Venezia. Secondo giorno. Buone notizie. First Reformed, opera bresson-bergmaniana scritta e diretta da Paul Schrader come fosse una versione rivista e rovesciata di Taxi Driver, il capolavoro che scrisse per Martin Scorsese, è un grande film. Magari un concentrato di tutti i temi che Schrader ha trattato negli anni, di certo un’opera decisamente superiore e più personale di tutte quelle che ha diretto negli ultimi anni, da The Canyons a Cane mangia cane.

Si inizia con un prete, padre Ernst Toller, interpretato da un ispirato e sofferente Ethan Hawke, che decide di tenere un diario, come in Diario di un curato di campagna di Robrt Bresson da Georges Bernanos, ma il dolore spirituale e fisico che nel corso della storia mostrerà Toller, un dolore che sarà il suo ma anche quello di tutto il mondo in crisi,  ci porterà rapidamente anche dalle parte di Ordet di Carl Theodor Dreyer e di Luci d’inverno di Ingmar Bergman, col suo prete, Gunnar Bjornstrand, che implodeva rendendosi conto di non poter salvare l’umanità e di non potere comunicare a tutti i propri sentimenti.

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Padre Toller, che si è fatto prete per espiare la colpa di padre che ha mandato il figlio a morire nella guerra in Iraq, perdendo per sempre così anche sua moglie, è parroco di una vecchissima chiesa riformata (“first reformed”) che sta per essere ri-consacrata dopo 250 anni di attività. Una chiesa più frequentata da turisti che da parrocchiani. Ma proprio grazie a una parrocchiana incinta, Mary, Amanda Seyfried, che gli chiede di parlare col suo uomo, Michael, Philip Ettinger, attivista ambientalista violento e depresso, Toller troverà dei validi motivi per sentirsi nuovamente vivo. Parlerà con Michael, cercando di convincerlo a non far abortire Mary, e finirà per rendersi conto del significato della lotta ecologista del giovane, al punto di pensare di poter prendere il suo posto in una missione suicida ambientalista.

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Al tempo stesso, si innamorerà di Mary e dell’idea della sua maternità. Schrader e il suo padre Toller sembrano unirsi alla ricerca di una purezza di sentimenti e di moralità di messa in scena poco concedendo ai tempi corrotti di oggi e alle mode. Uno schermo quadrato da cinema classico, il diario scritto a mano per poter decifrare i sentimenti nelle incertezze di scrittura, nessun uso del digitale, una ideologia di lotta (armata) che porterà a scelte talebane, ma anche un tornato desiderio di sentimenti che nessun cilicio o dolore fisico riuscirà a placare.

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Padre Toller è malato di cancro allo stomaco che cura con l’alcol, mentre cura il suo malessere più profondo con la fede più nella lettura dei testi di Thomas Merton che nella Chiesa. Il suo superiore, interpretato dal divertente Cedric The Entertainer, lo spronerà a fare qualcosa nella vita reale e a curarsi, ma padre Toller ha già capito cosa deve fare.

Film contorto nella prima parte, che esplode poi in una geniale costruzione di cinema nella seconda, First Reformed, ci riporta intatto il cinema di un maestro che non ha mai smesso di studiare i classici, ma è anche un’opera capace di commuoverci profondamente per quello che riesce a trasmetterci sia come cinema sia come sentimenti. Accolto con sentiti applausi in sala alla fine della proiezione, si candida subito fra i favoriti della Mostra.

L’ordine delle cose di Andrea Segre

Aspettando i quattro film italiani in concorso (troppi) vediamo i tanti film italiani sparsi al Lido anche come proiezioni speciali come L’ordine delle cose di Andrea Segre. Come l’Alberto Sordi di Finché c’è guerra c’è speranza, che vende armi italiani in Africa, anche il dottor Ranieri di Paolo Pierobon, che tratta per conto del nostro governo con corrotti libici in quel di Tripoli il flusso dei migranti, cercando di intercettarli prima che sbarchino e di rimandarli nei cosiddetti campi di accoglienza che sembrano invece dei campi di prigionia, sa perfettamente come va il mondo.

Sa che per mantenere appunto L’ordine delle cose, come da titolo, è meglio che la sua famiglia in quel di Padova nulla sappia né dei suoi tormenti umanitari né dei suoi traffici pieni di compromessi con criminali e corrotti compiuti per il bene del paese. Solo in questo modo potrà proseguire come se niente fosse nella comodità della vita quotidiana.

