Due anni fa, l’11 giugno 2011, è morto il compagno Matteo Dean, scrittore e giornalista indipendente, attivista e sognatore, migrante rivoluzionario, messicano ad honorem. Nei suoi articoli, che pubblicava su vari giornali fra cui il manifesto, affiorava la realtà attuale del Messico dipinta in maniera precisa, informata, non sensazionalista eppure terribilmente drammatica, come ben sa chi ama il Messico e chi ci vive.

Matteo Dean

I suoi amici di Trieste gli hanno organizzato un bell’ omaggio nella Casa delle Culture (sì, al plurale): una lettura di brani dal suo libro Ser migrante, che raccoglie alcuni saggi e articoli sul tema della migrazione.

Forse il fatto di essere nato a Opicina (anzi Opcina, come dicono lì), una contrada del Carso dove Italia e Slovenia si compenetrano, gli ha dato un imprint di migrante nomade, di uomo di frontiera. Di fatto Matteo era un viaggiatore nato e, appena ventenne, arrivò in Chiapas per vedere con i propri occhi la nascita e l’evoluzione del movimiento zapatista, non da semplice spettatore ma da partecipante.

In quegli anni, a partire dal 1994, San Cristóbal de Las Casas, dove vivevo, era una tappa obbligata per i rivoluzionari di tutto il mondo (anche quelli in pensione o in pectore) che volevano addentrarsi nella Selva lacandona. Vere e proprie fiumane di giovani, in buona parte italiani, circolavano per la città in cui il 1 gennaio del 1994 l’Ezln e il leggendario subcomandante Marcos rivelarono al mondo la propia esistenza (la prima intervista del sup Marcos è ancora consultabile nell’archivio de l’Unità del 3/01/1994).

E’ pur vero che in molti di loro sembrava prevalere uno spirito da tifosi della curva sud, un’adorazione acritica per il leader zapatista e una superficialità sconcertante. Ma sarebbe ingiusto fare di ogni erba un fascio e non riconoscere che in quella ondata di giovani rivoluzionari (o pseudo tali) c’erano anche elementi preziosi che contribuirono a un arricchimento fecondo e a uno scambio di esperienze con i ribelli zapatisti. Penso giustamente a persone come Matteo Dean, che aprì un piccolo ristorante-centro sociale per poter rimanere a vivere in Chiapas, in contatto con il movimento. O a Renato Tanfoglio, anche lui morto a 35 anni, che riuscì con la sua verve straordinaria a risvegliare l’arte dei bambini pittori fondando ‘Las semillitas del sol’. O ai compagni di Radio Onda d’urto di Brescia, che lavoravano come pazzi (Roberta e Pelo in testa) per appoggiare il movimento zapatista. E a tanti altri.

Per ricordare Matteo, con cui ho condiviso pagine per il manifesto e sono rimasto in contatto anche dopo che aveva lasciato il Chiapas, traduco un articolo di Luis Hernández Navarro, caporedattore del quotidiano La Jornada, apparso pochi giorni dopo la sua morte, mai chiarita completamente.

(In Messico un camionazo, un incidente stradale provocato da un camion fuori controllo, è spesso sinonimo di omicidio politico: basta ricordare i casi di Amado Avendaño, governatore ribelle del Chiapas, di Andrés Aubry, lo storico franco-messicano dello zapatismo, o di Manuel Clouthier, candidato presidenziale nel 1988, tutti rimasti avvolti nel mistero.)

