Nella Germania degli anni Venti, all’indomani della pesante sconfitta subita nella prima Guerra Mondiale, negli anni della crisi politica ed economica, si è prodotta un’inedita ridefinizione delle prospettive critiche e degli approcci metodologici e cognitivi ai diversi campi del sapere.

Si è iniziato ad esempio a osservare la letteratura dalla prospettiva sociologica, la filosofia da quella economica, la sociologia dalla specola della psicoanalisi e la storia dell’arte da quella della fisiologia umana. 

Il progetto della scuola di Francoforte si definisce in questo clima culturale di profonde trasformazioni, soprattutto a partire dalla direzione di Max Horkheimer, ossia dal 1931.

Con la pubblicazione dal 1932 della Zeitschrift für Sozialforschung la Rivista per la ricerca sociale l’istituto divenne un luogo di ricerche interdisciplinari a cui parteciparono a vario titolo figure come Theodor W. Adorno (1903-1969), Walter Benjamin (1982-1940), Erich Fromm (1900-1980), Siegfried Kracauer,(1889-1966), Leo Löwenthal (1900-1993) e Herbert Marcuse (1898-1972).

Doppiozero presenterà alcune sequenze di questa ricerca, a partire dalla questione di quale sia il ruolo della filosofia e del pensiero critico in un mondo in cui le persone diventano cose e i rapporti umani sono segnati dalla mera strumentalità. Presenteremo una selezione di passaggi intorno al problema della progressiva disumanizzazione del mondo a cominciare dalla messa a fuoco della personalità autoritaria e della cura pedagogica per prevenire la distruzione delle minoranze e degli avversari politici

Lo scopo è di riportare all’attenzione un pensiero che riteniamo ci interpelli anche oggi e ci offra strumenti di analisi utili per capire la nostra contemporaneità. 

(Roberto Gilodi)

 

Nel maggio 1931 Theodor Adorno tenne una prolusione accademica alla Goethe Universität di Francoforte che fu pubblicata in seguito con il titolo “Die Aktualität der Philosophie” (L’attualità della filosofia)

Riportiamo l’inizio e alcuni passaggi della sua lezione:

 

“Chi sceglie oggi il lavoro filosofico come professione, deve rinunciare all’illusione che un tempo guidava i progetti filosofici: che sia possibile afferrare la totalità del reale con la forza del pensiero. Nessuna ragione che abbia la pretesa di giustificare la realtà potrebbe riconoscersi in una realtà il cui ordine e forma reprimono ogni pretesa

della ragione stessa; la realtà, come realtà intera, si presenta al conoscere unicamente in modo oppositivo, perciò la speranza di ottenere una realtà giusta e corretta offre solo frammenti e rovine.

La filosofia che oggi promette questa speranza ha il solo scopo di coprire la realtà

con un velo e di perpetrarne la condizione attuale. (…)

Per il pensiero filosofico la pienezza della realtà non è più accessibile e, per questo motivo, è preclusa all’origine ogni pretesa sulla totalità del reale. La testimonianza di ciò è offerta dalla storia della filosofia. La crisi dell’idealismo corrisponde a una crisi della pretesa filosofica di totalità. La tesi centrale di tutti i sistemi idealisti prevedeva che la ratio autonoma fosse in grado di sviluppare a partire da sé il concetto della realtà e, dunque, la realtà stessa. Questa tesi però si è dissolta. (…)

 

 

Non intendo stabilire se la mia teoria si basi o meno su una determinata concezione dell’uomo oppure dell’esserci, contesto piuttosto la necessità di ricorrere a questa concezione. Essa corrisponde a una richiesta idealista, quella di cominciamento assoluto, che può essere portata a compimento solamente dal pensiero puro presso se stesso, astrattamente; corrisponde a una richiesta cartesiana che intende ricondurre il pensiero alla forma dei suoi presupposti, dei suoi assiomi. Tuttavia una filosofia che non accetta più la propria autonomia, che non intende più fondare la realtà sulla ratio, ma che riconosce l’insufficienza della legislazione autonomo-razionale attraverso la formulazione di una questione che non deve più essere progettata né adeguatamente né razionalmente in quanto totalità – questa filosofia non ha più l’intenzione di portare a compimento il cammino verso i presupposti razionali, ma si dirige proprio laddove irrompe la realtà irriducibile. Se essa facesse ancora uso di presupposti astratti, potrebbe procedere solo formalmente e a prezzo di quella realtà nella quale si trovano i suoi veri compiti. L’irruzione dell’irriducibile avviene storicamente in modo concreto e, perciò, la storia impone che il movimento del pensiero verso i propri presupposti astratti si interrompa. La produttività del pensiero è in grado di realizzarsi dialetticamente solo nella concrezione storica.

