Mi è rimasta la sgradevole sensazione di aver sbagliato l’indirizzo: invece di settantatré devo aver scritto un altro numero (sempre in rima con “bebè”); l’ho già fatto un’altra volta, non riesco proprio a capire come succeda – uno scrive automaticamente lo stesso indirizzo un’infinità di volte, senza mai sbagliarsi, e poi, all’improvviso gli viene un dubbio, lo guarda con la massima attenzione sulla busta, e si accorge che non ne è più sicuro, non lo riconosce più, è veramente strano… Succede con le parole più comuni: potolok, pa-ta-lok, pas ta loque, patalóg, e così via, finché quel povero soffitto ti suona assolutamente estraneo e sconclusionato come un lokotop o un potokol senza alcun senso. Credo che un giorno succederà la stessa cosa con la vita.

(Il dono, p. 432)

A L’informazione di Martin Amis risposi con assordante e felice clamore. La mia folla interiore stipata da qualche parte, in un piccolo auditorium, in una palestra adibita a sala lettura, aveva applaudito, fischiato e gridato entusiasta, mentre Martin Amis attraverso la mia voce leggeva. Io euforico e frastornato di fronte alla prosa, lieve gigantessa, de L’informazione che arrembava la realtà costringendola a parlare. Fu la mia colonna sonora romanzesca per un paio di anni. Dopo essermi dissetato alla fonte di Amis ho pensato di risalire su, fino alla sorgente, e vedere dove esattamente questo spumeggiare sgorgasse.

Sono arrivato a Nabokov, Il dono. Ci siamo incontrati per la prima volta in una libreria al mare durante una serata estiva; ho letto l’inizio: In una giornata dal cielo coperto ma luminosa, qualche minuto prima delle quattro pomeridiane del 1° aprile 192…; i sentimenti liberati dal mio stomaco furono antipatia, acida irritazione, assieme a un brutto aggrottare di sopracciglia (la parola “aggrottare”, bella cazzo! le sopracciglia che diventano antro, che mimano un grotta scura e spaventosa), mentre la mia voce interiore si rivolgeva con modi romaneschi all’autore: “Ecco, è arrivato Mr. Big Stuff”. Faticavo a seguire una scrittura che sentivo davvero troppo piena di sé, talmente opulenta da apparire deforme; mi sembrava di poter addirittura sentire il grottesco tintinnio dei pesanti gioielli che adornavano ogni frase; e poi era come assistere a una rassegna di impertinenti bellezze che sfilano per un esclusivo gruppetto di magnati. Quella sera quindi è andata a finire che l’ho mandato al diavolo e ho preso Elmore Leonard.

Due anni dopo, in autunno, l’ho incontrato di nuovo, ma questa volta, vai a sapere perché, mi ha rapito. Alla prima lettura non ho capito molto. Da quella vasta nebulosa di fantasia e immaginazione riuscivo a sentire solo delle scariche celestiali, ed era bellissimo. Avevo l’impressione di essere capitato di notte ai piedi di una delle cime delle Dolomiti, intuivo la grandezza ma non riuscivo a vedere i confini, i colori, la forma. Man mano che faceva giorno, sentimenti di soggezione, paura ed enorme bellezza si rovesciavano negli occhi, e le rètine in coro emettevano un oooohhh meravigliato. E tutto il corpo, e l’anima anche, se ne stavano incredule di fronte a quella solida meraviglia; alla sua storia segreta fatta di smottamenti e terremoti notturni, crolli, fratture, frane maestose che hanno poi finito col produrre quell’articolatissimo boato che è Il dono.

E così ho passato un sacco di tempo  (due anni tondi) a leggere e rileggere questo libro in cui la realtà viene continuamente festeggiata da parole con la pelle d’oca, ardenti desiderio e senso (intendo cioè la parte sensuale della ragione che si fa miracolosamente parola, lingua e discorso). Le uniche frasette che io invece ero capace di mettere insieme per spiegare cosa provavo erano povere e grossolane, qualcosa come: “bello!, bello da matti” e poco altro. Cosa sia bello da matti è facile dirlo, basta aprire Il dono a caso e leggere:

L’attesa. Lei arrivava sempre in ritardo, e sempre passando per una strada diversa dalla sua. Anche Berlino può diventare misteriosa. E quel lampione sotto il tiglio ammicca strizzando un occhio. Buio, aromi, pace. E il rapido passante lì al crocicchio ha l’ombra minacciosa di un rapace sparviero. Vento, e la luna dondola: il cielo ha liquide movenze blu: fantasma di Venezia, pali, gondole, bautte, ponti, – il mondo a testa in giù. Ti prego, non violare mai le regole del gioco, la magia dell’illusione. Coltiva l’eresia più irragionevole, fai del miracolo la tua ragione di vita (p. 224)

Si fece strada fino alla piattaforma esterna. Fu subito perquisito con brutalità dal vento; strinse la cintura dell’impermeabile e si sistemò la sciarpa, ma ormai la modica quantità di tepore del tram gli era stata sottratta. Non nevicava più, e la neve era scomparsa Dio sa dove; restava soltanto un’onnipresente umidità che si rivelava nel fruscio degli pneumatici, nel lamento strozzato dal clacson (suinamente stridulo, torturante per l’udito), nell’oscurità del giorno che tremava per il freddo, la tristezza, il disgusto di se stesso, nella particolare sfumatura gialla delle vetrine già illuminate, nei riflessi, nei riverberi, nei liquidi bagliori, – in tutta quella patologica incontinenza della luce elettrica (p. 113)

Spiegare invece la ragione per cui questa prosa rapisce e toglie il fiato è già meno facile, ma si riesce. Io per esempio sono arrivato a questa conclusione: la lingua nabokoviana ha una capacità miracolosa di convincere la realtà fantasma a indossare un vestito di parole. Provo con un’altra metafora: Nabokov è un sarto che taglia parole su misura (che il più delle volte stanno indosso che è un incanto) per la realtà fantasma (cioè la miriade fastosa di corpuscoli emotivi che a ogni istante della vita sciama dinanzi ai nostri occhi). Questa realtà invisibile, ma allo stesso tempo energica e soda, la si può ammirare nel suo radioso splendore quando, e solo quando, sia stata convinta a indossare gli abiti verbali cuciti per lei con enorme fatica. Ora, dire cosa origina, dire le ragioni di questa lingua, tentare di capire cosa nutra l’ardore nabokoviano nel rendere giustizia alla strana essenza delle cose è già, almeno per me, difficile.

