Che un autore senta la necessità di specificare, come postilla a una sua opera, la motivazione ispiratrice della propria scrittura è certamente segno di debolezza. Sua e dell’opera. Lo fa Ariel Magnus, nipote di una sopravvissuta ai crimini nazisti, nel suo L’esecutore (traduzione di Pino Cacucci, Guanda 2020), specificando che se si è mosso per “compiere ricerche e scrivere sul periodo che il genocida [Adolf Eichmann] ha trascorso in Argentina”, l’ha fatto sotto “l’impulso nato dall’odio smisurato” che il padre nutriva per quel nazista, “ben superiore all’odio che gli suscitavano i vari gerarchi nazisti, compreso l’altro Adolf.”

Avvinto, quasi stritolato dal timore che il padre potesse leggere nel suo romanzo “qualcosa di positivo” intorno alla figura storica di Eichmann, Magnus usa la citata postilla per dissolvere le ombre di possibili errate interpretazioni del suo lavoro, timoroso quasi che la sola pronuncia del nome del nazista, o di altri gerarchi rifugiatisi in Argentina, produca effetti infettanti. Come quelli da lui subiti: “Quello che ho percepito camminando per le strade”, scrive, “è stato che la presenza di Eichmann e di tutti i nazisti venuti qui nella stessa epoca aveva cambiato la geografia nella sua parte più sottile: l’aria. Sapere che qui aveva vissuto quell’assassino di massa pareva aver lasciato l’atmosfera rarefatta per sempre, come una nube tossica”. Problema solo argentino? “La stessa nube avvolge la Germania da quando è finita la guerra ed è iniziato il lavoro di rimuoverla”, continua.

Dopo aver disegnato una metafora politica così ardita, più che mettersi finalmente a leggere il romanzo viene voglia di indagare le fonti cui Magnus ha attinto per rendere l’opera narrativamente “vera”, quantomeno “credibile”. Ed è lo stesso a venirci in aiuto, citandole in calce: anzitutto e su tutti La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme, della tedesca Bettina Stangneth (Luiss 2017, ma uscito in Germania nel 2011), il libro che gli ha “fornito il maggiore aiuto”, dandogli “l’impulso iniziale e fungendo da guida”. Stangneth, per la quale gli apprezzamenti si sprecano: dotata di “ineguagliabile pazienza”, di una “meravigliosa erudizione”, “generosa”, “aperta”, disinteressata”. E Hannah Arendt, visto che l’“oggetto” è Eichmann? Tranquilli. È citato anche il suo Eichmann a Gerusalemme (Feltrinelli), ci mancherebbe. Ma in questo caso non una parola sulla filosofa, sulle polemiche che sono seguite a quel suo resoconto del processo israeliano al nazista, solo uno sbrigativo “stupendo”, riferito al libro: un modo per dire tutto e nulla.

Letto dunque che Stangneth è stata la “guida”, e non la Arendt, molti lettori si tranquillizzeranno, come Susanna Nirenstein: “Eichmann era la personificazione del male. Anche Magnus è d’accordo” (Repubblica 29 agosto 2020). Uno sport praticato da molti, quello del discredito gettato sulla Arendt, dopo la sua riflessione sul bene e sul male alla luce di quanto sperimentato durante il processo a Eichman: insieme al gerarca nazista protagonista dello sterminio degli ebrei europei, giustiziato con impiccagione, dopo processo, a Ramla il 31 maggio 1962, al banco degli imputati viene chiamata sempre anche lei, Hannah Arendt. Proviamo a capire perché.

Nel 2011 era stata la storica statunitense Deborah Lipstadt a sostenere che la filosofa ebreo-tedesca, con i suoi resoconti e ragionamenti intorno alla “banalità del male”, avrebbe costruito “una versione dell’Olocausto in cui l’antisemitismo ha un ruolo minoritario”. Poi è arrivata Bettina Stangneth, appunto, con il citato La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme ad invitare senza mezzi termini coloro che da quel momento in poi avessero voluto approfondire il “caso Eichmann” ad evitare gli scritti arendtiani, perché “fare riferimento a Hannah Arendt serve solo a distrarre lo sguardo dalla questione di fondo”, in quanto, a suo parere, proprio per aver letto “con più meticolosità di chiunque altro i verbali del processo e degli interrogatori”, “cadde nella trappola”, perché “Eichmann a Gerusalemme”, continua la tedesca, “fu poco più di una maschera”.

Sarà stato a motivo di quest’aspirazione di Stangneth alla ricerca del “vero” Eichmann che l’editore italiano decise di “tradire” il titolo originale del suo libro (che suonava Eichmann prima di Gerusalemme. La vita indisturbata di un pluriomicida, dunque senza alcun richiamo a “verità” e “male”). Decisione discutibile, soprattutto perché, per quanto rigorosa e documentata fosse la ricerca, per ammissione della stessa Stangneth, non tutti i documenti relativi a Eichmann erano e sono ancor oggi a disposizione degli studiosi. Nonostante ciò, la filosofa ritenne doveroso, “per trovare argomenti contro la Arendt”, studiare Eichmann prima di Gerusalemme, in Argentina, ricostruendone la vita lì (tra il 1950 e il 1960), consultando in particolare le “cosiddette Interviste a Sassen” (Willem Sassen, l’ex SS olandese che per primo rintracciò Eichmann in Sud America), dal 1979 in buona parte accessibili.

