Lo dicevo ieri, ascoltandolo, con la foresta della rinuncia che mi mordeva le caviglie, “Ennio Morricone è il Mozart del cinema”. L’asserzione – la sentenza – pare esagerata. Non lo è. Per poliedricità ed energia, nel campo musicale, Morricone è impareggiabile. Esempi sparsi. Morricone ha arrangiato alcuni clamorosi successi della musica leggera – Sapore di sale, Pinne fucile ed occhiali, Se telefonando –, ha composto un centinaio di brani classici, propri, ha fatto parte del Gruppo di Improvvisazione di Nuova Consonanza, dedito all’avanguardia musicale; nell’anno in cui musicava C’era una volta il West pensava i modi musicali di Teorema di Pasolini e di Partner di Bertolucci. Il resto è noto: due Oscar, cinque nomination, tre Golden Globe, nove David di Donatello. La longevità non ha fatto che contribuire alla sua grandezza creativa: l’Oscar per la “Miglior colonna sonora” lo ottiene nel 2016, per The Hateful Eight di Quentin Tarantino. Nel 1972 – per capirci – costruisce il manto sonoro di 25 film, di ogni genere, da I racconti di Canterbury di Pasolini a Il diavolo nel cervello di Sergio Sollima e Il ritorno di Clint il solitario di Alfonso Balcázar (con un Klou Kinski in blusa da cowboy). Incrocio Morricone il 25 agosto del 2012: era in concerto a Rimini, trafficavo in un giornale romagnolo. Intorno al logo, fatale e un poco idiota (per eccesso d’abuso), “La bellezza ci salverà”, s’articolava un manifesto che, nel font, dava occhio ai film di Fellini. Non fu scelta adatta: Rimini è la città di Fellini, certo, ma l’immaginario musicale di Fellini, costruito da Nino Rota, Nicola Piovani, Luis Bacalov, c’entra quasi nulla con i tappeti sonori di Morricone. Il maestro, come sempre, fu impeccabile, di una modestia eclatante, pareva più un operaio che un genio – e questo rese stellare la sua grandezza. Per la firma di Robert D. McFadden il “New York Times” dedica un vasto ‘coccodrillo’ a Morricone, Influential Creator of Music for Modern Cinema, da cui trascelgo questi brandelli: “Era un professionista in cravatta e occhiali, con ciocche di capelli bianchi al vento. A volte si rintanava nella casa romana, scriveva musica per settimane intere. Componeva sulla scrivania, non al pianoforte: sento la musica nella mente, diceva, scriveva a matita, dettando, su fogli volanti, tutte le parti dell’orchestra… Morricone non ha mai imparato a parlare inglese, non ha mai lasciato Roma per comporre, per anni si è rifiutato di volare, anche se, infine, ha attraversato il mondo, invitato a dirigere le sue composizioni. Scrisse molto per Hollywood, eppure, non visitò gli Stati Uniti prima del 2007”. A chi gli rivolgeva la mia stessa affermazione, Lei è il Mozart della musica per il cinema, scrive tantissimo, rispondeva con lo stesso fermo pudore. “L’idea che io sia un compositore che scrive molto è vera da un lato, errata da un altro. Probabilmente so organizzare bene il mio tempo. Ma rispetto a compositori come Bach, Frescobaldi, Palestrina o Mozart sono pressappoco un disoccupato”. Naturalmente, il rapporto con Sergio Leone ha reso grande Morricone il cui talento fu quello di non piegarsi al film, ma di orientare la pellicola al ritmo dettato dalla musica. L’evidenza è dimostrata: Morricone ha composto musiche eccezionali di film altrimenti modesti. Ecco – aghi d’oro nel pagliaio di una filmografia impressionante – le colonne sonore più belle di Morricone (giudizio mio, perciò parziale, improponibile, inappropriato). (d.b.)

Mission (1986): il premiatissimo film di Roland Joffé (Palma d’oro e palmeto d’altri allori) sfida ovunque il patetico, a volte sfoga nella didascalia, nella cartolina con indios e giungla brasiliana. Morricone, con musiche vertiginose, dona alla pellicola la profondità della ricerca spirituale: da allora, il capitolo 13 della Prima lettera ai Corinti ha la violenza di un aut aut, di un proiettile di cristallo. Morricone avrebbe dovuto vincere l’Oscar, non aveva reali competitori. La statuetta andò a Herbie Hancock, per Round Midnight di Bertrand Tavernier. Un’ingiustizia.

C’era una volta in America (1984): zitti tutti, qui si celebra il culmine del legame tra Sergio Leone e Morricone. Il film è necessario, benché non sia un capolavoro. Potete ascoltarlo, più che vederlo, con gli occhi bendati: Morricone è il regista occulto di una pellicola epica.

I giorni del cielo (1978): film di bruna bellezza di Terrence Malick, regista di claustrofobica potenza. I suoi film godono di adoratori – di qualche detrattore – e le musiche ne sono il sigillo, decisive quanto le immagini, plastiche. Morricone, che qui lavora intorno a certi blocchi ritmici di Camille Saint-Saëns, ottiene la prima nomination agli Oscar per la “Miglior colonna sonora”.

Frantic (1988): la capacità camaleontica di Morricone gli permette di alternare musiche di candida nostalgia a ritmi rapaci, radiosi all’abisso. Come nel caso del magnetico film di Polanski, con Harrison Ford e una fatale Emmanuelle Seigner. Da notare che nello stesso anno, con l’aiuto del figlio Andrea, compila le musiche, indimenticate, per Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore (nell’esplosione di premi, il Bafta andò proprio alla sua colonna sonora).

The Untouchables. Gli intoccabili (1987): certamente Brian De Palma è un genio registico e David Mamet ha il passo verbale adatto; gli attori poi – tris d’assi: Sean Connery, Robert De Niro, Kevin Costner – sono graziati dalla bravura. Quando tutto funziona, la musica è la chiave di volta: sbagliarla può alterare il successo di un grande film. Morricone, infallibile, incassa la candidatura agli Oscar – che, per la cronaca, andò a Ryuichi Sakamoto e a Vavid Byrne per le musiche de L’ultimo imperatore.

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