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Del resto gli ordini dei suoi superiori, sottosegretario e ministro, vanno nella direzione risaputa di vedere rapidamente dei risultati, cioè la diminuzione di sbarchi per doveri elettorali. Ci si mette di traverso, magari, la coscienza del protagonista, un perfetto, freddo e misurato Paolo Pierobon, che in qualche modo è anche un Alberto Sordi di oggi, soprattutto quando tocca con mano la sofferenza dei profughi in mano ai carcerieri libici che li vendono regolarmente agli scafisti, o la doppiezza della guardia costiera che dovrebbe bloccare i barconi.

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Il governo italiano, come quello francese, tratta con i piccoli ras libici per allontanare il problema piuttosto che risolverlo e mantenere l’ordine delle cose a casa nostra. Film estremamente attuale, benissimo interpretato da Paolo Pierobon, Giuseppe Battiston e Fabrizio Ferracane, L’ordine delle cose prosegue il discorso iniziato da Andrea Segre con Io sono Li, che venne presentato proprio a Venezia, su serissime problematiche di immigrazione e responsabilità individuali. Stavolta si sposta dal Veneto in Libia e prende di petto il cuore del problema degli sbarchi e dei rapporti fra Italia e Libia. Fatelo vedere subito a Minniti.

Thr shape of water di Guillermo Del Toro

Venezia. Babaloo! Magari avremmo preferito come film d’apertura questo fantastico ritorno di Guillermo Del Toro all’horror romantico, The Shape of Water, ‎salutato dai critici stamane con grandi applausi, rispetto al piu’ inerte, anche se piu’ originale, Downsizing di Alexander Payne, piaciuto piu’ ai critici americani che a quelli italiani, ormai impegnati ogni giorno nell’esaltazione della mostra e del presidente Baratta.

Mostra che in realta’ non e’ cominciata affatto male, caldo a parte. Così, dopo aver soddisfatto gli appetiti cinefili con il grande film di Paul Schrader e cio’ che resta di William Friedkin, il concorso ci regala stamane questo notevolissimo The Shape of Water, sorta di remake in salsa Del Toro della storia d’amore tra la bella e il Mostro della Palude, glorioso horror in 3D della Universal. Tutto si svolge durante gli anni della Guerra Fredda.

Elisa, una strepitosa Sally Hawkins, dimessa e bruttina, ma soprattutto muta, vive in un appartamentino dopra al cinema Orpheum, dove si proiettano assieme peplum, The Story of Ruth, e horror, Mardi Gras. Accanto a lei abita un cartellonista sfigato, Richard Jenkins, fissato per i film del passato e innamorato di un giovane barista. Elisa lavora come donna delle pulizie, in coppia con una debordante Octavia Spencer, in un misterioso laboratorio dell’aeronautica, dove si sta studiando un essere misterioso catturato in Sudamerica.

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La Cosa, cioe’ l’uomo pesce interpretato da Doug Jones, e’ sorvegliato da un cattivissimo poliziotto razzista, Michael Shannon, e studiato dal dottor Hoffmeister, Michael Stuhlbarg, che e’ in realta’ un doppiogiochista russo, diviso tra l’amore per la scienza e il partito.

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Tra Elisa e l’uomo pesce nasce subito l’amore, contrastato ovviamente dalla guerra tra americani e russi che, non capendolo, a un certo punto vorranno entrambi eliminare il diverso. Come nei suoi due grandi horror spagnoli, Il labirinto del Fauno e La spina del diavolo, anche qui Del Toro costruisce un horror politico legato a un preciso momento storico, la conquista dello spazio, le lotte per i diritti civili in Alabama.

E trova la via d’uscita all’odio razziale nell’amore romantico e nella fascinazione del mostruoso. Pieno di riferimenti cinematografici e musicali, il film e’ una delizia per gli spettatori piu’ cinefili, ma e’ anche una grande favola romantica. Sally Hawkins e Michael Shannon sono magnifici, ma rubano spesso la scena a tutti gli attori secondari, Octavia Spencer e Richard Jenkins, ai quali spetta il compito di smorzare comicamente il dramma della storia. Imperdibile.

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