempre nelle storie di dipendenza: rapporti spezzati, amori dissolti, amici che muoiono. E alla fine, paradossalmente, è proprio da quel mondo malavitoso che arriva – banale e luminoso – lo spiraglio di un nuovo percorso. “Tu non studiavi? E allora studia, va’”.

Va, che vuol dire vattene, lontano da questa terra, verso un destino diverso che incrocerà fatalmente le rotte del teatro che oggi, a distanza di decenni, ha il ruolo di rievocare tutto quanto.

Si tratta di un monologo, sì, ma è come se in scena si alternassero un numero impressionante di persone. De Summa è un attore straordinario, tra i più bravi della sua generazione, e in questo lavoro dà sfogo alle sue capacità interpretative passando da un personaggio all’altro: caricature, macchiette, ruoli similscespiriani, interpolando ogni figura nel flusso della narrazione.

È di certo una prova da vedere se si vuole capire oggi cosa significa fare l’attore in Italia; e insieme è una rivisitazione della narrazione teatrale, qui al servizio di un esorcismo della memoria e delle sue ombre, che poi è quello che fa sempre il teatro.

Dove. Lo spettacolo è a Bologna, al Cantiere Moline, dove De Summa terrà anche un laboratorio tra il 10 e il 22 febbraio. Stasera sono in vena però va in scena nei giorni 13 e 14 e dal 19 al 22.

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Alice

Fabrizio Pallara è una specie rara di artista. Con il suo Teatro delle Apparizioni cerca da anni, in maniera testarda, di fare un teatro ragazzi che sia pure un teatro d’arte, che possa essere visto tanto dagli adulti che dai bambini. E per di più ci riesce, perché – cosa ancora più rara – si rivolge ai bambini non come se fossero persone a cui le cose vanno spiegate moooolto lentamente, ma semplicemente facendo teatro.

Fa leva su quell’aspetto in grado di smuovere anche i più grandi: la meraviglia. La sua Alice, realizzata con il Teatro del Piccione, ne è un bell’esempio. È costruito con pochi mezzi, per lo più costumi e una serie di drappi e sipari che montano e smontano il paese delle meraviglie davanti ai nostri occhi, creando foreste di alberi “con la cravatta” e sentieri inventati lungo i quali Alice si imbatte nel cappellaio matto, la lepre marzolina, il brucaliffo, la regina, e gli altri personaggi del classico di Carroll. Che, se ci pensiamo, è forse una delle storie più difficili da portare in teatro, schiacciata tra l’immaginario inesauribile del libro e quello oramai collettivo della versione Disney.

Ma la fortunata sintonia tra Fabrizio Pallara e Simona Gambaro (che ha curato la drammaturgia) dà un risultato sorprendente, con una bizzarra Alice (Danila Barone) che abbina una gonna azzurra da bambina e una maglia da calcio: il sincretismo dell’universo infantile che sprigiona sempre dimensioni sorprendenti.

Il viaggio di Alice, fatto di danze con un aspirapolvere e di cassepanche in cui chiudersi che poi diventano case di bambola, raccoglie tutti i nostri riferimenti fiabeschi e li condensa in una dimensione familiare, che potrebbe essere persino quotidiana. In fondo il potere dell’immaginazione è tutto lì.

“Come potrebbe questa platea contenere nel suo ristretto spazio le sterminate campagne di Francia?”, dice Shakespeare all’inizio dell’Enrico V, chiedendo la complicità del pubblico. Allo stesso modo, come può una sala teatrale contenere l’universo sconfinato di Alice? Grazie all’immaginazione sprigionata dal teatro stesso.

Con una folgorante intuizione, Gambaro e Pallara lasciano che sia il teatro stesso, la sua illuminante confusione dei piani di realtà, a fare da innesco al viaggio. Alice è scelta a caso tra il pubblico – ma è davvero così? – ed è restia a entrare nella rappresentazione, finché se ne lascia travolgere. Il coniglio bianco – un’irrefrenabile Valerio Malorni vestito di bianco con collo di pelliccia – per farsi riconoscere come “coniglio” tira fuori una carota e conferma al telefono a un ipotetico regista “Mi ha riconosciuto!”. Mentre il Cappellaio matto, lo Stregatto e la Lepre marzolina sono affidati alle abilità trasformiste di Dario Garofalo e Raffaella Tagliabue.

Insomma, affinché il viaggio si realizzi bisogna essere disposti a entrarvi, che è anche il patto alla base di ogni possibile rappresentazione. Per ricordarlo Pallara e Gambaro preferiscono affidarsi alla sintesi di Pessoa – i viaggi sono i viaggiatori – che campeggia sui materiali dello spettacolo.

