Abbiamo visto “ La gelosia “ diretto da Philippe Garrel.

Il fantasma del ’68 si aggira ancora per l’Europa, si chiama Philippe Garrel.  Regista poco conosciuto ai più, molto amato dai cinefili e da autori con il pedigree come Bertolucci.  Scriviamo fantasma perché del ’68 non è rimasto nulla se non qualche ricordo romantico legato alla giovinezza e per lo più borghese.  Citiamo il Sessantotto perché Garrel è di quella leva calcistica, avendo vent’anni in quell’anno, perché proviene da quel Cinema ( la Nouvelle Vague ) e in particolare riesce ancora a coniugare quel modo di girare storie a metà tra Truffaut e Godard pur avendo un proprio timbro narrativo.  Philippe Garrel è un po’ il rappresentante di un Cinema di resistenza, in controtendenza, minimalista, che se ne frega di mode e di prodotto industriale e che continua a volgere lo sguardo verso un’epoca che non ha più ragioni, senso proprio o difensori.  Ama l’idea di gioventù e tutte le variabili che quest’età permette, ama un Cinema che forse è tutt’uno con la sua vita quotidiana ( suo padre era l’attore Maurice Garrel, suo figlio Louis è il protagonista anche di questo film, una delle sue compagne è stata l’attrice, cantante e modella Nico, conosciuta con il soprannome di Sacerdotessa delle Tenebre e per aver collaborato con Lou Red e i Velvet   ).  Insomma lui è il suo Cinema.  Della sua lunga carriera, iniziata a 14 anni con il film in 16mm Une plume pour Carole che ha poi distrutto nel 1970, ricordiamo il suo primo lungometraggio Marie pour mémoire ( vincitore al Festival di Hyères ) che non ha né titoli di testo né di coda ( come alcuni successivi ).  Tra i più famosi c’è L’enfant segret, storia in quattro capitoli basato sulla nascita di un ” bambino segreto ” ( premio Jean Vigo ), J’entends Inoltre la Guitare, un film sull’amore dai toni inquieti e inquietanti che prova ad esplorare l’inconscio, ( vincitore nel 1991 del Leone d’Argento a Venezia ) e soprattutto il più compiuto e conosciuto dal pubblico italiano Les Amants Réguliers che ha vinto il Leone d’Argento per la miglior regia.

Garrel continua il suo discorso sui sentimenti con un Cinema fuori dal tempo o anche senza tempo ( è la nota più affascinante e affettuosa che apprezziamo ), con un tocco personalissimo, con un estetizzante sperimentalismo influenzato dal maestro Godard e a volte con debiti narrativi alle tecniche surrealistiche.  Questa volta si serve di tre sceneggiatori ( oltre al complice Marc Cholodenko anche Caroline Deruas e Arlette Langmann ) la cui scrittura al femminile contribuisce alla costruzione ‘ vera ‘ dei vari piani comportamentali e sentimentali dei protagonisti; il tutto per raccontare una storia personale: Louis ( interpretato da Louis Garrel, suo figlio ) interpreta Maurice Garrel ( il padre del regista e nonno di Louis ) che a trent’anni ha avuto una storia con una donna mentre lui ( il regista ) viveva con la madre separata, solo che lui nel film è una ragazzina di dieci anni.   Con un titolo fedele alla versione francese, ma che poteva essere anche frammenti di vita amorosa ( forse più attinente ) e con un bianco e nero sessantottino e atemporale, Garrel ci porta nella Parigi povera, bohemien e senza alcun glamour.

Il film, con una trama circolare, inizia con la separazione dell’attore trentenne Louis che lascia la moglie e la figlioletta per andare a vivere in una mansarda proletaria con un’attrice, Claudia ( Anna Mouglalis, vista nel nostro cinema italiano, viso bello e duro, sguardo penetrante ), brava ma senza lavoro da troppo tempo.  La loro storia d’amore è forte e solida ma mentre lui vive serenamente il rapporto, le è fedele, lavora in teatro e vede con regolarità la figlia con cui ha un rapporto molto affettuoso e complice, lei vive il disagio, se non la sofferenza, del non lavorare come attrice e che trasla anche a se stessa con la ricerca di qualcos’altro, come una vita più borghese, una casa più bella, avere dei soldi.  E questo forte disagio, che lui non comprende, porta lei ad avventure occasionali, a vivere cercando altro fino ad accettare un lavoro ‘ normale ‘ presso un architetto sposato ma di cui lei probabilmente diventa amante e che inizia un po’ a sfruttare economicamente ( lei vorrebbe andare a vivere in ua bella casa con il suo Louis messa a disposizione dal suo datore di lavoro ).  E questa storia d’amore si interrompe improvvisamente, con lei che lascia lui, lui che non riesce a sopportare il dolore della perdita fino a un tentativo di suicidio e la conclusione marziana per il cinema odierno è di Louis un po’ catatonico seduto su una panchina al parco assieme alla figlia e alla sorella…

Garrel ancora una volta resta coerente con il suo Cinema che coniuga  sperimentazione linguistica, biografismo ed esperienze esistenziale. Un cinema intimissimo, personale, tenero, d’altri tempi ( migliore dei nostri ), in cui dei giovani trovano in vecchi professori o in intellettuali dei sostituti dei padri, in cui l’amore è ancora qualcosa di vero e palpabile, in cui i bambini sono bambini anche se scaltri ma mai smaliziati.  Garrel continua a fare un Cinema in cui si cerca di raccontare, cercare e semmai anche afferrare, i sentimenti, quelli veri, che oggi possono sembrare selvaggi.

Il cast è adattabile e accettabile in questo tipo di operazione filmica, anche se il protagonista Louis Garrel sembra avere una sola espressione del viso e ciò che risalta è più il suo nasone che non il suo sguardo.  Molto brava invece Anna Mouglalis, purtroppo rovinata dalla voce della doppiatrice.  Simpatica ed efficace la piccola Olga Milshtein.

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