Abbiamo visto La polvere del tempo diretto da Theo Angelopoulos.
Raccontare circa cinquanta’anni di storia è complicato (dalla morte di Giuseppe Stalin all’impeachment di Richard Nixon, dalla guerra del Vietnam alla caduta del muro di Berlino, fino al capodanno della fine del Novecento), se a questo si aggiunge una storia d’amore a tre, due uomini e una donna lungo tutta la loro vita, e a questo si sovrappongono gli ideali infranti del comunismo e a tutto questo anche qualcosa di autobiografico del regista, allora diventa tutto complesso e forse anche irrisolto. Nonostante il regista si chiami Angelopoulos (tra i maestri e pietre miliari del Cinema del Novecento Occidentale) e il suo sceneggiatore sia il nostro caro poeta romagnolo Tonino Guerra (uno dei più importanti scrittori di Cinema degli ultimi cinquant’anni). Un film che spazia temporalmente dal 1953 (morte di Stalin) al 1999 (fine di un secolo e dell’ideologia comunista) con innesti nel 1956 (Ventesimo Congresso ma anche separazione del bimbo A di tre anni dalla madre Eleni – simbolo della rivolta d’Ungheria?), al 1974 (quando la donna e il suo innamorato Jacob lasciano l’Unione Sovietica e vanno prima in Austria, poi in Italia e quindi negli Stati Uniti dove lei potrà cercare suo figlio A, e l’amato Spyros), al 1989 (con la caduta del muro di Berlino). Il tutto tra Roma, Kiev, la Siberia, Colonia, Berlino, New York e il confine con il Canada.

Questo film diretto quasi quattro anni fa (durante le riprese Harvey Keitel è stato sostituito da Bruno Ganz e la nostra Golino dalla kieslowskiana Irene Jacob) è la seconda parte della trilogia sul tempo e la memoria, dopo La sorgente del fiume (2004). Una specie di recerche proustiana del tempo perduto e in questo caso non ritrovato, ma ancora più precisamente è raccontata come un sogno e quindi come i sogni a volte evanescenti, privi di razionalità e contraddittori (luoghi, età dei personaggi, passaggi temporali), e le vicende dei protagonisti non sembrano essere al centro della storia, ma anche tutto il resto pur presente non sembra la parte principale. In questo film – per la prima volta – non ci sono stilisticamente gli amati piani sequenza di Theo che rappresentano dei momenti in tempo reale, anzi c’è un nuovo modo di girare, più frammentario, nervoso.

Il film inizia a Roma, nel 1999, A (Angeloupulos? – l’attore Willem Dafoe) un famoso regista ha ripreso a girare a Cinecittà un film precedentemente abbandonato per ragioni sconosciute. Un uomo che ha dato la sua vita all’arte del Cinema (“La mia unica casa sono le mie storie”) si ritrova solo, abbandonato dalla moglie e con l’unica figlia adolescente che vive con lui a Berlino, ma è infelice, sola e pensa già al suicidio. Mentre è negli studios ad ascoltare una musica per il suo film riceve una strana telefonata della figlia. Inquieto corre a Berlino. Nel 1953, nel giorno della morte di Giuseppe Stalin, in Unione Sovietica Eleni (Irène Jacob), che vive lì come tanti patrioti greci comunisti, ritrova il suo amato Spyros che è venuto clandestinamente e con documenti falsi per portarla con sé negli Stati Uniti; ma vengono scoperti, separati e arrestati. Il film si sviluppa su questi due parti più lunghe e consolidate (vent’anni di Siberia di Eleni e del suo innamorato Jacob – la ricerca di A di sua figlia a Berlino nel 1999) e passa rapidamente da un periodo all’altro, con Eleni negli Stati Uniti alla ricerca di Spyros e di suo figlio A che vive in Canada per non andare in guerra in Vietnam. Eleni ritornerà a vivere con Spyros dopo che lui la cercherà in un bar di Toronto. E la seconda parte del film, un lunghissimo finale frammentario e un po’ ridondante, fa incontrare per l’ultima volta Spyros e Eleni con Jacob in un andare e venire quasi fosse una danza immobile. Dove le vite dei tre si separano definitivamente un po’ per volontà e un po’ per affinità.

Come abbiamo scritto sopra Theo Angelopoulos è uno dei maestri del Cinema del Novecento (come non ricordare alcuni dei suoi film, come la trilogia greca I giorni del ’36 (1972), La recita (1975) e I cacciatori (1977) e poi il meraviglioso Lo sguardo di Ulisse e il capolavoro Il passo sospeso della cicogna con Mastroianni e la Moreau) ed anche in questo caso ha riempito il film di lampi autorali e da immagini potenti, ma onestamente è un film meno riuscito, troppo personale per tenere sempre a fuoco la storia, e può anche capitare che parlando dell’alto culturale e morale si possa cadere nel banale e nel ridondante. Per chi lo ama si può dire che delude le attese, e l’uso della teatralità (nel senso brechtiano) diventa un po’ finto e ingombrante. I temi della memoria, del tempo che passa, la constatazione della sconfitta, l’idea dell’esilio, del viaggio e del tempo perduto e forse ritrovato solo da Spyros che tiene per mano sua nipote sotto la porta del Brandeburgo innevata (copre la polvere o la cancella?) sono soltanto forma ed eleganza di realizzazione non risposte anche brevi. Questo film è come una montagna che partorisce un topolino.

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