PARIGI. “Non so”. Quando la conversazione vira sulla strage di Charlie Hebdo e l’integralismo islamico, Emmanuel Carrère cita involontariamente le ultime parole del suo nuovo romanzo. Non ha mai voluto essere un maître-à-penser. “Solo uno scrittore”, dice, ed è una professione di umiltà. “Davanti all’attualità mi limito a osservare, come fanno tutti. Diffido spesso da ciò che penso, faccio fatica a parlare del globale, ho bisogno di aggrapparmi a un piccolo brandello della realtà, e concentrarmi su quello per ottenere uno scorcio di verità. È così che ho raccontato la caduta dell’impero sovietico in Limonov o il problema dell’indebitamento in Vite che non sono la mia“.

Adesso arriva Il Regno (Adelphi, traduzione di Francesco Bergamasco), ovvero il Vangelo secondo Carrère, un peplum erudito e divertente, che mischia come sempre il racconto personale  –  una crisi mistica quando aveva trent’anni  –  all’indagine storica su una “piccola setta di ebrei” che ha fondato il cristianesimo. Uno degli scrittori più popolari di Francia si lancia nella sua sfida letteraria più azzardata, un salto nel tempo, alle origini della nostra civiltà, ma sempre con il rigore usato nei precedenti libri, mai semplici romanzi. “Ho smesso di usare la parola romanzo da L’Avversario ” ricorda. Nello studio quasi monacale del suo grande appartamento del decimo arrondissement entra all’improvviso uno dei personaggi de Il Regno, l’amico Hervé venuto per pranzo, che nel libro è compagno di camminate, meditazioni e altre escursioni intellettuali. Carrère si è avvicinato al Regno da agnostico (“Non sono abbastanza credente per essere ateo”), riuscendo a non urtare i lettori più religiosi: un piccolo miracolo, che lui attribuisce, scherzando, alla predestinazione racchiusa nel suo nome, che in ebraico significa “Dio è con noi”.

Perché incrociare un’improvvisa crisi personale con una ricostruzione storica sul Nuovo Testamento?

“È un lavoro di investigazione che si dirama su due piani, di diversa importanza: una ricerca sugli albori del cristianesimo e un’altra, più personale, su un periodo della mia vita in cui sono stato un fervente cristiano. Mi sembrava legittimo far dialogare questi due piani, anche perché permettono un approccio radicalmente diverso: una lettura del Nuovo Testamento da credente, che ascolta la parola di Dio, e poi quella di uno scettico, che cerca di ricostruire la verità storica dietro ai testi sacri”.

La sua temporanea conversione fu provocata da una crisi di ispirazione letteraria?

“Intorno ai trent’anni è cominciato un periodo orribile della mia vita. Non riuscivo più a scrivere, non sapevo amare. Ero diventato insopportabile a me stesso. Tutte le sovrastrutture mentali che mi avevano protetto, in particolare l’orgoglio di essere uno scrittore, erano all’improvviso crollate. Ho attraverso una crisi profonda, pensando che avevo sbagliato la mia esistenza, che forse sarei finito a fare il barelliere a Lourdes. La conversione è stata improvvisa, anche grazie alla mia madrina Jacqueline, una donna carismatica. Vedendo la depressione nella quale ero finito, mi ha regalato il Nuovo Testamento della Bibbia di Gerusalemme. Ho cominciato a interessarmi allora alla fede, anche se temevo che non fosse alla mia portata”.

Quanto è durata la sua crisi mistica?

“Non parlerei di misticismo, sarebbe dare un eccessivo valore a una crisi personale. Andavo a messa, pregavo, e soprattutto commentavo quasi ogni giorno il Vangelo secondo Giovanni. Per tre anni ho riempito di appunti interi quaderni, poi finiti dentro a cartoni dimenticati, fino a quando non ho cominciato a scrivere Il Regno. Ricordo bene il momento della conversione, meno l’uscita da questo periodo di pratica fervente. Non c’è stata una cesura netta, piuttosto un lento calo di intensità”.

Il ritorno alla scrittura ha in parte cancellato la devozione?

