Questa è una cosa che molti scrittori e cantanti sanno già: se vuoi scrivere una grande storia d’amore o una canzone che faccia innamorare chi la ascolta devi avere la fidanzata giusta. Quando nell’estate del 1918, Francis Scott Fitzgerald, all’epoca militare di stanza in Alabama, incontrò la diciottenne Zelda Sayre, decise subito che era lei la fidanzata giusta. Bionda, di una bellezza non convenzionale, appassionata di alcol, baci e ragazzi carini, impeccabile e imprevedibile nell’arte della conversazione, Scott se ne innamorò per una di o per tutte queste ragioni, e perseverò nel corteggiamento. Si baciarono, si frequentarono, si baciarono ancora, continuarono a frequentarsi, e avanti così per una manciata di mesi. Poi lui si propose (come marito), lei disse di no, e arreso alla battaglia ma non alla guerra Scott se ne tornò nel suo nativo Minnesota, a Saint Paul. Quello che fecero dopo, oltre che le loro vite, avrebbe cambiato la storia della letteratura. Lo scrisse lo stesso Scott in una lettera del 1919 in cui raccontava di Zelda a un’amica: “I love her, and it’s the beginning of everything”. La amo ed è l’inizio di tutto.

Prima ancora di incontrare Zelda, Francis Scott Fitzgerald sognava di fare lo scrittore. Aveva frequentato l’università di Princeton, che nel 1917 aveva mollato per arruolarsi nell’esercito. Preoccupato di morire in guerra senza avere realizzato il suo sogno, aveva scritto il suo primo romanzo, lo aveva chiamato The Romantic Egotist (‘L’egoista romantico’), lo aveva mandato all’editore Charles Scribner, che lo aveva bellamente rifiutato. Tornato dalla guerra e respinto da Zelda, Scott rimette mano al romanzo, aggiunge un personaggio che somiglia a Zelda, cambia il titolo in This Side of Paradise (Di qua dal Paradiso, la frase è presa in prestito al poeta inglese Rupert Brooke e alla sua poesia Tiare Tahiti), lo manda nuovamente alla casa editrice Scribner, indirizzandolo questa volta all’editor Maxwell Perkins, che convince Charles Scribner a pubblicarlo. Il libro uscirà nel marzo del 1920, con una prima tiratura di 3mila copie, che andranno esaurite nel giro di tre giorni. Ma prima ancora che il libro diventi un best seller e Scott il suo acclamato autore, quest’ultimo fa il suo secondo tentativo con l’amata Zelda, aggiungendo stavolta alla proposta di matrimonio il capitolo del libro in cui Zelda è trasformata in eroina da romanzo. Lei dice di sì, diventando così Zelda Fitzgerald, nonché l’eroina di tutti i futuri romanzi e racconti del marito Scott.

Entrambi confermeranno questa versione dei fatti in un’intervista rilasciata nel 1923 e pubblicata il 7 ottobre di quello stesso anno dal «Baltimore Sun». Un pezzo uscito senza firma, in cui a essere intervistata è Zelda e non Scott. Ma durante l’intervista Scott continua a intromettersi nella conversazione, costringendo infine il (o la) giornalista a cedergli il posto, lasciando che sia lui a condurre l’intervista alla moglie Zelda. Zelda dice: “Quando ci hanno presentati, Scott era in un accampamento militare al sud e c’era la guerra, e aveva iniziato a scrivere Di qua dal Paradiso. Diceva che stava lavorando a un episodio del libro su una ragazza che si chiamava Eleanor che era una sciocchina come me. Ma intanto che ha finito di scrivere quell’episodio, ci siamo conosciuti meglio, e ha deciso che Eleanor non era affatto come me. Per cui ha aggiunto dei nuovi capitoli in cui c’era Rosalind”. Rosalind è Zelda. Dopo di lei ci sarebbero state Gloria (Belli e dannati), Daisy (Il grande Gatsby), Nicole (Tenera è la notte), Minna (l’assente e unica veramente amata negli Ultimi fuochi) e un esercito di altre eroine nelle decine di racconti scritti dal marito e ispirate (laddove non direttamente copiate) dalla moglie Zelda.

