Abbiamo chiesto a Daniele Capuano, studioso di esoterismo islamico e induista, di porre ad Alberto Ventura alcune domande per esplorare gli aspetti più urgenti della sua riflessione.

Nel Suo libro Lei espone in modo asciutto e convincente la declinazione specificamente islamica di quel Verbo eterno che l’Occidente chiamava philosophia perennis e l’India ancora chiama sanātana dharma: la tradizione primordiale e permanente che regge come un filo per lo più invisibile i molteplici grani costituiti dalle culture religiose e profane della Storia. Quale approccio al Suo testo consiglierebbe ad un giovane che lo avesse appena scoperto con sincero interesse?

Non è in effetti facile scorgere e seguire quel “filo invisibile”, ma forse un giovane, non ancora troppo condizionato dalle deformazioni della cultura moderna, può riuscire a intravedere senza pregiudizi la fondamentale unità che si nasconde dietro i pensieri d’Oriente e d’Occidente. L’importante è sbarazzarsi di un malinteso storicismo, costantemente alla ricerca di contatti documentabili fra le diverse tradizioni spirituali, e che dunque considera improbabili o del tutto impossibili le analogie fra dottrine così lontane nel tempo, nello spazio e nelle modalità espressive. Ma qui si tratta di collegamenti per così dire “verticali”, che non necessariamente dipendono da un contatto materiale e storicamente accertabile: la philosophia perennis è tale proprio perché perenne, eterna, e quindi non soggetta nel suo nucleo essenziale alle vicissitudini della storia.

In un celebre hadīth qudsī, ovvero un detto della tradizione islamica in cui Dio parla in prima persona, leggiamo: “Ero un tesoro nascosto e ho amato essere conosciuto: per questo ho creato la creazione – per essere conosciuto”. Vi troviamo, congiunti come in un anello, i tre momenti o temi del nascondimento, dell’amore e della conoscenza. Potrebbe dirci brevemente in che modo i maestri del sufismo hanno tradotto in esperienza e insegnamento questa rivelazione essenziale?

Secondo gli insegnamenti del Sufismo, che del resto non fanno che trarre le estreme conseguenze del messaggio coranico, Dio è inarrivabile nella sua trascendenza. «Nessuno sguardo Lo afferra», ci dice il Corano, eppure in questa sua solitudine assoluta egli prova amore per l’altro da sé e così dispiega la serie infinita dei suoi nomi, affinché tutto ciò che è racchiuso nella tenebra primordiale possa manifestarsi appieno nella luce dell’essere. È in questo modo che Dio conosce le cose, perché le ha tratte da se stesso per amarle e per amarsi: ecco il legame fra il nascondimento, l’amore e la conoscenza. Nonostante la differenza di linguaggio, non siamo lontani dalla visione che dello stesso processo ci fornisce la tradizione indù, per la quale il Principio supremo, dapprima occultato nel suo isolamento, si specchia in una sua controparte femminile, la ama e così produce la totalità dell’universo. Lo stesso discorso può essere applicato inversamente all’uomo, che nella sua condizione ordinaria ignora la natura più profonda e nascosta di se stesso; se però impara ad amare e conoscere questa sua natura, specchiandosi in essa, ecco che gli apriranno possibilità di espansione illimitate. Come recita un celebre detto del Profeta: «Chi conosce se stesso, quegli conosce il suo Signore».

L’esoterismo islamico è stato pubblicato da un editore, Roberto Calasso, che nel suo nuovo libro, L’innominabile attuale, sviluppa una sua vecchia intuizione: “Forse stiamo andando verso divisioni [antropologiche] più semplici: turisti e terroristi”. Mai come oggi la conoscenza dell’islam è stata, presso il pubblico anche mediamente colto dell’Occidente, appiattita su stereotipi dettati dalla paura e da un’agenda politica disorientata e dissennata. A volte persino chi legge regolarmente libri sul sufismo, o è almeno informato sulla sua esistenza, percepisce un abisso quasi invalicabile tra l’islam della vulgata giornalistica e non solo – religione rigida, legalista, tendenzialmente intollerante – e gli splendori e le sfumature degli autori spirituali. Cosa direbbe, se non altro a questa categoria di persone in buona fede e di buona volontà?

Direi di non fidarsi delle generalizzazioni deformanti, intenzionali o inconsapevoli che siano. Alla fine del mio libro ricordo che ancor oggi nel mondo islamico il sufismo è seguito e praticato, anche se in un contesto sempre più difficile, assediato com’è da una modernità frettolosamente imposta e male assimilata, che ha procurato effetti destabilizzanti sulle società musulmane. Nonostante le evidenti inquietudini di quel mondo – che l’informazione in Occidente tende a sottolineare in modo esclusivo – sarebbe un errore credere che l’Islam si risolva tutto in un formalismo puritano o addirittura in una violenza fanatica, perché la realtà è fortunatamente molto diversa da quello che uno stereotipo continua a proporci. L’Occidente vanta costantemente i propri valori e le proprie radici culturali, ma al di fuori degli degli studi di specialisti nessuno qui si occupa più di Platone o di Meister Eckhart; nell’Islam, invece, sono ancora numerosi i centri di insegnamento dove vengono lette e meditate le opere della grande tradizione sufi. A una mentalità moderna e secolarizzata ciò può apparire come un residuo di arretratezza, ma per molti musulmani è in questo che consiste la vera fedeltà al messaggio islamico.