Cominciamo a fare un breve riassunto della trama (che copre uno spazio temporale di tre anni: comincia nell’aprile 1926 e finisce nel giugno del ‘29): Fëdor, giovane scrittore russo espatriato a Berlino, si cimenta in diversi progetti letterari cercando di raffinare il suo talento o, più precisamente, il suo dono. Fëdor però, ancor prima di essere un poeta, è una persona che ha perduto il padre, un padre emotivamente enorme, gigantesco: Kostantin Godunov-Čerdyncev, esploratore di fama mondiale, morto (anche se il corpo non è mai stato rinvenuto) durante la sua ultima spedizione in Asia Centrale. A metà del romanzo Fëdor incontra Zina Merz, anche lei giovane russa espatriata a Berlino, s’innamorano. Fëdor riesce a pubblicare un libro (una biografia romanzata su Nikolaj Černyševskij), è sempre più felice e innamorato di Zina, sa di aver trovato la donna della sua vita, sa di aver trovato la sua musa, fine.

Fino alla terzultima pagina del libro si è convinti di aver letto un romanzo colmo, verdeggiante e rigoglioso, che però racconta una storia tutto sommato banale, come quella che ho appena riassunto. Poi, a pagina 450 (terzultima pagina del romanzo), con un dialogo tra Fëdor e Zina, Nabokov allunga la mano al lettore e lo aiuta a salire sul suo tappeto volante. E una volta salito a bordo, tutto gli apparirà sotto una luce diversa. Dopo aver letto quel dialogo capiamo che Fëdor non è un personaggio a cui la vita, sinistramente caotica, accade; i suoi movimenti, che sembravano privi di senso e scopo, appariranno inseriti all’interno di un disegno straordinariamente preciso, incastonati in una struttura romanzesca inespugnabile. Da questo dialogo capiamo che: il romanzo che Fëdor dice di voler scrivere un giorno è proprio il libro che teniamo tra le mani, e che tutti i suoi spostamenti attraverso Berlino, i suoi incontri, il suo giro di conoscenze, non sono altro che il frutto dei tentativi del fato per fare incontrare Zina e Fëdor.

Il dono è quindi un romanzo regolato dalla presenza di un fato benigno; pare che ci siano fantasmi, “cose trasparenti” che plasmano e modellano la realtà affinché Fëdor sia felice.

Il romanzo si apre con la descrizione minuziosa di una coppia attempata che immobile sul marciapiede guarda dei facchini trasportare i loro averi dentro la stanza di una casa nella quale tra breve prenderanno alloggio; il lettore, cauto (cauto perché un paio di parentesi che contengono una voce estranea saettano nel mezzo della descrizione), comincia a capire e si dice: “Sì, allora, questi sono i protagonisti: due vecchi che traslocano e iniziano una nuova vita”. Poche righe dopo capiamo che no, quelli non sono i protagonisti; si trattava di un falso inizio, l’inizio di uno di “Quei romanzi che si scrivevano una volta”, come annota un euforico Fëdor (proprio oggi è stata pubblicata una sua raccolta di poesie che ha come tema centrale la sua infanzia felice), il quale sta per prendere alloggio nello stesso palazzo e da dietro osserva la scena. La prima pagina quindi è un pesce d’aprile (il quale scatenerà una faida di pesci d’aprile), che Fëdor ha tirato a noi lettori. Alla fine del romanzo però sapremo che la donna della coppia, la signora Lorentz, impartiva lezioni di disegno a Zina Merz e questo trasloco è stato il primo tentativo (mancato) del fato  affinché Zina e Fëdor s’incontrassero; un tentativo goffo e macchinoso, come dirà alla fine Fëdor alla sua amata: «Ti sembra cosa da poco trasferire i Lorentz e tutti i loro arredi nella casa in cui mi ero appena installato?». Come dicevo, lo scherzo del primo d’aprile non finisce qui, perché Nabokov ne architetta uno ai danni di Fëdor che poche righe più avanti riceverà una telefonata dal suo anziano amico Aleksandr Černyševskij (nessun grado di parentela con lo scrittore Nikolaj  Černyševskij, come spiego in questa nota a piè di pagina vocale), il quale gli anticipa poche frasi tratte da una bella recensione sul libro di poesie di Fëdor e lo invita a casa, promettendo di leggergli il seguito solo quando li avrà raggiunti. Fëdor, arrivato dai coniugi Černyševskij, scoprirà che si trattava di un pesce d’aprile, quella letta al telefono era una recensione fantasma, inventata di sana pianta dal suo amico Černyševskij. Tutto questo febbrile diramarsi di silenziosi rimandi è compresso nelle primissime pagine del libro, non siamo che all’inizio.

Una volta che decidiamo di rovistare nelle tasche di un romanzo la sensazione dominante è molto simile a quella provata quando, per qualche oscura ragione, apriamo un televisore o un asciugacapelli; dopo aver svitato viti sempre più minuscole, finalmente guardiamo dentro e pensiamo qualcosa come: “Cazzo, ma davvero tutta ‘sta roba c’è qui dentro?”. Coacervi di fili colorati, autostrade in miniatura; immobili e silenziose creature di una civiltà che tra loro intrattengono rapporti complicatissimi e misteriosi, tanto che a guardare quell’immobile brusio di fusibili e fili pare di vedere raffigurata una festa del villaggio di Pieter Bruegel (ridipinta però da Mondrian); mentre le altre volte, quando ci limitavamo a sfiorare un tasto, non sapevamo che un vastissimo mondo a noi incomprensibile e sconosciuto si metteva in moto.

Procediamo: il fato compirà la seconda mossa durante una serata letteraria organizzata dalla signora Černyševskij, alla quale partecipano molti espatriati russi, tra cui Fëdor (e Končeev, ineffabile e affascinante poeta, per alcuni aspetti ombroso gemello di Fëdor, di sicuro l’unico verso il quale nutre sentimenti di rivalità e profonda ammirazione), che mentre assiste alla lettura della tragedia scritta da un certo Busch, personaggio dalla splendida e del tutto infruttuosa fronte, gli viene fatto recapitare un messaggio scarabocchiato su un pacchetto di sigarette; si tratta di un’offerta di lavoro da parte di un avvocato seduto tra il pubblico. Dovrebbe aiutare una ragazza russa nella traduzione di alcuni documenti legali (la ragazza russa è ovviamente Zina Merz). Fëdor però non ne vuol sapere di tradurre quella roba e infatti rifiuta, costringendo così il fato a escogitare un’ultima mossa, elegante e sottile.

