Lurigancho è la prigione più grande e più affollata del Perù. Le condizioni di vita sono pessime, ma da più di vent’anni i detenuti votano per eleggere i loro rappresentanti.

Per capire un posto come Lurigancho conviene lasciare da parte termini come prigione, detenuto o cella. I 7.400 uomini che vivono a Lurigancho, il più grande istituto penitenziario del Perù, non indossano uniformi. La mattina non si fa l’appello e non ci sono celle d’isolamento. I controlli delle guardie carcerarie sono formali. Sorvegliano il cancello all’ingresso della prigione e poco altro.

I venti edifici che costituiscono l’istituto sono suddivisi in due sezioni: i detenuti che se la passano meglio vivono nel Jardín (il giardino), cioè negli edifici che hanno un numero dispari. Le piante sono appassite tanto tempo fa, ma il nome è rimasto. Molti detenuti hanno le chiavi della loro cella e sono liberi di andare dove vogliono. L’altra parte di Lurigancho, quella degli edifici contrassegnati da numeri pari, è chiamata la Pampa (la pianura) e ospita migliaia di detenuti accusati di omicidio e furto. Questa zona è due volte più affollata del Jardín, le sue condizioni igieniche sono scadenti e c’è molta violenza.

Lurigancho si trova a pochi chilometri dal centro di Lima, la città più grande del Perù, e mantiene un legame con la vita della capitale. La Pampa è organizzata in base ai quartieri di provenienza dei detenuti e ogni blocco corrisponde a una zona della capitale, in pratica è una specie di mappa della criminalità di Lima. Ogni blocco del carcere assolve anche al ruolo di comitato d’accoglienza, gruppo di sostegno e scuola di perfezionamento per i giovani delinquenti che finiscono dentro per la prima volta.

El Jardín e la Pampa sono separati da un muro di cemento e da un vicolo stretto chiamato El Jirón de la Unión, lo stesso nome di quello che un tempo era uno dei viali più aristocratici del centro di Lima. La versione carceraria è un mercato all’aperto dove uno può tagliarsi i capelli e comprare sapone, pile, lamette, magliette usate, droga e ghiaccioli. Durante il giorno la strada è affollata di sin zapatos (senza scarpe), l’esercito di detenuti tossicodipendenti che non appartengono a nessun blocco. Ogni notte tra i duecento e i trecento detenuti non hanno un posto dove dormire.

Per ogni secondino ci sono circa cento detenuti (negli Stati Uniti, in media il rapporto è di uno a sei) e per questo le autorità tollerano il traffico di droghe, alcol e l’uso della televisione via cavo e dei cellulari, cioè tutti i comfort che rendono sopportabile la vita in carcere. Le droghe contribuiscono a placare il nervosismo delle persone dovuto al sovraffollamento e aiutano a rendere meno aggressiva la popolazione carceraria, tendenzialmente inquieta. Come mi ha spiegato uno spacciatore, “è l’unico modo per tenere sotto controllo queste bestie”. Per lui vivere a Lurigancho senza la sua dose giornaliera sarebbe impossibile. I casi di overdose sono frequenti e i medici sono pochi. Per i 49mila detenuti peruviani ci sono solo 63 medici e pochi di questi sono assegnati a Lurigancho. Nel carcere arriva ogni giorno una quantità di cibo appena sufficiente a garantire due pasti per detenuto. La vita quotidiana, dalla manutenzione della struttura, alla sicurezza, allo svago è nelle mani di chi ci vive. Ogni blocco è gestito da un boss, una figura di spicco della malavita di Lima. Nessuno mette in discussione la sua autorità.

L’élite dei narcotrafficanti
Il blocco 7 del Jardín riservato ai narcotrafficanti internazionali fa eccezione. Al suo interno vivono molte persone che hanno viaggiato, possiedono più di un passaporto e parlano diverse lingue. Il tenore di vita riflette la relativa ricchezza di questa élite. I narcotrafficanti sono uomini d’affari, e credono nel fatto che quasi tutti i problemi si possano risolvere o aggirare con il denaro. Sono per la maggior parte peruviani, molti provenienti dalle regioni orientali in cui si produce la cocaina, ma ce ne sono anche altri: cinesi, olandesi, italiani, messicani, nigeriani, spagnoli, turchi.

E questa varietà si riflette sui muri del cortile, dove sono dipinte cartine dell’Unione europea, loghi di squadre colombiane di calcio, murales che rappresentano la vita nella giungla. I detenuti provengono da una trentina di paesi e tra loro ci sono sia il corriere che non ha superato i controlli di sicurezza dell’aeroporto sia il trafficante di cocaina navigato che sconta la terza o la quarta condanna. Il risultato è un’atmosfera cosmopolita unica. I quattrocento detenuti del blocco 7 non hanno legami con le gerarchie criminali di Lima e per questo qui non governa un boss, ma la democrazia.