L’articolo di Hernández Navarro dà un’idea di quanto Matteo era conosciuto e stimato in Messico. E, per chi legge lo spagnolo ed è interessato al fenomeno del narcotraffico, consiglio una lunga intervista fatta da Matteo a Anabel Hernández nel marzo 2011 (http://desinformemonos.org/2011/03/los-senores-del-narco). Anabel Hernández è una giornalista coraggiosa, oggi costretta a vivere sotto scorta, che ha pubblicato un libro sui cartelli della droga in cui si rivelano i legami fra i narcos e i politici di primo piano. L’intervista, interessantissima e in alcuni punti profetica, potrebbe servire da modello: domande brevi, informate e stimolanti, risposte lunghe e ben montate. C’è molto Matteo nell’intervista: un minimo di presenza, una grande empatia con l’intervistato, un massimo di informazione. Alla sua morte, che è stata una grave perdita non solo per la sua compagna e i tanti amici ma per l’intero movimento, si è aggiunto un episodio tristissimo: meno di due mesi dopo, suo fratello maggiore Federico, scalando il picco del Montasio, una montagna cara a entrambi, per spargerne le ceneri, è morto colpito da un fulmine.

 

Matteo Dean, essere migrante di Luis Hernández Nav

Durante tutta la sua vita ha lottato contro l’ingiustizia ma alla fine l’ingiustizia lo ha raggiunto. Matteo Dean aveva 36 anni nel momento in cui la morte l’ha trovato. Montato sulla sua Suzuki 600, stava aspettando di pagare il pedaggio al casello dell’autostrada Toluca-México quando, alle 3:15 del pomeriggio di sabato 11 giugno del 2011, un camion senza freni lo ha investito.

Matteo ritornava a Città del Messico dopo aver dato una conferenza sui 150 anni dell’unità d’Italia. Era rimasto d’accordo con sua moglie, Sol Patricia Rojo, che avrebbero pranzato insieme. Poco meno di un’ora prima l’aveva chiamata per telefono da Toluca per dirle: “Sono molto contento. Non sono mai stato così felice in vita mia”.

Matteo ha fatto così tante cose che sembrava avere un’età molto maggiore di quella che aveva realmente. Era nato a Opicina, in provincia di Trieste, Italia. Ha viaggiato letteralmente in tutto il mondo. Ha organizzato collettivi autogestiti, ha insegnato italiano, è stato un ricercatore specializzato nel mondo del lavoro e le migrazioni presso il ‘Centro de Investigación Social y Asesoría Laboral’; ha scritto reportage, cronache e articoli di fondo per La Jornada, Desinformémonos, il manifesto e altri giornali, ha partecipato a un gran numero di manifestazioni e proteste altermondiste ed è stato documentarista.

Figlio minore di genitori che si separarono quando aveva sei anni, crebbe al lato di sua madre. Studiò all’università un anno ingegneria e un anno storia, poi la partecipazione al movimento gli fece lasciare gli studi. A Trieste formò parte del Centro di Cultura Italiana e si dedicò a occupare spazi urbani abbandonati, in cui i giovani e gli immigrati senza casa potevano trovare un alloggio degno. Fece parte dei centri sociali del Nordest, uno dei fenomeni politici più innovatori della sinistra italian

Matteo era arrivato in Messico molto giovane, quasi per sbaglio, dopo aver cercato un amore perduto in Canada. L’insurrezione zapatista lo prese e andò a vivere a San Cristóbal de Las Casas. Si mise a studiare storia nella Unam, l’università di Città del Messico, ma il movimiento studentesco del 1999 lo assorbì completamente. Aveva partecipato alle proteste contro il Foro economico mondiale che si svolse a Cancún nel febbraio del 2001. Fu espulso dal paese per due volte, ma riuscì sempre a ritornare. Dal 2004 risiedeva permanentemente in Messico con un permesso di lavoro e un anno dopo cominciò a dare lezioni di italiano nell’ Istituto Italiano di Cultura. I suoi alunni lo soprannominavano El Profesor Gramaticus, per il suo interesse nella conoscenza e nell’insegnamento dei precetti per un uso corretto della lingua.

un mural di Oventic

un mural di Oventic

Matteo era una persona molto colta. E’ stato, a suo modo, un autodidatta che si è educato come facevano gli organizzatori operai dell’inizio del Novecento. Lo appassionava lo studio della storia. Teoricamente si era formato nell’operaismo italiano, in particolare sull’opera di Toni Negri, Paolo Virno e Sandro Mezzadra. Era, tra l’altro, un lettore appassionato di fantascienza, specialmente di Philip K. Dick (l’autore che con una sua opera ha ispirato il film Blade runner), precursore del genere cyberpunk, che Matteo considerava un filosofo.