Dopo la rilettura di Viaggio ad Arzrum di Puškin, che coincide con una visita di sua madre (espatriata a Parigi), Fëdor si sente chiamato a scrivere la biografia del padre, anche se poco dopo abbandonerà il progetto (non senza che ce ne venga offerto un ampio stralcio, un lungo e bellissimo schizzo preparatorio), perché troppo coinvolto sentimentalmente all’oggetto del suo libro e quindi incapace di una scrittura vigile. Fëdor non riesce a non idealizzare la figura del padre il quale somiglia, nelle pagine scritte, a una sorta di figura divina che si muove in zone (il Tibet) paradisiache. L’abbandono del progetto coincide con la richiesta della padrona di casa di lasciare libera la stanza nella quale Fëdor alloggiava ormai da due anni. Fëdor sarà aiutato da Madame Černyševskij a trovare un nuovo alloggio. Il secondo capitolo si chiude con un certo Ščëgolev, padrone di casa, che mostra la stanza a Fëdor:

A Fëdor Konstantinovič la stanza parve repellente, ostile, non in linea con la sua vita, spostata di alcuni e fatali gradi, (di qualche trattino della linea tratteggiata con cui rappresenta la rotazione di una figura geometrica) rispetto all’ideale rettangolo entro i cui confini avrebbe potuto dormire, leggere e pensare; ma anche se per un miracolo, avesse potuto adattare la propria vita all’angolazione di quella scatoletta messa per traverso, il suo arredo, i suoi colori, la vista sul cortile asfaltato – tutto era intollerabile, e subito decise che non l’avrebbe presa per nulla al mondo […] Tornarono nell’ingresso […] Fëdor Konstantinovič sfiorò distrattamente il tavolo, la fruttiera con le noci, il buffet… All’altra estremità della stanza, accanto alla finestra, c’erano un tavolino di bambù e una poltrona dall’alta spalliera: sui braccioli, per traverso, stava liberamente adagiato un abito di garza azzurra, molto corto, come si portavano allora ai balli, e sul tavolinetto, un fiore argento brillava accanto ad un paio di forbici. […] «Sì, credo che la stanza mi vada bene» disse Fëdor Konstantinovič ( p. 185)

La spiegazione di questa scelta in apparenza incomprensibile la darà lo stesso Fëdor parlando con Zina nel dialogo a fine romanzo:

«Decisi di non prendere la stanza, – e allora, con le ultime forze, come estrema e disperata manovra, non potendo farti entrare in scena immediatamente, mi fece intravedere il tuo vestito di seta azzurro su una sedia – ed è strano, non capisco io stesso perché, stavolta la manovra riuscì e mi immagino il sospiro di sollievo che tirò a quel punto.»
«Solo che il vestito non era il mio ma di mia cugina Raisa, una ragazza molto simpatica ma bruttissima: me lo aveva lasciato perché scucissi o cucissi qualcosa ».
«Mossa magistrale! Che ingegnosità! Nella natura e nella vita le cose più incantevoli sono basate sull’inganno. Lo vedi: ha cominciato con una spavalda larghezza da parvenu e ha finito con un tocco raffinatissimo. Non è forse la linea giusta per un romanzo straordinario?» […] (p. 451)

Il romanzo straordinario che Fëdor vorrà scrivere un giorno è Il dono, libro costruito sulla logica di un fato benigno e iperattivo. Bene, grandioso! Ora però è il caso di cominciare a chiedersi cosa significhi il fato e che valore abbia voluto dargli Nabokov. Può certamente essere d’aiuto segnalare che Vèra Nabokov, moglie di Vladimir, nell’introduzione a una raccolta di racconti pubblicata postuma, lamentò la disattenzione da parte della critica nei confronti dell’elemento che permea tutta l’opera di suo marito e che lei definì con una parola russa ー potustoronnost ー, che in inglese viene tradotto con hereafter, ‘aldilà’.

Ho personalmente contato (mi sono servito dell’edizione inglese) le volte che parole come ghost, phantom e shade compaiono e, sempre che abbia fatto bene i conti, ne ho individuate 43 in un romanzo di 333 pagine: una volta ogni sette pagine circa. Il dono, mi sono accorto, è infestato dai fantasmi, fantasmi originalissimi, timidi e discreti, niente catene e lenzuola bianche; la loro presenza, soprattutto per quanto riguarda Fëdor, è periferica, marginale, ma la loro importanza è vitale come il cuore che mi batte nel nel petto.

In questo romanzo ci sono altri due personaggi tormentati dai fantasmi: uno è Aleksandr Černyševskij, il vecchio amico di Fëdor che gli fa lo scherzo del primo d’aprile. Aleksandr vede il fantasma del figlio Jaša, anch’egli come Fëdor giovane poeta, morto suicida. Questi avvistamenti lo spingono a poco a poco verso la follia e poi la morte. L’altro è Sasha Černyševskij, anch’egli giovane poeta, figlio dell’intellettuale Nikolaj Černyševskij. Per quanto riguarda Aleksandr e i rapporti che intrattiene con Fëdor occorre dire che entrambi tentano di venire a patti con la propria perdita e che assieme formano un’obliqua simmetria: il primo piange il figlio, il secondo il padre. Aleksandr però, e Fëdor osserva attentamente il modo che questi ha di parlare col suo dolore, viene atterrato dall’insostenibile peso di un lutto che gli impedisce di mantenere l’equilibrio; infatti egli piomba in un’altra dimensione (entra ed esce dalle case di cura a causa dei suoi attacchi di follia sprigionati dall’avvistamento di trasparenti presenze dei defunti), Fëdor invece non piomba, ma scivola nell’altra dimensione. Qualsiasi cosa faccia Aleksandr, Fëdor fa l’esatto contrario; per esempio: il primo consiglio in assoluto di scrivere una biografia romanzata di Nikolaj Gavrilovič Černyševskij viene dato a Fëdor proprio da Aleksandr, il quale vede nel “grand’uomo degli anni ‘60” una figura eroica e fondamentale per la storia della cultura russa. Fëdor seguirà in maniera del tutto paradossale il consiglio e infatti scriverà una biografia romanzata devastante, una  spietata e divertita dissacrazione di un monumento (parecchio muffoso e incrostato dal tempo) delle lettere russe. Lo stesso si può dire per quel che riguarda il modo in cui Fëdor vive la perdita del proprio padre (definirà infatti “volgare caricatura” il modo che Aleksandr ha di parlare con l’altro mondo, l’aldilà); pare che questo signore sia un esempio vivente da non seguire se si vuole parlare con la propria dolorosa memoria e con tutto ciò che sembra non avere significato se non quello di farci provare un dolore senza fondo. Fëdor, al contrario, ad ogni istante ha la sensazione di vedere l’evanescente fantasma delle realtà, quel luminoso sovrappiù che si manifesta sotto forma di silenzioso e lieve miracolo e che si travasa poi in voce, parole e scrittura:

