Abbiamo visto “ Perdona e dimentica “ diretto da Todd Solondz.
Todd Solondz è un autore del New Jersey divenuto regista di culto un po’ dappertutto, ma non in Italia dove è conosciuto e stimato da una ristretta cerchia di cinefile. In precedenza solo il suo film “ Happiness “ del 1998 è stato distribuito nel nostro Paese in maniera decorosa. E’ oramai una delle personalità più interessanti del cinema americano e come molti autori è passato prima nei festival internazionali e poi dal grande pubblico. Il suo cinema è fuori dalle mode, per niente popolare, ultra-cinico e divertente; fatto di personaggi non convenzionali, estremi anche se della middle class, grotteschi nella loro miseria quotidiana, bigotti e conformisti. E la cifra stilistica del regista si potrebbe collocare tra l’irriverenza di Bunuel e la comicità e l’humor dei fratelli Coen; qualcuno ha scritto “sembra aver lavato i panni un po’ in Woody Allen e un po’ in Philip Roth “. I suoi film hanno idee molto originali e sono girati in modo realmente indipendente, con attori bravissimi ma non di primo piano e probabilmente questo gli ha lasciato una libertà improponibile nel cinema industriale di oggi.
Vincitore del premio come Miglior Sceneggiatura alla 66esima Mostra del Cinema di Venezia, “Perdona e Dimentica” riparte dal bellissimo “ Happiness “. Le tre sorelle hanno dieci anni di più e le loro famiglie sono vittime di tragedie più o meno terribili come pedofilia, depressione, suicidi, solitudine; famiglie di un’America sempre più terrorizzata dopo l’11 settembre, che esiste ma di cui nessuno vuol parlare. E tutto il film procede sulla tematica del titolo, perdonare o/e dimenticare: se si dimentica, non si perdona; se si perdona, spesso non si dimentica. La questione del perdono e dei suoi confini attraversa le storie d’amore che si intrecciano viene raccontata con umorismo tipicamente ebraico, in modo spietato ma anche con leggerezza dileggiatoria.
Sullo sfondo della luminosa e vacanziera Florida tre sorelle ebree vivono con disperazione le loro vite: Joy ( Shirley Henderson ), vegetariana e emotivamente fragile, è in crisi con suo marito, un uomo gentile e delicato ma anche drogato, depravato e incontinente sessuomane, e lei deve anche fare i conti con le sue allucinazioni, vede il fantasma dell’ex-fidanzato morto suicida; c’è Trish ( Allison Janney), moglie separata di Bill, con tre figli di cui due piccoli, l’ex marito è in carcere per pedofilia, ma lei ha detto ai suoi ragazzi che il padre è morto, sta cercando di rifarsi una vita andando ad appuntamenti al buio; Helen ( Ally Sheedy ), poetessa nevrotica e poi sceneggiatrice affermata, è vittima del suo stesso successo. Bill, dopo anni di carcere, esce di prigione, e da solo inizia la sua vita costretto ad affrontare il suo passato in piena solitudine; incontra al bar di un albergo una donna ( Charlotte Rampling ) algida e sola, finiscono a letto senza alcun desiderio e lui, andando via, cerca di rubarle dei soldi dalla borsa.
Joy decide di prendersi una “pausa” dal marito e dal New Jersey vola in Florida dove vive la sua famiglia. Sua sorella Trish ha iniziato una nuova relazione con un uomo anziano per lei ma normale e organizza il Bar Mitzvah per i tredici anni del figlio. Figlio fragile che però riesce a far scappare il nuovo compagno della madre paventando che anche lui possa essere pedofilo. In realtà vorrebbe un padre ma non sa come averlo. Nessuna storia si chiude tematicamente, ma nessun intreccio resta aperto. Tra le macerie di tante esistenze, resta solo il caos e la difficoltà di accettare se stessi e gli altri.
Una splendida commedia black, dal crudele umorismo, con tematiche angoscianti anche se stemperate dal ‘ tocco ’ tipicamente ebraico. Qualche concetto filosofico sul dimenticare e perdonare, su cui il piccolo Timmy, ragazzino fin troppo saggio per la sua età, ( torna sempre in questo genere di film il ragazzino saggio ) si trova spesso a riflettere: forse i terroristi dell’11 settembre avevano “le loro buone ragioni ?”. E ancora: opinioni su Israele, l’America pre-Obama, Bush, Mc Cain, il Vietnam, i rapporti familiari, sono espresse a partire da toni ed atteggiamenti seriosi che sfociano sapientemente in dialoghi surreali ed assurdi. Regia e fotografia sono rigorose ed eleganti fin dalla prima scena. Tutto il gruppo d’attori è praticamente perfetto come preciso, quasi in maniera maniacale, sono le scenografie la cui precisione nel disegnare scorci urbani, geometrie glaciali e interni definiti al millesimo (poster alle pareti compresi: quadri di Daniel Johnston, locandine dei Neutral Milk Hotel e di I’m not there ) sono i tratti stilistici più forti. La precisione degli oggetti e l’immobilità degli edifici sono le uniche cose solide del mondo.

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