Quando sono arrivato, a maggio del 2011, c’era un clima di festa. Era in corso la campagna elettorale per scegliere come ogni anno un nuovo governo. Pepe, il candidato a capo della lista numero due, stava facendo propaganda porta a porta con il suo socio, Richard, il ricco proprietario del ristorante di pollo del blocco 7 (uso degli pseudonimi per proteggere la privacy e l’incolumità di tutti i detenuti).

I loro rivali della lista numero uno avevano candidato un uomo di nome Barrios, ma in realtà la lista era guidata da un narcotrafficante israeliano di nome Avi. Ogni lista presenta sei candidati: un delegato al cibo, uno alla sicurezza, uno all’economia, uno alla cultura, uno allo sport e uno alla salute. Molti detenuti indossavano le magliette della campagna elettorale: bianche con una stella blu, oppure rosse con la scritta gialla “Pepe e Richard. Vota per il cambiamento”. C’erano manifesti elettorali alle pareti. Su uno era disegnata una vecchia racchetta da tennis con la scritta “¡No más raquetas!” (basta con le racchette) termine con cui si definiscono le perquisizioni dei secondini. Le perquisizioni sono così rare che sono considerate un’offesa.

L’ultima ha avuto un’eco talmente grande da diventare un tema della campagna elettorale. Il giorno prima che arrivassi Pepe e Richard avevano organizzato una festa e in cortile erano ancora appese delle bandiere con il numero due. Un gruppetto di uomini a torso nudo stava smontando il palco su cui si era esibito un gruppo musicale proveniente da un blocco vicino. Pepe e Richard erano perfino riusciti a far venire delle ballerine da fuori, donne prosperose che avevano fatto colpo sugli elettori.

Mentre il gruppo suonava e le donne ballavano, Pepe aveva fatto il giro dei tavoli, stringendo la mano agli altri detenuti e ai parenti in visita, e chiedendo il loro voto. D’altronde è così che si vincono le elezioni, in prigione come all’esterno. La festa era stata un grande successo. Per questo Avi ha fatto circolare dei nuovi manifesti elettorali: “Rifletti compagno: venderesti il tuo voto per una festa?”.

Avevo visitato Lurigancho per la prima volta nel 2008 perché speravo di riuscire a organizzare un corso di scrittura creativa. Ho girato tutto il carcere nel tentativo di trovare studenti interessati. All’epoca Lurigancho ospitava quasi un quarto di tutti i detenuti del Perù e il sovraffollamento aveva raggiunto livelli drammatici. Il carcere, costruito per circa duemila persone, era arrivato a ospitarne più di 11mila. I coltelli venivano venduti alla luce del sole, così come le pipette da crack ricavate da pezzi di metallo. Uomini a torso nudo, coperti di cicatrici, con lo sguardo basso e appannato tipico dei tossicodipendenti erano accasciati lungo le pareti.

La tubercolosi era una piaga. Lurigancho produceva trenta tonnellate di rifiuti alla settimana, che in buona parte non erano smaltite e i detenuti più poveri si nutrivano di qualunque cosa commestibile trovassero nella spazzatura. Appesa a un vecchio ripetitore radio c’era una sciarpa grigia, bandiera non ufficiale del carcere, in memoria di un detenuto che, sotto l’effetto degli psicofarmaci, era fuggito dalla clinica psichiatrica del carcere, si era arrampicato sul ripetitore e si era impiccato.

Il sovraffollamento era così grave che qualche centinaio di detenuti senza cella avevano occupato un edificio abbandonato, creando il blocco 21. Di solito, in un carcere, se i detenuti hanno accesso a martelli, cemento, mattoni, pale e vanghe si teme che li usino per evadere. Quando ho visitato il blocco 21, invece, i detenuti impegnati stavano usando questi attrezzi per lavorare. Stavano costruendo un muro intorno all’edificio, per poter avere un posto sicuro dove passeggiare anche dopo il tramonto. Nel luglio del 2009 il governo ha interrotto l’afflusso di nuovi detenuti a Lurigancho. Da allora la popolazione del carcere è scesa quasi del 40 per cento e questo è un sollievo, ma anche un problema serio.

Oggi Lurigancho è un posto più tranquillo e in generale più sicuro. Ma dal momento che la sua economia dipende dai visitatori e dal denaro e dalle provviste che portano, la prigione è anche più povera. Purtroppo più tempo stai dentro, più è facile che ci si dimentichi di te. Un detenuto mi ha detto: “Il primo anno vengono a trovarti anche il cane e il gatto. Ma poi sei abbandonato a te stesso”. Meno detenuti corrispondono a meno visitatori e questo si traduce in meno soldi per la manutenzione e la sicurezza. Spesso manca l’acqua, ogni tanto salta l’elettricità, e non ci sono soldi per le riparazioni più semplici. La crisi economica ha avuto ripercussioni ovunque, anche nel blocco 7. A eccezione di pochi, che sono molto ricchi, tutti gli ospiti di Lurigancho per campare devono lavorare: nel carcere ci sono imbianchini, muratori, elettricisti, massaggiatori, avvocati, medici e cuochi.