Nel 2004, Matteo ha capito che quello che gli piaceva di più nella vita era scrivere. A partire da allora, si è dedicato a farlo con tutto il suo impegno. Modesto, semplice nel trattare le persone, genuinamente interessato alle loro vite, dotato di una peculiare capacità di ascoltare, ha costruito una rete vasta e diversa di relazioni sociali. I suoi scritti sono scaturiti da questi vasi comunicanti e offrono un punto di vista informato, originale e genuino.

mujeres zapatistas

mujeres zapatistas

Viaggiatore instancabile, nomade alla ricerca di un suo spazio, migrante che ha esercitato il diritto di fuga, Matteo ha dedicato una parte molto importante della sua vita e della sua opera all’immigrazione. Ha spiegato con grande erudizione l’essere migrante in generale e le condizioni in Europa degli immigrati africani, rom e dei Balcani. “Un migrante è oggi qualcosa di straordinario –ha scritto –, né migliore né peggiore, solo diverso. Qualcosa che neanche le lingue possono contemplare. Qualcosa che i governi non hanno potuto capire.” L’editrice Sur + ha pubblicato una raccolta di suoi saggi intitolata Ser migrante, essere migrante.

Specialista in outsourcing (esternalizzazione sembra una brutta parola) e in precarietà lavorativa, sosteneva, controcorrente rispetto alle letture dominanti nella sinistra, che è possibile “darle la vuelta a la tortilla” e vedere la flessibilità lavorativa non come un problema ma come una possibile via di fuga dalla schiavitù del lavoro salariato.

Per anni ha cercato a Città del Messico uno spazio di convivenza come quelli che si trovavano nei centri sociali italiani e nella organizzazione Ya Basta! Ha lavorato per costruirlo. Nella colonia Ampliación Tepepan ha promosso progetti di alfabetizzazione, cineclub e colazioni comunitarie. Malgrado tutto, non era soddisfatto dei risultati.

migranti centroamericani

migranti centroamericani

Biondo con occhi chiari, Matteo è vissuto sempre con il conflitto di sentire nostalgia per la sua terra e di desiderare di vivere in Messico. Amava questo paese, sebbene fosse sempre più preoccupato per la sua catastrofe. In fondo, viveva in un limbo. Sentiva che, malgrado tutto quello che aveva fatto qui, non era considerato realmente un messicano e che in Italia non lo vedevano più come italiano. Le manifestazioni di cordoglio e di affetto che hanno mostrato i suoi compagni in occasione della sua morte hanno mostrato che quella sensazione non era affatto fondata. Lui era messicano, era italiano, era un cittadino del mondo.

Come se fosse lui stesso un personaggio della fantascienza che tanto gli piaceva leggere, sembra che Matteo abbia presentito quello che gli sarebbe successo e cominciò a preparare il suo viaggio due mesi prima della sua morte. Insistette con la sua compagna Sol Patricia per formalizzare una relazione che durava da sei anni, le diede istruzioni precise sul da farsi in caso venisse a mancare, unificò i loro conti in banca e aggiornò la lista delle persone da contattare in caso di emergenza.

Nell’apprendere la morte di Matteo Dean, un poliziotto italiano che l’aveva sorvegliato ha inviato un messaggio postumo a suo fratello, riconoscendone la traiettoria, l’onestà e la nobiltà d’animo. Matteo è stato uno dei due traduttori del mio libro Sentido contrario: vida y milagros de rebeldes contemporáneos, un “album fotografico” di personaggi dissidenti con un percorso esemplare. Senza alcun dubbio, lui stesso deve occupare un posto in quelle pagine.Luis Hernández Navarro – La Jornada

ciao Matteo buon viaggio

ciao Matteo buon viaggio

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