“Il mio agente mi ha suggerito di dedicarmi a una biografia. Ho pensato a Philip Dick, uno scrittore religioso, un mistico selvaggio. Tornando a scrivere, che è un altro modo di interrogarsi, sono uscito dalla fase dogmatica, ma l’inclinazione verso la fede mi ha accompagnato anche nella stesura de L’Avversario. A un certo punto è passata, e ho faticato a riprendere in mano appunti e lettere di quel periodo. Provavo un certo imbarazzo. Come se non fossi io”.

La sua ricostruzione ha una parte inevitabile di finzione?

“Per costruire un racconto bisogna riempire degli spazi bianchi, laddove non ci sono fonti. Ma volevo anche dare corpo a questi tipi che oggi immaginiamo con l’aureola, dei santi, eppure sono stati uomini, con fragilità, debolezze. Ho cercato però di non ingannare il lettore. Ho differenziato le ricostruzioni documentate da elaborati più controversi o personali”.

Avvicinarsi al Nuovo Testamento è anche un modo di risalire alle origini della letteratura?

“I Vangeli sono romanzi, con delle storie, dei personaggi, delle avventure. Certo, non sono soltanto questo. Ma nel Nuovo Testamento, che si può considerare un prodigioso bestseller, c’è un’efficace intuizione su come si deve raccontare una storia. Non sappiamo perché il cristianesimo sia così diffuso e se, in mancanza della conversione di Costantino o di un altro imperatore, non sarebbe rimasto una setta come tante altre, destinata all’estinzione. Sono convinto che nel successo di questa religione ci sia anche una ragione letteraria. Il solo poter leggere diversi Vangeli, con punti di vista molteplici, non fa altro che dare alla figura di Gesù una forza narrativa ancora più potente”.

Perché la scelta dell’apostolo Luca come protagonista de Il Regno?

“Luca è un autore nel senso moderno del termine. Nel suo Vangelo si ritrovano alcuni testi memorabili come il Buon Samaritano, il Figliol Prodigo, i Vangeli dell’Infanzia. Luca è anche uno storico, conduce una vera e propria inchiesta quarant’anni dopo la morte di Gesù. È insieme a Paolo, che gli fornisce una versione diretta degli eventi, e probabilmente raccoglie altre testimonianze per scrivere il suo Vangelo. Nel gruppo degli evangelisti, Luca è l’unico a non essere ebreo e a rivolgersi ai pagani. Infine, nei suoi scritti ho trovato una sorta di affinità umana: il rifiuto del settarismo, la ricerca del punto di vista altrui, la verità che non è mai da una parte sola. Insieme, Paolo e Luca, sono una formidabile coppia romanzesca, come Don Chisciotte e Sancho Panza, Sherlock Holmes e Watson”.

Lei e Houellebecq pubblicate, a pochi mesi di distanza, un libro che parla di religione. La stupisce questa coincidenza?

“Ha colpito anche me. Non so trarne conclusioni. Houellebecq parla dell’Islam, un tema contemporaneo e altamente polemico. Io mi dedico al cristianesimo, una religione più vecchia, forse più stanca, a mio parere relativamente inoffensiva. Scrivere di Islam, una religione di cui so pochissimo, oggi è infinitamente più pericoloso. Sono cresciuto dentro al cristianesimo e una delle domande che mi hanno spinto a scrivere questo libro è: quando si appartiene a una cultura cristiana e però non sei più credente, cosa resta?”.

A lei la risposta.

“C’è, dentro di me un nocciolo duro di valori cristiani, un retaggio del messaggio evangelico. Sono profondamente attaccato a quella folle inversione di valori predicata dal cristianesimo. Gli ultimi saranno i primi: è un’affermazione inverificabile ma non potrei rassegnarmi a vivere senza che fosse stata pronunciata. Ho passato sette anni a scrivere Il Regno. Stavo bene dentro a questo libro, ne conservo una profonda nostalgia. Per la prima volta da anni, non ho un altro libro in corso, da cominciare subito”.

È la chiusura di un ciclo?

“Credo di sì. Nel mio percorso letterario ci sono quindici anni in cui ho pubblicato libri di finzione. E poi altri quindici anni, dall’Avversario a questo libro, in cui ho scritto ispirandomi più direttamente dalla realtà. Ora non so bene verso cosa andrò. Non ho davvero niente nel cassetto”.

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