Mentre attraversava la strada [ Fëdor ], diretto verso la farmacia all’angolo, girò involontariamente la testa (un bagliore gli aveva colpito di rimbalzo la tempia) e vide – col rapido sorriso con cui salutiamo un arcobaleno o una rosa – che dal furgone stavano scaricando un parallelepipedo di cielo di un bianco accecante, un armadio a specchi su cui, come su uno schermo cinematografico, scorreva un riflesso impeccabilmente nitido dei rami, scivolando e oscillando in modo tutt’altro che ligneo: era un vacillare umano, condizionato dalla natura di chi portava quel cielo, quei rami, quella sdrucciolante facciata. (p. 18-19)

Il brano qua sopra è uno squisito istante in cui la realtà invisibile appare rapprendendosi sotto forma di minuscolo e silenzioso miracolo. Senza scomodare Joyce, Tommaso d’Aquino e andare a vedere col righello se integritas, consonantia e claritas sono rispettate, quel brano è sostanzialmente una epifania. Cioè un globulo, tra quella scatenata moltitudine di bollicine agitate, febbrili e casuali che chiamiamo “realtà”, che si separa dal resto e ci viene incontro. In queste occasioni le immagini interiori, i significati emotivi interni che popolano la nostra mente combaciano perfettamente con la realtà esteriore. In questi attimi pare che ci sia una aderenza, una chiarezza e intesa profonda tra ciò che si anima fuori e ciò che si anima dentro; si ha la sensazione di entrare solo per un istante in un fremente paradiso di significato. Ecco, in quell’attimo la realtà ideale che vive dentro di noi si rapprende in qualcosa che abita là fuori, nella realtà di fronte ai nostri occhi. L’immagine interiore che uno ha, diciamo, di un pioppo, di una caviglia, di un tramonto o di un battere di mani, trova il suo sosia nella realtà tangibile e, seppure per pochi increduli battiti di ciglia, il mondo si trasforma nella nostra utopia personale. Questo tenero bacio che la nostra anima scambia con la realtà è quel che io chiamo epifania.

L’aspetto più interessante e che mi preme sottolineare è che questi doni ci lasciano con la sensazione che la realtà in quel momento stia tentando di mormorare qualcosa a noi e solo a noi; pertanto un sentimento ci invade, con la convinzione che il mondo sia stato creato per noi, e tutto è colmo di senso e significato.

L’accogliere i fantasmi della realtà, quel che io chiama epifania è giustificato dal bisogno, disperato bisogno, di dare un senso alla realtà. E questo romanzo, travolto da una felicità torrenziale, questo Cognizione del dolore al contrario, è costruito in modo che ogni coincidenza e somiglianza, ogni fatalità cambi di segno e perda il suo minaccioso alone di nonsenso; si passa, per essere più precisi, dal perturbante al suo contrario, l’epifania.

Lo stile che da questa scelta consegue  annulla il perturbante, dissolve la non famigliarità di certe manifestazioni della realtà che, come ha sostenuto Freud, leggiamo come presagi di morte. E la morte, in un mondo in cui del corpo di dio non sono rimasti che frammenti coi quali è difficile ricostruire un qualcosa di vivo, è l’abisso del nonsenso. Cosa si può fare per fronteggiare questa che ad alcuni appare come un’ovvietà? Nabokov ha creato un mondo (questo de Il dono) in cui la morte viene negata. E a maggior ragione mi sento di sostenere questa ipotesi perché la figura che ne Il dono più di ogni altra incarna la morte è Nikolaj Černyševskij, il quale viene inserito come un corpo estraneo nel romanzo, non fa parte della storia, la biografia è un testo a sé, separato, espulso dal resto. L’universo regolato dalle leggi nabokoviane sembra volersi liberare da questa ingombrante e goffa presenza.

Ci sarebbe molto da scrivere sul tanto discusso e bellissimo quarto capitolo, Il più inatteso, il meno nabokoviano tra tutti i lavori di Fëdor, come lo ha definito Brian Boyd (il più acuto tra gli studiosi di Nabokov), ma per questioni di spazio devo limitarmi all’idea di realtà che il Černyševskij di Nabokov propone. Il brano più famoso ed eloquente è questo:

Černyševskij spiegava: «Noi vediamo un albero; un’altra persona guarda lo stesso oggetto. Nei suoi occhi vediamo che la sua immagine di albero è identica alla nostra. E dunque noi tutti vediamo gli oggetti così come essi sono realmente». Tutte queste scempiaggini hanno anche un particolare risvolto comico: il costante ricorrere dei «materialisti » all’albero, è particolarmente divertente perché nessuno di loro aveva dimestichezza con la natura, in specie con gli alberi. [ … ] Černyševskij non distingueva un erpice da un aratro, confondeva la birra con il Madera, tra i fiori di bosco riusciva a nominare solo la rosa selvatica, ma è caratteristico che abbia subito colmato questa sua ultima lacuna in fatto di botanica con «l’idea generale», aggiungendo con la supponenza dell’ignorante che «essi» (i fiori della taiga) sono identici a quelli che crescono in tutta la Russia ». (p. 304 – 305)

Questo povero diavolo intrufolatosi per sbaglio in paradiso verrà malamente punito dal dio di questo libro, dall’Autore; quella marca di realismo agli occhi di Nabokov è qualcosa di ripugnante. E soprattutto, il grandioso padre morto di Fëdor, il dio della sua vita, in un mondo come quello di Černyševskij non sarebbe altro che un coso di carne ed ossa sottoterra. E l’arma più efficace per smentire Černyševskij è creare una lingua che riesca a tener conto di quella realtà invisibile ma copiosa, che ti soffoca e spintona il cuore.