Dove. Per vedere lo spettacolo, che è stato in scena al Teatro India di Roma, bisogna aspettare la primavera: il 21 e 22 aprile sarà in scena a Parma. Se altre date si aggiungeranno potrete saperlo cliccando sul calendario del sito Teatro delle apparizioni, dove troverete anche il tour dello spettacolo precedente, Il tenace soldatino di piombo, che offre un po’ di appuntamenti in più.

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Recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto

Della lettura-spettacolo di Claudio Morganti e Elena Bucci ho scritto diffusamente in un articolo di qualche mese fa. Claudio Morganti è certamente uno dei maestri della scena europea, e in questo testo di Gianni Celati coniuga la sua grande sapienza attoriale all’ironia raffinatissima che si libera dalle righe del testo.

Quando ho confessato a Morganti, dopo la prima a Prato, di non aver mai letto il testo prima, lui mi ha risposto: “È perché non si leggono testi come questo che uno come Celati se n’è andato in Inghilterra”. Scherzava, ma neanche troppo. LaRecita dell’attore Vecchiatto è una delle poche felici incursioni della letteratura nella scrittura teatrale di questi anni, che vedono ancora troppo spesso distanti il mondo del teatro e quello dei libri.

E, soprattutto, parla di marginalità culturale in un mondo ricco e satollo, di “produttori di prosciutti”. Il teatrino di provincia di Rio Saliceto, con il suo unico spettatore, è una metafora del declino della cultura italiana. “Nessuno ci ascolta, Carlotta. Siamo fuori dalle mode!”, sibila Vecchiatto alla moglie, sua controparte sulla scena e nella vita.

E la meravigliosa leggerezza del testo di Celati sta nel non prendere del tutto sul serio nemmeno il suo personaggio, che oscilla tra l’invettiva contro un mondo sordo e l’arroganza di chi, pur vecchio e dimenticato, vuole essere ancora al centro della scena come è sempre stato. Eppure si intuisce, in questo personaggio scorbutico e negletto, tutta la solitudine di chi ha scelto la vita errabonda per inseguire l’arte e la cultura e che oggi, a conti fatti, non trova più cittadinanza da nessuna parte.

Lo spettacolo è un vero gioiello e Elena Bucci fornisce a Vecchiatto-Morganti un rimpallo magnifico.

Dove. Da quello che risulta dal sito delle Belle Bandiere, Le belle bandiere, questo spettacolo, che meriterebbe di essere visto in tutta Italia, ha soltanto due repliche: il 12 febbraio a Castiglioncello (Li) e il 4 marzo a Buti (Pi). Per i più pigri c’è lo streaming di Radio3 Rai, che proprio con questo lavoro ha inaugurato a novembre il suo “mese del teatro”.

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Alcesti

Per finire un accenno all’Alcesti di Massimiliano Civica, che è senza dubbio uno degli spettacoli più straordinari degli ultimi anni. È con estrema bravura ed eleganza che Monica Piseddu, Monica Demuro e Daria Deflorian hanno portato sulla scena questa versione minimale e bellissima del dramma euripideo, che ruota attorno al sacrificio per amore, che resta l’unica salvezza possibile per l’uomo che è comunque inevitabilmente destinato alla morte.

Non c’è solo la scelta di un’asciuttezza radicale, l’utilizzo delle maschere che dona fascino e si richiama filologicamente al dramma antico, o l’inquietante poesia di un luogo – l’ex carcere delle Murate di Firenze, dove lo spettacolo è andato in scena – a conferire una certa magia a questo lavoro di Civica. Ci sono anche gli scarti in leggerezza, o la scelta di chiudere accennando un motivo a suo modo pop (Henna di Lucio Dalla) che, con un ulteriore scarto di atmosfera, sintetizza il fulcro dello spettacolo: “Io credo che il dolore, è il dolore che ci cambierà / io credo che l’amore, è l’amore che ci salverà”.

Anche di questo spettacolo ho scritto più diffusamente qualche mese fa, e per i più volenterosi per approfondire c’è questo link. Tuttavia nessuna data all’orizzonte. Per una scelta precisa del regista, in netta controtendenza col mercato teatrale che costringe gli artisti a portare ovunque e a qualunque condizione i propri lavori, l’Alcesti è nato per quello spazio, per quella vicinanza d’ascolto, e per ora per quell’unica occasione. Può darsi che Civica cambi idea o può darsi di no, ma non rattristatevi. Io personalmente ho perso alcuni capolavori del teatro, per limiti biografici o geografici, di cui ho potuto avere una qualche eco solo grazie al racconto, appassionato, di chi c’era stato. E forse è questa una delle possibili funzioni della critica, per rispondere alla domanda iniziale. In fondo il bello del teatro – che è un arte dell’incontro – è anche questo, che è qualcosa che si dissolve e poi vive nella memoria e, perché no, nella mitologia del racconto.

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