(Th. Adorno, L’attualità della filosofia, MimesisMilano-Udine 2009.

 

Il pensiero, o più precisamente il criterio occidentale di razionalità, ha in sé qualcosa di dittatoriale, vale a dire ha la pretesa di assoggettare al suo dominio esplicativo ogni determinazione empirica, ogni frammento di mondo, ogni fenomeno, sia naturale che sociale, ogni agire umano.

Questa pretesa di dominio caratterizza il pensiero a partire dalla filosofia greca ed ha trovato la sua realizzazione più piena nella seconda fase del capitalismo, quello che si era ormai pienamente affermato nel secolo XX.

Sì è stabilita cioè una saldatura tra le pretese totalizzanti della filosofia sistematica, compresa quella hegeliana (“tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale” si legge nell’“Introduzione” alla Filosofia del diritto), e la logica del dominio totale immanente al sistema del capitale avanzato ossia del “capitalismo maturo”.

Si trattava, per Adorno, di portare allo scoperto la missione fondamentale della filosofia, quella missione che ancora 30 anni dopo, in un corso sulla “Terminologia filosofica”, tenuto all’Università di Francoforte, egli aveva definito in questo modo:

“la filosofia è sempre una sorta di processo razionale di revisione e correzione della razionalità.”

Nella lezione del 1931 sull’“attualità della filosofia” Adorno dava voce al senso della crisi che attraversava la filosofia e che era a sua volta connessa con lo stato di crisi generale che il mondo di Weimar esprimeva nelle diverse forme artistiche e culturali.

L’impatto percettivo e cognitivo della grande metropoli e le trasformazioni che da esso hanno avuto origine sono stati il movente fondamentale che ha dato avvio a quella radicale messa in questione della filosofia tradizionale a cominciare dai suoi esiti ultimi, quelli del neokantismo.

Da questo punto di vista sono particolarmente interessanti due libri che aprono e chiudono un intenso ciclo di riflessioni sulla seconda Modernità, destinati a segnare rispettivamente le esperienze culturali più significative degli anni della repubblica di Weimar e il suo tragico epilogo. Si tratta di Le Metropoli e la vita dello spirito di Georg Simmel (1900) e Eredità del nostro tempo di Ernst Bloch (1935).

 

Due libri molto diversi ma convergenti su una domanda fondamentale: quale fisionomia dare alle nuove forme di vita associata che si sono prodotte nei grandi agglomerati urbani d’Europa e nelle nuove forme di organizzazione del lavoro – operai e impiegati – e qual è il loro impatto cognitivo.

Possono reggere le forme tradizionali di pensiero di fronte a modi di vita che vedono la sparizione degli individui come soggetti con facoltà mentali autonome?

È possibile mettere il mondo in prospettiva per poterlo osservare dalla distanza – cosa questa che ha fatto sempre la ‘critica’– quando le esperienze sensoriali della metropoli, la densità abitativa, la verticalità degli edifici, le folle che si spostano in un movimento frenetico e continuo non consentono più quella “giusta distanza”?

Come far valere le ragioni cognitive della critica e la sussunzione degli oggetti del mondo sotto i concetti quando tutto si è reso mobile e le cose non sono più al loro posto? Come fanno le parole a dire le cose, come si chiedevano Kafka e Hofmannsthal?

 

Queste sono domande che risuonano in molti scritti degli anni di Weimar, si pensi a Siegfried Krakauer e al suo libro Gli impiegati oppure al libro di Walter Benjamin Strada a senso unico dove si legge:

“Stolti coloro che lamentano la decadenza della critica. Perché la sua ora è suonata da un pezzo. La critica è una questione di giusta distanza. È a suo agio in un mondo dove ciò che conta sono prospettive e visioni d’insieme e dove era ancora possibile prendere posizione. Oggi invece le cose aggrediscono con troppa scottante immediatezza il consorzio umano. L’«imparzialità», lo «sguardo spassionato» sono divenuti menzogna, se non candida professione di pura incompetenza. Lo sguardo oggi più teso alla sostanza, quello mercantile che va dritto al cuore delle cose, si chiama réclame.” (Benjamin 2006, 53-54).

Lo stesso scetticismo nei confronti delle modalità tradizionali in cui si è esercitata la razionalità discorsiva affiora in modi diversi in tutti i protagonisti della scuola di Francoforte: l’attualità della filosofia è legata a filo doppio alla critica di se stessa. I frammenti, le rovine e l’irriducibilità dell’esperienza storica concreta alle geometrie della ragione astratta rendono vana, al pari della vanitas delle allegorie barocche, la pretesa egemonica del pensiero che pretende di legiferare sul mondo.

 

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