 

Seconda Parte

l dono si chiude con Fëdor che espone a Zina l’idea del romanzo che scriverà. Il primo luccichio di questo progetto verrà notato dal protagonista in seguito a una giornata e una nottata densissime di pensieri e visioni. Siamo in estate e Vita di Černyševskij ha suscitato un vespaio di polemiche tra la comunità degli emigré. Fëdor, la mattina del 28 giugno del 1929, si sveglia di buon’ora e se ne va al Grunewald (un parco di Berlino, lo stesso in cui il figlio di Aleksandr Černyševskij si è tolto la vita) per fare il bagno e riposarsi dopo le fatiche del libro. Ci viene raccontata una giornata ricca di sole e una nottata carica di sogni. E in una sola giornata (una sola giornata, proprio come quella passata da Leopold Bloom), Fëdor sentirà e capirà tante cose.

In questa parte del libro (quaranta pagine circa) si avanza per gradi, seppur impercettibili, di consapevolezza. Fëdor scende in strada e le prime epifanie cominciano a manifestarsi senza soluzione di continuità: un signore che ‘picchia’ un tiglio con un tappeto, una bicicletta distesa, al posto della bara, dentro a un carro funebre, il sole che, come una gazza, gioca con gli oggetti più piccoli e lucidi:

Dove mettere tutti i doni che la mattina estiva mi offre – e offre solo a me? Tenerli in serbo per futuri libri? Utilizzarli subito per un manuale pratico: «Come essere felici»? O, più scrupolosamente, andando più a fondo: capire cosa si cela dietro tutto ciò, dietro i giochi, lo scintillìo, il verde e oleoso maquillage del fogliame? Giacché c’è qualcosa in tutto questo, c’è qualcosa! E vorresti dire grazie, ma non c’è nessuno a cui dirlo. Totale delle offerte: 10.000 giorni – da un Donatore ignoto (p. 407)

Fëdor procede verso l’ingresso del Grunewald e osserva attentamente, con occhi nuovi, ciò che lo circonda. Quel che vede si tramuta in curiosità e riflessioni che ancora semicieche avanzano a tastoni verso la verità. Fëdor, una volta di fronte all’ingresso del parco, nota un grillo di bosco. La vista di questo minuscolo insetto innesca un pensiero che funge da emblema di ciò che lo aspetterà dentro la foresta:

Giacché nella natura non c’è nulla di più incantevolmente divino degli ingegnosi trucchi che saltano fuori nei luoghi più impensati: così un grillo di bosco [… ] ricadendo in terra dopo un salto, cambia immediatamente la posizione del corpo e si gira in modo che la direzione delle sue righine scure coincide con quella degli aghi di pino sparsi per terra (e addirittura con quella delle sue ombre!) ( p. 409-410)

Poi Fëdor entra nel parco e noi con lui (“Dammi la mano, caro lettore, ed entra con me nella foresta.” p. 410). Da questo punto in avanti, tutti i temi dei capitoli precedenti si ricombinano suscitando erotici riverberi azzurri.

Ora è necessario muoversi con estrema calma e attenzione, bisogna vedere se i dettagli che stanno alla periferia della gioia fisica e totale di Fëdor possano suggerire una interpretazione che torni, che funzioni. Per esempio: riflettere sul senso di alcune descrizioni che puntuali rintoccano (p. 412, 414, 427) e che hanno per oggetto il cielo e la parata di nubi che, di volta in volta, accecano momentaneamente il sole e divorano l’azzurro. Queste parti si mimetizzano molto bene tra la folla di parole che forma tutto il resto: la natura, il corpo di Fëdor e i suoi pensieri. Ma se le si legge con attenzione si scopre che i riferimenti alle nuvole passeggere hanno uno scopo, quello cioè di preannunciare il temporale che scoppierà qualche ora più tardi. Fëdor non sa e non immagina che nel corso della serata pioverà. Vive questa ricca giornata dentro e non al di sopra della natura. Fëdor è imbevuto dalla natura, estatico: “Così come si traduce un libro in un idioma esotico, io mi traducevo in sole.” (p.413). E noi lettori siamo toccati da questo turbine emotivo quanto lui. Ma la parata di nubi è inserita per preparare il mondo di Il dono a un temporale. E quindi non si tratta di semplice riempitivo. Le descrizioni delle nuvole dirigono il romanzo verso una situazione precisa.

Allo stesso modo, le descrizioni della natura e di Fëdor hanno certamente un risvolto stilistico, sono cioè un pezzo di bravura, ma tornano soprattutto utili, e in maniera per nulla manifesta, a condurre il lettore nel territorio della verità dell’autore. Il crescendo confusivo tra natura e sensazioni, giochi d’ombra e percezione semidivina, che questi giochi suscitano in Fëdor, sono sì un brano che ci mostra la natura attraverso occhi nuovi in cui il realismo si espande fino a sfiorare il fantastico, ma funzionano soprattutto come processo di avvicinamento del protagonista (che tiene per mano il lettore, importante tenere a mente questo punto) in una zona in cui la morte si dissolve.

Nabokov, in queste pagine, sembra apparentemente impegnato a denudare narcisisticamente il proprio genio letterario per mostrarlo al lettore, mentre il suo scopo principale è quello di manifestare in maniera ambigua, mai palese, la sua verità. E la sua verità (la morte non è ineluttabile), come febbre con delirio, contagia il lettore.

Abbiamo lasciato il romanzo nel punto in cui viene chiesta la mano al lettore. Le righe precedenti a questo invito contengono una citazione tratta da uno scritto di suo padre, Konstantin Godunov-Čerdyncev:

«Osservando da vicino quanto avviene nella natura bisogna evitare che durante il processo di osservazione, foss’anche il più attento, la nostra ragione, questo ciarliero dragomanno che ci vuole sempre precedere, suggerisca spiegazioni che impercettibilmente cominciano a influenzare il corso stesso dell’osservazione e a deformarlo: è così che sulla verità cade l’ombra dello strumento.» (p. 410)

Questo consiglio, che a me è sempre suonato più come un monito, posto idealmente di fronte all’ingresso del Grunewald, viene inserito esattamente prima del tenero invito al lettore di poche righe sopra. Che senso ha questa citazione? Secondo me è un consiglio  a lasciare fuori la ragione che delibera e arriva a conclusioni. Non è un chiaro avvertimento come potrebbe suonare per esempio qualcosa del tipo: ‘ciò che state per leggere non è serio, è un racconto in cui incontrerete draghi e fate’. Anzi, la citazione veste gli abiti della scienza ed è quindi, per sua stessa natura, razionale. E il narratore ed il suo eroe, una volta dentro il parco, registreranno tutto con tono scientifico.

Fëdor ora compie tre passi addentrandosi ogni volta più all’interno nella foresta. Da qui – ma basta spingersi un po’ all’interno e la foresta si afferma (p. 410) – in avanti, le epifanie sono inanellate tra loro, sempre più dense e ampie, ogni descrizione è di fatto un’epifania, un segno, una scia. La realtà tangibile viene perforata da continue manifestazioni numinose.

