Abbiamo visto “ La giovinezza “ regia di Paolo Sorrentino.

Sorrentino fa una nuova incursione nell’universo maschile, in questo caso al senso dell’egotismo dell’uomo-artista in tarda età. Un racconto non di una grande bellezza ma una scorribanda nell’idea che si può avere della giovinezza in vecchiaia e al tempo che inesorabilmente e troppo rapidamente passa. Ma Sorrentino non fa una ricerca del tempo perduto né tantomeno di quello ritrovato, sviluppa una riflessione sul tempo – svuotato di sentimenti – in una forma di rimpianto trattenuto e da tenere comunque sotto controllo. Il regista come un entomologo stravagante ci mostra ripetutamente corpi vecchi, carni tremule e flaccide, peni rachitici e buoni solo per espellere un po’ di bile, seni cadenti, un Maradona parodiato dal corpo a palla, con un tatuaggio di Carlo Marx sulla schiena e una bombola ossigeno pronta all’uso; ci svela escrescenze, pelli che cedono, l’impossibilità di fare un pisciata copiosa e liberatoria, e naturalmente la memoria dei due protagonisti che svanisce e lo sguardo rivolto quasi in un avvitamento su se stesso. Immagini sicuramente forti e narcisistiche di un pensiero, come i temi forti, forse alti, ma che Sorrentino affronta a suo modo, da quel provinciale che è, con i suoi limiti narrativi e allo stesso tempo con la sua intensa visionarietà non sempre originale: in cui le immagini sono a volte molto belle; ma i dialoghi sembrano il frutto di sentenze a effetto, le battute si trasformano in un’affermazione stentorea, in aforismi alti e algidi che evidenziano a volte una sostanza libresca e non un vero e sincero sentire di emozioni e di riflessioni profonde. Quasi sembra che venga costruita una scena per una battuta, a volte ad effetto, e non come fosse un naturale frutto della scena stessa. L’ego gonfio dei protagonisti sembra l’ego dello scrittore stesso che non è mai capace di rendere semplice un sentimento ma lo deve infiocchettare quasi in lezioncine di psicologia o filosofia o letteratura alta. E forse anche per questo che piace a chi non sa o si abbevera genericamente alla cultura. Ma questa sua narrazione da animale di provincia è la palla al piede che gli impedisce di essere un autore vero, di prendere un suo respiro naturale; dalla provincia è venuto Fellini, dalla provincia è venuto Antonioni eppure – senza fare paragoni estetici e drammaturgici con i due maestri del passato – quanta differenza di prospettiva e di analisi che c’è, se li si pone in paragone. Un po’ come se la modernità da un lato nascesse originale e naturale, quasi come una necessità morale ed esistenziale, per mettere tutto in discussione; mentre per Sorrentino la ricerca proviene da film già visti o da siti di gossip nazionale. Come se Sorrentino invece di guardare le conseguenze della vita le osservasse da un buco della serratura come fanno i guardoni.

Più che in tutti gli altri suoi film, i limiti del suo ragionar-filmando vengono mostrati ne La giovinezza ( titolo che già segna una confusione intellettuale con ciò che si racconta effettivamente ) e nonostante delle belle immagini e alcune visionarietà originali spesso sembra di finire in una palude fragilissima, più intellettualistica che sanamente intellettuale e fine a se stessa, quasi un solipsismo da uomo in mutande, da solo a casa, d’estate. Quasi verrebbe da dire, tolte delle immagini belle, andando al cuore del ragionamento, ma cosa ci vuoi raccontare ? Che più della passione per la giovinezza si vuole negare il fantasma della vecchiaia e dell’impotenza ? Ma allora passiamo da una copia sbiadita della Dolce Vita ( La grande Bellezza ) ad una copia più intellettuale, meno autentica e sincera di 8 e ½, con questa Giovinezza ? Letterariamente, il protagonista apatico, quasi abulico e insensibile ricorda lo scrittore Robert Walser, mentre il luogo in cui si svolge la storia e una via di mezzo tra l’albergo di Grand Budapest Hotel e l’albergo in cui Thomas Mann scrisse La Montagna Incantata. Francamente i limiti autorali di Sorrentino prendono il sopravvento in questa opera, rendendola algida, a volte criptica, a volte banale, forse del tutto inutile proporzionalmente alle intenzioni.   Ed anche il discorso dell’arte che si nutre di potenza giovanile e quindi nega la vecchiaia resta sullo sfondo delle prostate e delle urine.

Nello Schatzalp Hotel di Davos ( citato da Mann ne La montagna incantata ) tra i vari ospiti ci sono due vecchi amici, per giunta consuoceri, Fred e Mick. Il primo ( Michael Caine ) è stato un compositore e direttore d’orchestra famoso ma oggi si è ritirato a vita privata, ormai vedovo si è chiuso in se stesso sino al punto di rifiutare la richiesta della regina Elisabetta di dirigere un concerto per il compleanno del suo Filippo; Mick ( Harvey Keitel ) è un regista che sta ultimando di scrivere con quattro assistenti il suo film-testamento e non spera altro che di buttarsi ancora una volta nella mischia della vita. Questi due anziani signori affrontano l’età che avanza in modo del tutto opposto anche se hanno la stessa consapevolezza del tempo che passa e in più si vogliono bene, si accettano e si rispettano. In questa beauty farm, dai ritmi termali – tra un attore che prepara una parte ( Paul Dano ), un bambino che suona il violino e inconsapevolmente dei brani scritti da Fred, un monaco buddista sempre in meditazione e che alla fine levita come in un film di Bombolo, uno scalatore un po’ autistico che sembra non essere entrato in una pagina di Beckett, una coppia che non parla mai e poi urla nel bosco in un amplesso, un attore che impersona Hitler angustiato dal suo ruolo, una cantante pop ( Veronika Dash ) ai limiti della vanità più stupida, un Maradona dilatato ( Roly Serrano ) malato ma che sa ancora palleggiare con un limo, una miss mondo ( Madalina Diana Ghenea ) che giunge in piscina nuda e si va a sdraiare mostrando la sua naturale grande bellezza, i quattro sceneggiatori del film che stanno ultimando per Mick, l’arrivo improvviso di una diva americana ( Jean Fonda ) che parla come un carrettiere e sfancula i sogni del suo amico Mick e su tutti la figlia di Fred ( Rachel Weisz ) appena lasciata dal marito perché non sa fare l’amore, quindi distrutta e pronta a rifarsi rimproverando suo padre di egoismo nei confronti suo e della madre – i due amici artisti che leggono il giornale o scrivono, passeggiano, ricordano di una ragazza della loro adolescenza, parlano della salute e di quante gocce di pipì hanno fatto. E in questo laboratorio esistenziale e asettico i due avranno destini naturalmente differenti e opposti, con una scelta alla Monicelli per l’uno e una chiacchierata con il cadavere della moglie seduta a una finestra di Venezia, per l’altro. Qualcuno vi dirà che le storie vengono da lontano, hanno vari livelli di ascolto e in fondo è una riflessione del regista sul tempo che passa e sul cinema e la sua necessità di esistere, per noi è solo formalmente un elegante vuoto pneumatico.

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