Ora: se tutti più o meno hanno sentito parlare di Zelda, non tutti sono in grado di andare al di là dell’informazione che era la moglie di F. Scott Fitzgerald. Aveva i capelli lunghi o corti? Era grassa o magra? Era carina oppure no? Di mestiere cos’è che faceva? L’ignoranza su Zelda ha regnato incontrastata per quasi un secolo, se escludiamo i limitati tentativi vagamente femministi di riscattarne l’immagine (di donna intelligente, di talento e via dicendo) a scapito di Scott, accusato di plagio e di avere impedito una promettente carriera da ballerina e/o pittrice e/o scrittrice alla moglie, rinchiusa dal marito in una pesante infilata di cliniche psichiatriche. Oppure, ribaltando i ruoli nelle dinamiche di coppia, e volendo prendere in parola quanto scrive Ernest Hemingway in Festa mobile: lui era la vittima, e lei la matta, che con i suoi eccessi, deliri e dispendiosi ricoveri in cliniche di lusso gli aveva reso la vita impossibile. Ma queste erano e restano soltanto voci. I fatti sono che entrambi stavano male (lei schizofrenica, lui alcolizzato), in tempi in cui nessuna delle rispettive malattie veniva considerata tale. E se non si fossero conosciuti e a modo loro aiutati, avrebbero avuto vite ben più infelici di così.

Mai troppo turbati da voci e maldicenze, tra gli anni Venti e i Trenta Scott e Zelda apparivano splendenti nei lussuosi alberghi di New York o sulle spiagge assolate della Costa Azzurra, e con la stessa facilità con cui ci si innamorava del celebre scrittore Scott, ci si innamorava anche della sua imprevedibile moglie Zelda. Tutti li amavano, anche se nessuno riusciva a capire il senso di una coppia che passava il tempo ad azzuffarsi e a flirtare con altra gente, cambiando casa di continuo senza mai possederne una, spostandosi da un continente all’altro guidati dal valore del dollaro (se saliva se ne stavano in America, se di colpo crollava li trovavi con le valigie in mano pronti a partire per l’Europa), così simbiotici da finire per scrivere lo stesso romanzo: nella sua versione iniziale, il romanzo di Zelda Lasciami l’ultimo valzer somigliava così tanto a Tenera è la notte che dopo una zuffa coniugale venne completamente rieditato da Zelda e Scott insieme. Dopo che il marito Scott si cimentò insieme a Zelda nell’editing del romanzo, alcuni malevoli dissero che glielo aveva riscritto, alludendo alla possibilità (peraltro indimostrabile: non è rimasta traccia del manoscritto iniziale) che prima fosse brutto e poi diventò bello. Altri, anche loro malevoli, dissero invece che le aveva tarpato le ali, alludendo questa volta ai refusi (che a quanto pare abbondavano nella prima edizione) e al fatto che da bello il libro fosse diventato brutto.

Scritto in meno di due mesi durante il suo ricovero alla Phipps Clinic di Baltimora, pubblicato sempre da Scribner nel 1932 e bello quanto le opere del marito Scott, Lasciami l’ultimo valzer rimase comunque il primo e unico romanzo pubblicato da Zelda. Ma già prima di quello, aveva scritto una serie di eccellenti articoli e racconti, a volte pubblicati a nome suo, altre volte a nome suo e del marito, altre volte ancora usciti solo a firma F. Scott Fitzgerald. Che fosse una richiesta avanzata da editori e direttori di giornali o una scelta dettata dal desiderio di fare qualche soldo in più affiancando il nome di Scott a quello di Zelda, le ragioni per cui Scott firmasse o co-firmasse gli scritti di Zelda restano a oggi discusse e discutibili. Ma nulla tolgono alla potenza della scrittura di Zelda, in particolare nelle sue cronache con cui con disinvoltura affrontava qualsiasi argomento: dal romanzo del marito Belli e dannati, promosso con una eccentricità ed eleganza che nemmeno la più affascinante e brillante delle eroine inventate da quest’ultimo sarebbe riuscita ad avere, alle brevi e intense note sugli alberghi di mezzo mondo dove avevano alloggiato per una notte o alcune settimane di fila.