Da qualche tempo esiste una confusa ma autentica ricerca di fonti spirituali perenni: una sete di insegnamenti tradizionali. Tuttavia ciò avviene proprio in un’epoca in cui le radici della tradizione sono state estirpate con successo quasi ovunque. Risulta particolarmente difficile fare una ricerca spirituale seria senza poggiare i piedi sul solido terreno di consuetudini quotidiane, mute certezze morali ed etiche, riti e pratiche condivise: è la grande e drammatica sfida della cosiddetta Modernità. Quali strumenti può offrire il Suo libro ad un occidentale d’oggi che si trovi in questa condizione? Quali consigli si sente di dare?

Il pensiero islamico, così come molte altre fonti orientali della stessa ispirazione, non può essere assunto meccanicamente per riempire il vuoto esistenziale che sta dilaniando l’Occidente. Bisogna piuttosto cercare di comprendere quelle fonti nel loro spirito essenziale, senza appropriarsene come un abito prêt-à-porter, e così si potranno recuperare quei princìpi che la modernità ha estirpato ma che l’Occidente nonostante tutto possiede. L’impresa non è certo facile, perché implica la necessità di fare piazza pulita di opinioni consolidate nel tempo, che ormai accompagnano e condizionano la maggior parte del pubblico sin dalla più tenera età. Ma questo, per chi ne avverte la necessità, mi sembra l’unico modo possibile di ripristinare un’esistenza che non conduca all’alienazione.

Il magistero di un grande esoterista moderno, René Guénon (ma pensiamo anche a T. Burckhardt, ad A. K. Coomaraswamy, a F. Schuon, a T. Izutsu, e al sommo riscopritore della gnosi persiana, H. Corbin), nutre e innerva esplicitamente le pagine del Suo libro. Più di altri autori, Guénon ha molto insistito sull’aspetto iniziatico ed elitario della conoscenza sacra, mettendo preventivamente in guardia contro facili sperimentalismi e riduzioni intellettualistiche. Cosa può dirci in proposito, partendo dalla Sua esperienza e dal Suo lavoro?

Io intendo il termine elitario in un’accezione positiva, in quanto ribadisce un’idea che dovrebbe essere ben nota qui in Occidente, e cioè che, se molti sono i chiamati, pochi saranno gli eletti. Non tutti sono in grado di affrontare e di portare a frutto un percorso impegnativo come quello della conoscenza sacra, ma ciò va accettato come l’ordine naturale delle cose. Pretendere il contrario non avrebbe alcun senso, perché non si può divulgare a tutti i costi ciò che per sua natura può essere compreso solo da un numero ristretto di persone. Del resto, nessuno si sognerebbe di imporre a tutti indistintamente la conoscenza della fisica o della filosofia, e allora perché mai dovremmo farlo con la metafisica e con la scienza sacra?

Dai tempi del Concilio Vaticano II si parla molto e ovunque di “dialogo interreligioso”, ma il più delle volte si ha l’amara impressione che si tratti di manifestazioni di vaga e inefficace benevolenza tra dotti e uomini di fede ai margini di manovre geopolitiche che se ne lasciano ben poco influenzare. Crede che impostare il dialogo tra le religioni sul loro comune denominatore metafisico e tradizionale sarebbe possibile oggi: e se sì, in che modo?

Ha perfettamente ragione riguardo ai fallimenti del dialogo interreligioso, un esercizio sterile che ha lasciato tutti nelle proprie convinzioni e che non ci ha fatto fare molta strada sulla via della comprensione reciproca. La metafisica, per sua natura, è in effetti l’unico terreno sul quale ci si possa realmente intendere, a patto che questo scambio non cancelli le necessarie differenze che esistono fra l’una e l’altra tradizione spirituale e non sfoci così in un universalismo privo di connotati. Il Corano, pur insistendo sull’unicità di fondo del messaggio che Dio ha inviato ai vari popoli, invita a considerare come un dono della misericordia divina le differenze che sussistono fra gli uomini, siano esse diversità di razza, di lingua o di religione. Il dialogo proficuo è solo quello fra identità fortemente caratterizzate, che non hanno paura dell’interlocutore e proprio per questo riescono a trovare un terreno d’intesa, senza cedimenti ma anche senza prevaricazioni.

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