Già la Arendt aveva rimarcato nell’ex gerarca nazista, descrivendolo a Gerusalemme, “la spiccata tendenza a farsi bello con le penne degli altri”, la millanteria, l’abilità nel mentire, le ambizioni di carriera. Dunque quando Stangneth, analizzando le Carte Argentine, notò nelle dichiarazioni di Eichmann “incongruenze e falsità”, nonché “abilità manipolatoria” per ambizione di notorietà, di potere, di soldi, non scoprì un personaggio diverso da quello manifestatosi al processo. E alla luce di quelle “qualità”, come poteva essere così certa Stangneth che “le sue vere convinzioni siano contenute nelle Carte Argentine”? Come si può pensare che un ex criminale e convinto nazista sopravvissuto al crollo del Terzo Reich, seduto in un comodo salotto sudamericano e circondato da vecchi camerati che pendono dalle sue labbra, non ne abbia approfittato per mettersi in mostra, al di là dei suoi reali “meriti”?

Più che l’intento di ricostruire il “vero” Eichmann, merita una sottolineatura la denuncia mossa allora dalla Stangneth nei confronti della Germania attuale, del Bundesnachrichtendienst (il Servizio Federale d’Intelligence) in particolare, poiché a tutt’oggi non è possibile accedere ad alcun atto riguardante il “caso Eichmann” (3400 pagine in 5 diversi depositi). Motivi sostanziali: il bene della nazione, la protezione degli informatori e il diritto alla privacy di terze parti coinvolte, intendendo tra queste anche “autorità estere”, tra le quali vi è certamente lo Stato d’Israele, visto che nella “motivazione ufficiale” al no per la consultazione, specificava Stangneth, veniva sottolineato che “finora non sono stati pubblicati tutti i documenti ufficiali relativi al processo Eichmann”.

Insomma, il nome dell’ex gerarca e criminale nazista sembra essere più un pretesto che altro. Per questo motivo, a dispetto della Stangneth e dei complessi psicanalitici di Magnus, vale la pena andare a rileggere La banalità del male (Feltrinelli) della Arendt, cercando di capire quali siano i motivi veri per cui la filosofa continua ad essere attaccata.

Le questioni gravi da lei messe in luce furono due: il ruolo di Eichmann in relazione agli eventi e il giudizio che si dovesse dare sull’operato degli stessi ebrei e sulla politica delle loro organizzazioni durante le fasi d’attuazione dello sterminio. I suoi articoli provocarono subito critiche durissime da parte dell’intera comunità ebraica. Con la definizione di “banalità del male”, secondo i suoi critici, avrebbe mirato alla banalizzazione del crimine. In realtà, come rispose a Gershom Scholem che l’accusò di aver creato uno “slogan”, secondo la Arendt “il male è sempre e solo estremo, non ‘radicale’, e le motivazioni che spingono al male non vanno ricercate sul piano del profondo e del demoniaco. Esso può invadere tutto e devastare il mondo intero, precisamente perché si propaga in superficie come un fungo. […] Solo il bene ha profondità e può essere radicale”. In questo senso l’aver fatto di Eichmann un “mostro”, l’averlo posto sul banco degli imputati con intenti con non erano solo giuridici (affrancare il popolo ebraico dal ruolo di vittima), per la Arendt rappresentò una commistione non salutare tra politica e giustizia. La sua posizione rispetto alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina è stata chiara fin dal 1940, quando ancora si trovava in Francia a fianco di un convinto sionista come Erich Cohn-Bendit: secondo lei il “sogno” di Theodor Herzl non avrebbe risolto il problema delle minoranze ebraiche in Europa. Di fronte alla minaccia delle deportazioni, meglio sarebbe stata, una volta sconfitto il nazismo, la creazione di un’unione di Stati al cui interno gli ebrei avessero potuto godere del riconoscimento di minoranza nazionale e di una rappresentanza in un parlamento europeo. Negli anni ’47 e ’48 la filosofa conobbe Judah Magnes, leggendario capo sionista già rettore della Hebrew University di Gerusalemme e propugnatore di una federazione arabo-israeliana. Condividendo con lui la critica all’establishment sionista, la Arendt lavorò come sua intermediaria e persona di fiducia negli USA. Insomma una posizione politica, quella della Arendt, che non poteva non far discutere. E l’impressione è che il “processo” che ciclicamente le viene intentato sul tema Eichmann celi maldestramente l’accusa di essere stata una sionista “eretica”, o addirittura, come disse Gershom Scholem, di aver “mancato di amore per il popolo ebraico”. Un’accusa rivolta all’ebrea tedesca che suona davvero grave, troppo grave. Oltre che ingiusta.

Detto questo, al di là di postille e complessi paterni, L’esecutore di Ariel Magnus è un buon romanzo.

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