Una delle cose che colpisce negli scritti di Zelda è un’attenzione quasi religiosa ai colori. I gerani non sono semplicemente gerani ma sono rossi, le viole ogni tanto sono gialle, le nuvole sono sempre color malva prima della pioggia. E ancora: il bianco dei campi di cotone, il blu della promessa di colline, la pelle che nasconde uno strato sotterraneo color albicocca. C’è un’attenzione così dichiarata, quasi sentimentale per i colori, che al lettore è permesso di visualizzare immediatamente e a tinte forte i fondali in cui i personaggi delle storie di Zelda si muovono. E in questa esattezza non c’è niente di impositivo, o che limiti e costringa in qualche modo la visione del lettore. C’è piuttosto il tentativo di avvicinarlo così tanto a se stessa (e alle sue eroine, sempre così simili a lei) da rendersi leggibile, comprensibile, anche capita. E poi ci sono le sue eroine, le sue alter-ego dai nomi veloci, Gay o Lou o Ella, che sgambettano ballerine di varietà o reginette di bellezza in qualche grande magazzino di provincia, non sono aspiranti né illuse (di diventare qualsiasi cosa), sono solo ragazze. Sfrontate e senza avere mai niente da perdere, con un’alzata di spalle sarebbero capaci di mandare al diavolo chiunque e qualunque cosa. Senza ripensamenti, senza rimpianti. E hanno una risposta a tutto, che di vita o di filosofia si tratti.

zelda

Zelda nelle sue storie scriveva frasi veloci come i nomi delle sue eroine, dettate dall’esperienza e dal senso pratico, destinate al presente e mai pensate per chissà quale futuro. In Scandalabra, unica pièce teatrale scritta da Zelda nel 1932 (venne messa in scena con discreto successo al Vagabond Junior Players di Baltimora dal 26 giugno al 1° luglio del 1933), a uno dei protagonisti della storia (un maggiordomo) fa dire che l’unica differenza tra realtà e finzione è il fatto che uno ci creda o meno, spostando definitivamente in soggettiva (quella del lettore) la mai del tutto risolta diatriba sulla giusta distanza tra arte e vita che da secoli arrovella scrittori e critici. Nella stessa pièce, cercando di prendere una qualche posizione in merito ai tradimenti, lo stesso maggiordomo dice: “Puoi essere fedele solo a ciò che non conosci”. Alla voce narrante di un suo racconto (The Girl with Talent, pubblicato nell’aprile 1930 sulla rivista «College Humor» con la doppia firma F. Scott e Zelda Fitzgerald) fa dire: “La gente non cambia mai fino a quando non la vedi veramente diversa”.

Zelda era diversa dalla maggior parte delle donne (della sua e di ogni altra epoca), o delle persone in generale. Diceva e si comportava in modo eccentrico, non per farsi notare, ma perché era la cosa che le veniva più naturale fare. E questa sua unicità che da postuma l’avrebbe resa famosa e anche amata, in vita non può che averla fatta soffrire, zebra in mezzo a un branco di puledri, creatura che difficilmente trovava dei pari (il marito Scott era e sarebbe rimasto un’eccezione), destinata a giocare in solitario, malgrado adorasse la folla. In un articolo del 1922 (quando venne pubblicato, sulla rivista «Metropolitan Magazine», Zelda aveva appena ventun anni) dal titolo Elogio della flapper scriveva: “La gioventù non ha bisogno di amici: ha solo bisogno di pubblico, e più il pubblico era maschile, più il suo era numeroso”.

La flapper ovviamente era lei stessa, a cui dava la sua benedizione dichiarandone la prematura morte solo per prendere di stanza dalle schiere di fanciulle e donne che sedotte dalla sua celebrità, o dalla celebrità del marito, si affannavano inutilmente a imitarla. Ma Zelda non era una ragazza da mode. Lei le mode non le amava né le seguiva, piuttosto le reinventava e poi passava ad altro. Faceva e disfaceva, nell’arco di un giorno o di un fine settimana, rendendo impossibile per un’aspirante imitatrice di imitarla in tempo reale. Era impossibile vestirsi come Zelda, così come portare il taglio di capelli o la pettinatura di Zelda, o anche semplicemente essere nella stessa città di Zelda. Lei, e il marito Scott al suo seguito, sembrava avessero come attività preferita quella di cambiare di continuo: albergo, casa, servitù, mezzo di trasporto, città, continente. Così erano Zelda Fitzgerald e il suo ingombrante consorte Scott.

