Di certo, la bellezza – pur tuttavia opalescente, passeggera, ‘fotografica’ – ne acuì la leggenda. Nel 1938, presso l’Università di Montevideo, insieme a Gabriela Mistral e ad Alfonsina Storni, fu chiamata a dire la sua riguardo all’atto della creazione poetica. Intitolò il suo discorso Casi en pantuflas: disse che il poeta non aveva bisogno di ruoli né di aureole, di statue o piedistalli ma di solitudine; che la poesia si coglieva negli anfratti del quotidiano; che lei faceva versi così, in pantofole, reclusa, paladina del caso. La Mistral – che nel 1945 avrebbe ricevuto il Nobel per la letteratura – la riteneva un idolo, un monito; pubblicò il primo libro, Las lenguas de diamante, nel 1918: alcuni la accusarono di oscenità, di eccesso erotico, di simbolismo carnale. All’epoca, Juana Fernandez Morales si firmava Jeannette d’Ibar, mescolando lo sciroppo francese all’afrore esotico, arabo. Presto optò per lo pseudonimo che la rese una celebrità: Juana de Ibarbourou.

Inviò il primo libro, tra gli altri, a Gabriele d’Annunzio; Miguel de Unamuno elogiò quelle poesie nette, nude, selvatiche, di insidiosa nitidezza; nella casa di Montevideo ospitò due celebrità: Federico García Lorca e Juan Ramón Jiménez. “Anche la stanza più lontana della mia casa è per me un luogo inaccessibile. Sono dolcemente prigioniera, ed è inutile che tenti la fuga, il volo. Il mio destino è il mondo attraverso il vetro della finestra”, scrisse a un giornalista declinando l’invito a compiere un tour di letture che avrebbe toccato Madrid, Israele, la Colombia.

In Sudamerica, Juana de Ibarbourou diventò, nonostante lei, un mito; in Italia – rispetto alla Storni, alla Mistral – non la conosce nessuno. Nata a Melo, in Uruguay, da antica schiatta spagnola, idealizzò la propria infanzia, si trasferì a Montevideo a vent’anni, accasata a un alto militare, Lucas Ibarbourou. “L’infanzia fu il mio paradiso: non sono mai più tornata a Melo, perché è impossibile ripetere il paradiso, recuperarlo. Vive con me, mi conforta nelle ore buie… Lì la mia anima tornerà quando sarà il mio turno, e Dio concederà a questa eterna insonne il sonno più lungo, pacificato”, scrisse. Morì il 15 luglio del 1979, vecchia, incupita, tuttavia con gli onori che si riservano a un capo di Stato – e che a nessun altro artista saranno mai più riservati. Cinquant’anni prima, aveva ricevuto il titolo di “Juana de América”, durante una festa pubblica, inolvidable, come ricordò lei, nel Palacio Legislativo di Montevideo, dove ha sede il parlamento; la politica s’inchinò alla poesia e le fu donato un anello, che significava “il mio fidanzamento con l’America”. Seguirono infiniti riconoscimenti, che accolse con audacia e imbarazzo; dal 1959 fu costantemente nominata dal Nobel. Dipendeva dalla morfina; aveva bisogno della festa perché finisse, per rimpiangerla; il figlio, Julio César, era un giocatore compulsivo: per sanare i debiti contratti, la poetessa dovette vendere la villa di famiglia. Nel 1950 pubblicò un libro dal titolo esemplare, Perdida.

In una prosa raccolta in El cántaro fresco (1920), racconta di un giardiniere che cogliendo l’acqua dal pozzo, ruba la luna “rotonda, luminosa, in modo quasi matematico fissa sopra l’ostia nera dell’acqua”. “Nel pozzo la luna è scomparsa, non restano che fili di luce, una moltitudine. Il giardiniere ha sfilacciato la luna. Con calma, come un dio rozzo, incolpevole, torna lungo il sentiero con il secchio pieno di luna e di acqua, mentre in fondo al pozzo, l’oscurità torna a cagliare la moneta bianca”. In molti hanno tentato di rubare “Juana de América”; lei è rimasta così, inflessibile, morta e ricomposta, sfilacciata e ricostruita, come la luna nel pozzo.

*

Il pozzo

Muschio sul vecchio

marciapiede in rovina:

l’abbiamo eletto

per dire l’amore.

L’acqua ci guarda dal fondo

invidiosa, scavata, forse:

è muta e immobile.

“Non voglio che l’acqua ci veda

mentre mi abbracci. Forse si contorce

per la tortura. Chi può amarla?”

“Stupida: di notte la baciano gli astri”.

*

La promessa

Tutto l’oro del mondo

diluito nella luce arcana.

Sulle cime degli alberi

sanguina il crepuscolo.

Un amore imprevisto, la mia mano

unita alla tua, bruna, forte.

Eravamo Booz e Rut prima

dell’era perfetta che cinge la casa.

“Mi amerai?”, mormori. La promessa

vibra sulle labbra, lenta e grave.

Fu un Amen – in quell’istante

lo scatto della preghiera è scoccato

sulla campana dell’eremo.

*

La vita

Amato: se muoio, non portarmi al cimitero

scava una tomba per terra, vicino al fiume

clamore di voliere distrutte

accanto all’orazione dell’acqua.

A terra, amato, dove il sole

scalda le ossa e gli occhi

mentre guardo la lampada

selvaggia del tramonto rosso.

A terra, amato. Lascia che il transito

sia il più corto. Prevedo

la lotta della carne che risale

per sfasciarsi negli atomi del vento.

Che le mie mani siano inquiete

come talpe che scavano

tra le ombre del passato.

Seminami. E lancia dei semi

voglio che le radici crescano

come una scala tra le ossa rattrappite:

salirò a sorriderti nei gigli.

*

L’anima che ti dono è nuda

come una statua svelata.

Nuda con l’impudenza

di un frutto, di una stella, di un fiore

di tutto ciò che conserva l’infinita

serenità di Eva, prima della maledizione.

Di tutte le cose,

frutti, astri, rose

che non si vergognano del sesso

senza veli, per cui non esiste veste.

Nuda e aperta per

l’ansia di amare.

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