Dice Giuseppe Conte che la lingua del governo sarà “mite”. Lo dice intervenendo in una camera il cui tono si fa a tratti rabbioso al limite della gazzarra, e alla quale offre – per ottenere la fiducia – un discorso che si proclama come progetto politico. Accanto a lui, proprio lì dove sedeva Matteo Salvini, sta la neoministra dell’interno Luciana Lamorgese. Insomma, la discontinuità con il passato comincia dal linguaggio e dai simboli. Tuttavia, mentre il governo prova a costruirsi giorno dopo giorno, Salvini è ancora lì. Ora appare decisamente ammaccato, la sua propaganda si è fatta bolsa e lui si è perfino dovuto mettere a rimorchio di Giorgia Meloni. Ma è ancora lì. O meglio: il salvinismo è ancora lì, nonostante gli entusiasmi giallorossi, forse troppi. E maggior prudenza e realismo non guasterebbero.

Certo, Salvini ha perso, e ha perso malamente. La sua sconfitta, più ancora che nell’aver perso il potere, sta soprattutto nel modo con il quale ciò è successo. Sta, insomma, nell’aver dato egli stesso dimostrazione plateale della sua inadeguatezza. La definitiva emersione del bullo ha infranto l’incanto paternalista che ha sempre una presa fortissima su buona parte di questo paese. Ciò ha compromesso l’immagine di uomo forte che Salvini si era costruito e che era stata accreditata o, comunque, subita da molti, non solo a destra. Una volta incrinatasi l’integrità di quel feticcio, è difficile che si possa tornare indietro. Salvini oramai per molti è lo spaccone di Milano Marittima, è il simulacro di ciò che fu. Tuttavia, il salvinismo è un’altra cosa e prescinde, almeno in parte, dalla esistenza sulla scena dello stesso Salvini.

La percentuale di italiani che è ancora attratta dalle idee sovraniste a quanto pare si è ridotta, ma per il momento non in modo significativo. Eppure, la gran parte dei ragionamenti delle ultime settimane sembra prescindere da questa circostanza. Ci si concentra sul nuovo governo, si fanno previsioni sulla durata che potrebbe avere in base all’umore e alle convenienze delle forze politiche che lo sostengono. E, però, ci si dimentica di ciò che sta attorno a quelle forze politiche e a quel governo. Ci si dimentica, insomma, del paese nel quale quel governo dovrà lavorare, il quale è lo stesso che faceva apertamente il tifo per Salvini: cova la stessa rabbia, nutre le stesse speranze, si alimenta degli stessi desideri.

Salvini aveva cominciato a risvegliare un mostro razzista, e forse protofascista. Adesso quel mostro va reso inoffensivo

Quando il potere di Silvio Berlusconi era saldo, così come quando entrò in crisi, si fece l’errore di ritenere che, rimuovendo dalla scena politica Berlusconi, si sarebbe riusciti a chiudere con quella sorta di stato di eccezione che lo stesso potere berlusconiano rappresentava secondo una parte del paese. Alla fine, Berlusconi è stato effettivamente rimosso dalla scena, ma non il berlusconismo. Non, insomma, quell’impasto di populismo e semplificazione della realtà che Berlusconi aveva così profondamente rappresentato e inoculato fin nell’anima, o forse nella pancia, di questo paese. Ciò succede perché si è sempre dimenticato – o si è preteso di non riconoscere – che la vittoria di Berlusconi fu prima di tutto una vittoria culturale e, solo in seguito, una vittoria politica. Entrato in crisi il potere politico berlusconiano, non si è potuto rimuovere anche il berlusconismo poiché in fin dei conti gran parte del paese era da almeno venticinque anni profondamente berlusconiano, a volte perfino senza la consapevolezza di esserlo, la destra come la sinistra. L’Italia intera era cresciuta con quell’orizzonte che seppe farsi sogno e, in un certo modo, Salvini di quel sogno non solo è figlio ma ha anche provato a essere innovatore.

Al populismo berlusconiano, Salvini ha aggiunto alcuni elementi, come un nazionalismo evidentemente strumentale, accentuandone il profilo demagogico e infine incattivendolo. Ne è uscito fuori un pensiero politico piuttosto velleitario e spostato tutto sul lato della propaganda ma sufficiente, in un paese arrabbiato e confuso, per attirare una cospicua dose di consenso, tanto da consentirgli di prendere il potere.

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