Furono i primi famosi del Novecento, e coerentemente con i tempi, i primi a esserlo mediaticamente, a finire sulle prime pagine dei giornali (scandalistici e no), lui per i libri che scriveva, lei perché era Zelda e basta. “La flapperia è diventata un gioco; non è più una filosofia” scriveva ancora la giovane Zelda nel suo elogio di qualunque cosa volesse dire essere una flapper (c’è chi sostiene che la parola venga dal flap flap, il battito d’ali degli uccellini). Come un pupazzetto dei videogiochi, moriva e rinasceva di continuo, esorcizzando così l’orrenda possibilità di invecchiare (avrebbe dichiarato più avanti che la morte restava comunque l’opzione più elegante). La caratteristica principale della flapper (lo avrebbe scritto in un articolo apparso nell’ottobre del 1925 sulla rivista «McCall’s» dal titolo Che cosa ne è stato delle flapper?) era la vitalità. Ovvero: non inventare nulla, ma prendere le vecchie idee per dare loro una vitalità che era andata perduta. Il tutto, ovviamente (anche volutamente), avvolgeva l’idea di flapper e la persona Zelda di un’aura di vaghezza fascinosa tanto quanto inimitabile.

Ma in questa sua elusività, in questa determinazione nello schivare a ogni costo etichette e doppioni, c’è anche una delle ragioni per cui da viva e da morta avrebbe goduto di questa celebrità quasi opaca, oscurata, a tratti incerta, contenuta e riconoscibile esclusivamente nel nome Zelda e, come dicevamo prima, nell’essere stata moglie dello scrittore F. Scott Fitzgerald.

Della problematica celebrità di Zelda ne ha scritto brillantemente il poeta Attilio Bertolucci in un articolo dal titolo Tempestoso pasticcio l’amore di Zelda e Scott apparso sul «Giornale» il 28 ottobre del 1970 anticipando l’uscita in Italia (per Bompiani, nel novembre 1971) della biografia di Nancy Milford Zelda. Una biografia esemplare. L’articolo – breve ma esatto nel ritrarre la nostra eroina – iniziava così: “L’avevamo conosciuta, sotto il nome di Nicole Diver, in Tenera è la notte, il romanzo del marito; l’abbiamo incontrata una seconda volta, nel suo unico libro, Lasciami l’ultimo valzer, uscito anche in Italia, con lo pseudonimo insolentemente autobiografico, per lei nata nel profondo sud, di Alabama Beggs; ne abbiamo sentito parlare con perfidia dall’amico Hemingway in Festa mobile. E ogni volta che si rievocava lui, Francis Scott, e con lui i ‘favolosi anni Venti’, lei era presente sotto specie di ubriaca, pazzoide, svergognata moglie, rovina famiglie eccetera”. Ancora Bertolucci, appassionato e bello nella sua difesa definitiva di Zelda, scriveva: “Ora è venuto il tempo della sua rivincita, che salutiamo con gioia, perché a noi, dalle fotografie in circolazione, e dai fatti memorabili a lei attribuiti, era risultata enormemente simpatica e degna di comprensione, sembrandoci sospette la leggenda infernale di lei quanto la leggenda aurea di lui”. A fargli eco, nel rileggerne oggi gli scritti, è la stessa Zelda, in una lettera indirizzata a Scott della primavera del 1919 (quando ancora non erano sposati). Dice giovanissima, rivolgendosi all’allora spasimante: “E fra cento anni penso che mi piacerà sapere che dei giovani si chiedano se avevo gli occhi azzurri o marroni. Naturalmente, non sono né l’uno né l’altro”.

Quasi settant’anni dopo i Pet Shop Boys avrebbero scritto una canzone ispirandosi a una frase di Zelda. La frase era in Elogio della flapper e diceva: “She refused to be bored chiefly because she wasn’t boring”, ‘Rifiutava di annoiarsi soprattutto perché lei per prima non era noiosa’. Nella canzone dei Pet Shop Boys (in titolo e ritornello) la frase sarebbe diventata semplicemente “being boring”. Dopo la canzone dei Pet Shop Boys sarebbe risorta ancora, in film, serie tv, biografie e romanzi, alcuni con risultati migliori di altri. Ma ancora una volta: senza che nessuno sia mai riuscito a catturarla del tutto. E così, arriva inaspettato e bello, a raccontare com’era fatta Zelda, questo libro che tra un party e un ricovero, per noia o per diletto, la nostra eroina si è scritta da sé. A volere scrivere oggi una breve nota biografica dell’autrice, potremmo dire più o meno questo: “Nata nel 1900, a Montgomery in Alabama, e morta nel 1948, in un incendio scoppiato in un’ala dell’Highland Hospital di Asheville, nel North Carolina, Zelda Fitzgerald sembra continuare a manifestare uno spiccato talento nel sopravvivere a tutto”.

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