Il fragile perimetro della realtà è rappresentato dai nomi delle piante, delle foglie e degli insetti, ma dentro a questo spazio si anima e dibatte una visione fantastica. Meglio ancora: questi nomi così precisamente assegnati a ciò che circonda Fëdor giustificano tutto il resto, e cioè la palpabile sensazione che tutto sia pervaso da una netta ma invisibile presenza. E mentre il lettore partecipa al crescendo di questa festa descrittiva, sempre più coinvolto, Nabokov in tre mosse lo incanta. Durante la prima ondata di erotiche ed entusiastiche descrizioni leggiamo:

E quando rovesciavo la testa ancora più indietro, così che l’erba alle mie spalle (che da questa prospettiva rovesciata era di un verde indicibile, da primo giorno della creazione) diventava il tetto del mondo e sembrava crescere in giù, verso una luce vuota e trasparente, provavo qualcosa di simile alle impressioni di un uomo giunto in volo su un altro pianeta (con una gravità e una densità diversa dal nostro, con diverse forme sensoriali), – soprattutto quando accanto a me passava a testa in giù qualche famigliola a passeggio nella foresta e ogni loro passo diventava un curioso ed elastico balzo, e un pallone lanciato sembrava cadere – sempre più lento, più lento – in un abisso di vertiginosa profondità. (p.411-412)

E poi Fëdor, dopo essere caduto su un altro pianeta ricolmo di potenzialità, dopo, in definitiva, essere stato creato, comincia a esplorare. Le descrizioni si fanno sempre più fantastiche, mentre compie il secondo passo:

Ero felice come se tre verste dalla mia Agamennonstrasse [ … ] si trovasse un vergine e primigenio paradiso. Arrivato a un angolino prediletto che combinava magicamente il libero flusso del sole con il riparo offerto dagli arbusti, mi toglievo fino all’ultimo indumento e mi stendevo supino sul plaid appoggiando la nuca sull’inutile costume da bagno. Grazie a quell’abbronzatura integrale (solo i calcagni, i palmi delle mani e i piccoli raggi attorno agli occhi conservavano la loro tinta naturale) mi sentivo un atleta, un Tarzan, un Adamo, qualsiasi cosa tranne un nudo cittadino. (p.412 – 413)

Immediatamente prima di queste sensazioni che ho appena citato Fëdor fa una precisazione che è il caso di riportare:

Quando al mattino entravo in questo mondo boschivo di cui coi miei propri mezzi avevo per così dire sollevato l’immagine sopra il livello delle ingenue impressioni domenicali (folla, cartacce, pic-nic) dalle quali il berlinese crea la sua nozione di «Grunewald » (p. 412)

A questo punto il Grunewald è la rappresentazione del mondo intero, della realtà, del luogo, insomma, in cui noi viviamo. E il protagonista parlando di un parco ci dice che attraverso i suoi sforzi riesce a sciacquare via la tetra patina (tra l’altro è in arrivo un temporale estivo che tirerà a lucido le idee e il mondo di Fëdor) che ci fa vedere e definire la realtà e, spingendosi oltre, trova il paradiso. Un momento, però, ricapitoliamo: in mezzo a queste descrizioni vediamo che l’autore muove Fëdor in una casella: un pianeta sconosciuto, e poi in un’altra: Adamo nel paradiso. Il riferimento ad Adamo è addirittura camuffato, come smorzato: un atleta, un Tarzan; quest’ultimo, come paragone, suona quasi comico. Fëdor comincia a sentire che il ‘Fëdor invernale’ è come dissolto, scomparso, remoto: “come se l’avessi esiliato nella Jacuzia” (p. 413). La Jacuzia, il luogo in cui Černyševskij fu esiliato. Poi segue un’altra ondata di descrizioni, la più impetuosa, e quando per un istante Fëdor si placa, prende la parola il narratore:

E lì nel Grunewald era più difficile che mai credere [ it was most difficult of all to believe ] che nonostante la libertà, il verde, la lieta tenebra iniettata di sole, il padre era tuttavia morto (p. 415)

A questo punto diventa difficile anche per il lettore credere che il padre di Fëdor sia morto. Quest’ultima citazione è secondo me la mossa finale. Nabokov ci ha portato, a bordo della sua scrittura, nel territorio della sua verità da cui è difficile uscire. Dopo letture e riletture si è sempre ipnotizzati dal miracolo letterario che si assiste in queste pagine. E rimane sempre il dubbio che tutto questo discorso interpretativo sia troppo fragile, visto che Nabokov, maestro più di ogni altro nel depistaggio, non dichiara mai la sua verità che, come un insetto fiabesco, si mimetizza in tutto il resto.

Immersi tra piante e fiori di specie diverse e tutte conosciute (epilobi, sorbi, lappole, pini, querce, ecc.) leggiamo frasi come:

Si alzò, fece un passo, e subito la zampa leggera dell’ombra si posò sulla sua spalla sinistra – per scivolare via al passo successivo. (p. 414) o anche: Il sole mi leccava tutto, con la sua grossa, liscia lingua. (p. 413), oppure: Intanto le ombre facevano esercizi respiratori. (p. 428)

Un mondo in cui le ombre degli alberi fanno esercizi respiratori, in cui la liscia lingua del sole lecca il corpo di Fëdor e la zampa dell’ombra gli si appoggia sulla spalla è un mondo che annette, in forma di epifania, la visione di un’alterità viva e presente. Questo stile potrebbe essere immediatamente definito e liquidato come prosa imbevuta di poesia. Ma secondo me, in questo sottile crinale estetico, si mostra un modo di percepire il reale in maniera modernissima e assieme primitiva, quasi animistica. Ed è curioso che a questo punto del nostro discorso, in cui tutto ha vita, tutto è animato, in un momento in cui ci troviamo così distanti dalla morte, io senta venire dal buio corridoio, oltre la soglia della mia stanza, la voce di Freud:

Il «doppio» era, all’origine, un’assicurazione contro la distruzione dell’Io, «un’energica negazione del potere della morte», come dice Rank, e, probabilmente, l’anima «immortale» fu il primo «doppio» del corpo. Questa invenzione del raddoppiamento, quale preservazione contro l’estinzione, trova corrispondenza nel linguaggio dei sogni, che ama rappresentare la castrazione attraverso la duplicazione o moltiplicazione di un simbolo genitale. Il medesimo desiderio indusse gli antichi Egizi a sviluppare l’arte di fabbricare immagini dei morti con materiali durevoli. Però tali idee sono nate dal terreno di un illimitato egoismo, dal narcisismo primario che domina la mente del fanciullo e del primitivo. Ma quando questo stadio sia superato, il «doppio» inverte il suo aspetto. Da assicurazione contro la morte diventa il perturbante annunciatore di morte. (Il perturbante p. 1058, corsivo mio)

Occorre a questo punto tornare all’inizio del libro, che comincia con la pubblicazione di un volumetto di poesie scritte da Fëdor che hanno come tema centrale l’infanzia. La prima poesia s’intitola Il pallone perduto e l’ultima Il pallone ritrovato. Che questa palla sia il mondo che il protagonista ha perduto e che alla fine ritroverà nel paradiso del Grunewald? A me pare proprio di sì; quel che sta più a cuore a Fëdor è ritrovare un mondo in cui si festeggiano i compleanni e, soprattutto, un mondo in cui nessuno muore, come scrive lo stesso Nabokov nel suo libro di memorie Speak, Memory (traduco io):

Un senso di sicurezza, di benessere, di tepore estivo pervade la mia memoria; quella robusta realtà fa di questa un fantasma. Lo specchio è ricolmo di splendore; un calabrone entra nella stanza e sbatte nel soffitto. Tutto è come dovrebbe essere, niente cambierà mai, nessuno morirà mai.

Ma questo che dal Grunewald si espande e tracima fuori, nella Berlino degli anni trenta, e forse si allarga fino ad abbracciare il mondo intero, non è un mondo impolverato e carico di ricordi nostalgici, ma è un mondo vivo, nuovo di zecca.

Fëdor, dopo aver attraversato il lago a nuoto e aver immaginato un ultimo, mostruosamente appassionante dialogo con Končeev, torna a prendere i vestiti e le scarpe e la sua coperta (quest’ultima portata con sé dalla Russia) ma si accorge che gli hanno rubato tutto, anche i soldi che gli servivano per pagare parte dell’affitto. Con indosso il solo costume da bagno esce dal parco ed entra in città. Comincia a camminare per strada. Fëdor ora è uomo carico, riempito fino all’orlo del suo dono. L’abbagliante capolavoro dello scultore prende vita e viene subito ‘notato’ da un cieco che gli chiede l’obolo e Fëdor pensa: “eppure è strano – avrebbe dovuto sentire che sono scalzo” (p. 428). Questa notazione si lega alla descrizione delle prime gocce di pioggia che cominciano a cadere: “Caddero gocce di pioggia, ed era come se qualcuno gli applicasse sul corpo monete d’argento” (p. 429). Fëdor è stato appena derubato di tutto eppure il cieco gli chiede soldi, come se sentisse l’immensa ricchezza di nababbo che il giovane sta portando a spasso. E cinque righe più avanti, infatti, la similitudine scelta dall’autore ha per oggetto monete d’argento, un fiume di liquida ricchezza che piove dal cielo. Immediatamente dopo viene fermato da due guardie (un dialogo esilarante) le quali gli dicono che è vietato girare nudi per la città. Altro fatto indicativo, ormai tra le pagine del romanzo sta girando una creatura definibile con questa brutta parola: eversiva, pericolosa; l’impressione che si riscuote è di inarrestabile e sfrenato avvento. Fëdor riesce a tornare al suo appartamento.

L’idea del romanzo è ancora violenta e priva d’ordine come la pioggia che investe Berlino. Fëdor scrive una lettera a sua madre nella quale le illustra in maniera vaga il progetto di un romanzo e, in maniera fugace, scherzosa, le scrive: “Ho sete d’immortalità – anche solo della sua ombra terrena!” (p. 435). Fëdor poi si distende nel letto, sta per addormentarsi, una telefonata lo sveglia e Zina entra in camera dicendo che Klara Stoboy (la padrona della stanza in cui Fëdor alloggiava all’inizio del romanzo) ha chiamato dicendo che Fëdor deve recarsi immediatamente nel suo vecchio alloggio. Poco prima Fëdor aveva scritto nella lettera a sua madre: “Sono fuori di me dalla gioia: fuori di me” (p. 433).

Questo essere fuori di sé, di fianco a sé come un fantasma, adesso prende corpo nel sogno strettamente saldato alla realtà (anche se però non ci viene detto che è un sogno: non ci sono cesure tra realtà e sogno). Arrivato nell’alloggio Fëdor viene fatto aspettare nella sua stanza, sente che sta per entrare qualcuno, e finalmente entra il padre che dice qualcosa d’incomprensibile, sottovoce. In queste poche righe, in cui Fëdor incontra il padre e parla di resurrezione, la parola realtà (p. 439 e: […] “era tornato [ il padre ], era sano e salvo, umano e reale” (p. 440) torna per due volte in poche righe. Lo sforzo di rovesciare il piano della vita e mostrare cosa si nasconde sotto e sentire l’impossibile come reale; l’aver posato un morbido e screziato mantello, colmo di pieghe sode, sul corpo della realtà è stata l’impresa di Nabokov. Fëdor, il mattino seguente, dopo essersi svegliato, avrà tutto chiaro, noi capiremo che l’incontro col padre era un sogno (come erano dei sogni i dialoghi con Končeev, come dei sogni erano la zampa dell’ombra che si posava sulla spalla di Fëdor e tutte le migliaia di mirabili parole tese a descrivere il fantomatico alone della realtà). La sera, poi, racconterà tutto a Zina. Ma poco prima sente che quella immensa felicità che prova per le conclusioni a cui è arrivato, la felicità che prova con Zina saranno il tema del romanzo, e alcune note di questo tema subito si manifestano sotto forma di epifanie:

Trovò finalmente il filo rosso, l’anima segreta, la brillante idea scacchistica del «romanzo» progettato ancora in modo vaghissimo, quello a cui il giorno prima aveva accennato di sfuggita nella lettera alla madre. E di quel romanzo cominciò a parlare, come se fosse l’unica, la più bella e naturale espressione della sua felicità che proprio lì accanto aveva la sua vulgata in cose come la consistenza di velluto dell’aria, tre foglie di tiglio color smeraldo finite nel raggio di luce del lampione, la birra ghiacciata, i vulcani lunari della purea di patate, l’eco indistinta di conversazioni, il suono dei passi, una stella tra rovine di nubi. (p. 450, corsivo mio)

Il romanzo finisce con Fëdor e Zina che sono rimasti fuori casa, hanno perduto le chiavi. Dove andranno Adamo ed Eva? Con tutta probabilità all’inizio del romanzo, eternati nel magico presente dell’epifania: «La teoria a mio giudizio più seducente – che il tempo non esiste, e tutto è una sorta di presente, una luce radiosa che sfugge ai nostri occhi ciechi » (p. 424. Parole, queste, pronunciate da Fëdor durante una conversazione con Končeev). Anche se non conosciamo la sorte di Fëdor e Zina, sappiamo però che Nabokov, dopo aver scritto Il dono, è arrivato in America. Una volta là ha dato vita a un paradiso linguistico; e la sua presenza, la presenza dei suoi romanzi (da La vera vita di Sebastian Knight fino ad Ada o ardore, passando per Fuoco Pallido) ha irrimediabilmente cambiato la letteratura di quel paese.