Nel blocco c’è una struttura sociale piuttosto rigida: alcuni vivono da soli, altri condividono la cella con un detenuto a cui pagano l’affitto, oppure entrambi lo pagano a un terzo. Quelli che non se lo possono permettere vanno a vivere nel Gran hermano (il grande fratello), che riprende il nome del famoso reality show. In questa sezione circa trentacinque uomini dormono in letti a castello a tre piani. Il tetto è rotto e quando piove entra acqua.

I più poveri vivono nella Candelaria, un corridoio basso e sporco dietro la cucina, una tana per tossici con qualche brandina. Molti di questi uomini, chiamati rufos, fanno uso di crack, sono magrissimi e hanno l’aria malsana, e per comprare la droga si prostituiscono o rubano. Sono la forza lavoro del blocco 7 e si occupano di gran parte delle pulizie e dei lavori di manutenzione. Un terzo di loro non dovrebbe vivere nel blocco 7, ma è stato accettato come “residente” a certe condizioni. Puliscono le celle dei detenuti ricchi, lavorano nei tanti ristoranti del blocco e ogni sera spazzano il cortile. Se un rufo è troppo litigioso rischia l’espulsione. Ma nemmeno la buona condotta garantisce tutti i privilegi della “cittadinanza”, per esempio molti non possono votare.

Il mercoledì e il sabato, giorni di visite, se un rufo non si è fatto la doccia e la barba non può farsi vedere, per non spaventare donne e bambini. E quando a ricevere visite sono gli ospiti ricchi, i rufos puliti e rasati si occupano delle esigenze dei visitatori. Servono cibo e bevande, trasportano i pacchi pesanti. I soldi sono la linfa del carcere ed è per questo che nessuno ha voglia di festeggiare, anche se il sovraffollamento si è ridotto e il carcere è diventato più vivibile. La grave situazione economica è uno dei temi più caldi della campagna elettorale.

Tribuna politica
Incontro Murat, un curdo soprannominato “l’iracheno”, qualche giorno prima delle elezioni. Alto e magro, un viso sottile e capelli neri legati in una coda di cavallo, sul braccio sinistro ha una stella tatuata un po’ sbiadita. Quando è arrivato a Lurigancho non sapeva una parola di spagnolo, ma ora, dopo cinque anni, lo parla così bene che si è candidato come delegato all’economia nella lista due. “Se ci fossero stati anche solo due curdi”, mi ha detto, “avremmo gestito tutto il carcere”.

Pur essendo avversari alle elezioni, Murat e Avi sono amici, ed è stato Murat a farmi conoscere Avi, eminenza grigia della lista uno. Nella sua cella con l’aria condizionata, Avi mette subito le mani avanti: “Sulle elezioni non c’è niente da dire. Io la politica la odio”. A me il suo sorriso esagerato racconta un’altra storia: quella di un attore che tenta di farsi notare anche dagli spettatori seduti agli ultimi posti. Indossa un paio di Nike nuovissime, pantaloni della tuta, maglietta bianca e una kippah sui capelli corti brizzolati. Su una mensola di legno sopra il letto c’è una foto dei suoi due figli grandi. Mi spiega che sua figlia, anche se è fidanzata, non vuole sposarsi fino a quando il padre non tornerà a casa a Tel Aviv. Si fa scuro in volto. Ha scontato undici anni e cinque mesi e la condanna è a venti.

L’israeliano offre all’iracheno una sigaretta e mentre la cella si riempie di fumo i due cominciano a parlare del futuro del blocco 7. Poco dopo, alla nostra tribuna politica improvvisata, si aggiunge un peruviano dal viso paffuto chiamato Morales. “C’è mai stato un delegato straniero?”, ho chiesto. Tutti e tre si ricordano di un nigeriano di nome Michael che aveva preso il posto di un peruviano. “Quando è stato?”, gli chiedo e loro rimangono in silenzio. In prigione i giorni, i mesi e gli anni sembrano fondersi: 2003? 2004? 2005? Che importanza ha? Ma una cosa se la ricordano, quando il nigeriano si è ricandidato ha perso. “Uno straniero non può governare”, dice Morales con una punta d’orgoglio.

