Poi succede che apri un libro, un grande libro – tipo Herzog di Saul Bellow (dieci righe sue valgono più dell’intera narrativa italiana contemporanea, fidatevi ) – e arrivi a quel punto in cui l’autore racconta di un inverno nebbioso e dice: “Il sole era rinchiuso in una bottiglia ghiacciata”. Che scritto così può sembrare niente, una bella metafora, originale, proprio.
Però se ti fermi e la guardi bene, quella bottiglia, capisci che non poteva essere detto meglio, e che davvero esistono giorni dell’inverno lucente in cui il sole sembra paralizzato nel ghiaccio, nel chiuso ghiaccio di una bottiglia, se sei nato dove fa quel bel freddo lo capisci. Ed è tutto lì davanti ai tuoi occhi, perfetto e nitido. Di più: dentro quelle righe, dentro quelle parole e quella carta ghiacciata di sole ti rendi conto che mai nessuno l’aveva detto così. E allora forse è questo, scrivere davvero: è dire qualcosa come nessuno l’aveva mai detta, ma come tutti l’avevamo sempre saputa. Il sole nella bottiglia l’avevamo dentro da sempre, da quel pomeriggio di gennaio in cui lo vedemmo per la prima volta cristallizzarsi oltre il muretto della scuola e si gelava, ed eravamo soli, e non soltanto il sole stava nella bottiglia ghiacciata ma tutto il mondo, e tutto di noi, e ogni pensiero, e forse il futuro. E ogni volta, ogni altro sole nella bottiglia è stato quel giorno. Ma soltanto le parole di uno sconosciuto hanno sciolto il gelo.

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