Qualche anno dopo, postilla.

A questo articolo ho deciso di aggiungere una nota, non brevissima.
Quando La montagna russa fu pubblicato dalla rivista ≪Nuovi argomenti≫ decisi di non inserire una informazione riguardante la biografia di Vladimir Nabokov che avrebbe messo al riparo la mia interpretazione da qualsiasi ambiguità o incertezza. Pensai, e lo penso tuttora, che la mia lettura de Il dono sia solida e quindi inserire quel fatto mi pareva, all’epoca, superfluo e inelegante.

Oggi, passati ormai molti anni, ho cambiato idea. O meglio: una volta pubblicato mi è capitato di riflettere più di una volta se avessi fatto bene o male a tacere una vicenda biografica di Nabokov delicata ma centrale che avrebbe lasciato via libera al perturbante di emergere, incontrastato, dalle pagine del romanzo.

Il primo aprile è il giorno in cui comincia il romanzo. Il compleanno di Gogol’ – un omaggio di Nabokov a Le Anime morte – e visto che questo è il Last Waltz del mondo delle lettere russe, avevo deciso di inserirlo come easter egg per chi vede Nabokov come il mago di scacchi, indovinelli e sottili rimandi. Per me però Nabokov è e sempre sarà un selvaggio aristocratico che cammina, nudo, di fianco alla follia.

Il fatto importante, da me taciuto, che accadde il primo aprile del 1922 è questo: in quel giorno fu seppellito il padre di Vladimir Nabokov, lo statista Dmitri Nabokov, ucciso il 28 marzo a Berlino. Un attivista di estrema destra gli spara due volte e Dmitri Nabokov muore, come muore John Shade. (Parentesi lunga ma interessante: le versioni sull’assassinio del padre sono diverse, senza però si sia arrivati a conoscere quale sia quella giusta, tanto che la morte di Dmitri Nabokov sembra un mini omicidio Kennedy; ho letto che la vittima designata dell’attentatore non fosse lui, ma il suo mentore e maestro Pavel Milijukov, che in quel momento gli si trovava di fianco e Dmitri lo per salvarlo si è sacrificato facendo scudo col proprio corpo; ho letto che  il bersaglio fosse proprio Dmitri: un fascista che uccide un liberale, un attentato andato a “buon fine”; ho però anche letto, e qualcosa mi dice che le cose siano andate così, che l’attentatore abbia sparato al padre di Nabokov convinto però di uccidere un’altra persona, che insomma l’attentatore abbia combinato un pasticcio: ha ucciso X convinto di uccidere Y; ecco, se le cose fossero andate così, sarebbe il pesce d’aprile più tremendo di cui abbia avuto notizia).

Leggere le ultime pagine, soprattutto la parte del Grunewald, sapendo di quel macabro pesce d’aprile, il perturbante irrompe, come tenebra in piena, e si rovescia sulle pagine. Davvero, leggere Il dono con questa informazione appollaiata in un angolo della mente, cambia le cose. Si sente cioè la morte, ma più che la morte, si sente appunto quanto intriso di buio sia questo romanzo (peccato non poter scrivere in inglese questa frase, il suono è stupendo, due scudi — le due d — che si toccano appena, ma con forza e producono un bagliore sordo: drenched in darkness).

Per quanto spericolato sia, non riesco a non fare un accostamento tra Il dono e I miei luoghi oscuri. Vladimir Nabokov e James Ellroy.

Fëdor e il James Ellroy personaggio dei I miei luoghi oscuri.  Due uomini segnati, specie i loro libri, da due morti violente: uno del padre e l’altro 一 Ellroy 一 della madre. Percorrendo il brano del Grunewald, Fëdor incandescente di felicità, selvaggio, nudo e colmo di luce, esplora la vita. Ma più quella felicità spalanca le fauci, più si vede quanto buio sia in fondo alla gola. E la leggerezza di Fëdor, quella rinascita, somiglia alla follia di un uomo travolto dal dolore, come tra l’altro succede a tanti matti che popolano i suoi romanzi, da Lužin a Charles Kinbote, a Hermann Karlovich. Tutti uomini che in seguito a un dolore impossibile da attraversare hanno deciso di “voltare pagina con la mano sinistra”, come dice John Shade in una pagina di Fuoco pallido. La follia di Nabokov. Così come James Ellroy che di notte, come un Fëdor notturno, vaga per i parchi di Los Angeles, colmo di buio e rancida hornyness, scavalca staccionate, di nascosto guarda ragazze spogliarsi alla finestra e una volta ruba un pallone da football dal giardino di una casa, poi lo squarta come un pugnale per vedere com’è fatto dentro (gulp!, dio mio belle quelle pagine), anche lui sulle tracce del suo dolore. Spiragli di luce accerchiata dall’ombra, sulla strada di perché destinati a rimanere tali, una brezza di vita, di salvezza attraversa le sue passeggiate che grondano solitudine.

James Ellroy, proprio perché è l’esatto contrario di Fëdor, me lo ricorda tanto, è solo che il primo ha scritto un memoir dove c’è solo buio (buio è qui sinonimo di morte) e pochissima luce, mentre l’altro ha scritto un romanzo in cui c’è solo luce, ma il buio, il buio osserva sempre, dai margini della strada e del parco.

Grazie a Barbara Setti

Filippo Belacchi lavora tra Fano e Firenze. Ha pubblicato nel 2011 la raccolta Cinque racconti e una resa dei conti (Pequod Italic 2011) e nel 2015 il racconto Desolation Row. Insegna Letteratura Comparata alla Gonzaga University a Firenze. Ha scritto saggi su Vladimir Nabokov, Don DeLillo e Martin Amis.

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