Avi ribadisce che il suo ruolo nell’elezione è secondario: “Queste elezioni deve vincerle la gente. Abbiamo bisogno di acqua e di elettricità e che i secondini ci lascino in pace”. Per contrastare la mancanza di fondi, gli avversari di Avi, Pepe e Richard, hanno proposto di aumentare le tasse. Al momento ogni abitante del blocco 7 contribuisce con tre soles (circa un dollaro) alla settimana per la manutenzione e la sicurezza. Per tradizione chiunque è dentro da più di sette anni è esentato dalle tasse. La lista due vuole eliminare questi privilegi e introdurre un nuovo sistema: da uno a 7 anni di carcere si pagano tre soles; da 7 a dieci anni, due soles; e oltre i dieci anni se ne paga uno solo.

Avi la definisce una crudeltà. “Io mi posso permettere di pagare le tasse”, dice, “ma qui ci sono persone che non ce la fanno”. Non crede nelle motivazioni dei suoi avversari. “Perché fanno una festa?”, chiede. “Per far spendere soldi alla gente”. Fare pubblicità alla lista è necessario, ma lo spirito del suo schieramento è un altro. Questa sera offriranno una cena a base di pollo a tutti gli abitanti del blocco, ricchi o rufos, cittadini o residenti, per festeggiare la chiusura della campagna. “È il pollo di Richard?”, chiedo. Avi sorride. Figurarsi se avrebbe comprato pollo dal suo avversario. I polli di Richard hanno introdotto una novità nel panorama della ristorazione di Lurigancho: le consegne a domicilio.

Prima della crisi economica Richard arrivava a vendere anche 120 polli arrosto a settimana, lavorando solo nei giorni di visita e prendendo ordinazioni da tutto il complesso carcerario. Erano i tempi d’oro, quando i soldi giravano in abbondanza, Lurigancho rischiava di scoppiare e ogni giorno di visita era un carnevale. A malapena riuscivano a stare dietro alle richieste. Ma adesso Richard vende la metà dei polli.

Altri delegati hanno tentato in passato di ottenere il sostegno di Richard, ma fino al 2010 ha sempre rifiutato di partecipare alla vita politica del blocco. Poi alcuni dei suoi complici sono stati scarcerati e di colpo la prospettiva del suo rilascio è diventata realistica.

“Ora mi è venuta voglia di costruire qualcosa”, mi spiega. “Ho la mia attività, il ristorante. Vivo bene. Le mie figlie frequentano una buona scuola, ma voglio lasciare un segno qui dentro”. Lo spirito imprenditoriale che ha spinto Richard a intraprendere la campagna elettorale è lo stesso che l’ha portato in carcere. È cresciuto a Tocache, una cittadina di campagna crocevia delle rotte del narcotraffico peruviano, in un’epoca in cui si cominciava a fare affari. Da quelle parti la coca cresce facilmente: di raccolti se ne fanno tre all’anno e le piante hanno bisogno di poche cure. Un giovanotto sveglio come Richard poteva fare un sacco di soldi. Lui non si ritiene un criminale: a Tocache tutti lavoravano nel settore. “Era normale”, mi ha detto.

Richard raccoglieva la sua coca in proprio, per venderla ai colombiani. In città, inoltre, era proprietario di una discoteca e di tre ristoranti. Il giorno in cui l’hanno arrestato era stato derubato un venditore di papaia. In cerca del ladro la polizia aveva cominciato a perquisire ogni auto che passava. E nel furgone di Richard erano nascosti trentacinque chili di cocaina.

Pepe è stato arrestato a Lima nel novembre del 2006, dopo diversi anni passati a guidare aerei carichi di cocaina diretti in Colombia. Alto, spalle larghe e modi affascinanti, era perfetto per il lavoro. Era facile immaginarlo sorvolare la sconfinata Amazzonia. Mi ha spiegato che il problema era calcolare il carburante necessario: abbastanza per arrivare a destinazione, ma non una goccia di più. Ogni centimetro libero dell’aereo andava caricato con la droga. Ora Pepe stava scontando il quarto anno dei dodici previsti dalla condanna. Come Richard, anche lui racconta la sua storia senza orgoglio, risentimento o vergogna. Non è il tipo che si abbandona al classico lamento del detenuto: la lunga, nostalgica lista di tutto ciò che è perduto, donne, macchine, case, soldi, libertà. Entrambi hanno i piedi nel presente, nel blocco 7, e sono decisi a vincere le elezioni.

Vigilia elettorale
Pepe è a capo della sua lista, ma in realtà lui e Richard sono una squadra. Su tutti i manifesti affissi nel blocco ci sono i nomi di entrambi e il loro slogan è: “Se vinceremo, sarà perché siamo una squadra”.

Il momento più importante della campagna è la sera della vigilia delle elezioni, quando la comunità si raduna nello spazio all’aperto che sta al centro dell’edificio, lungo le balconate del secondo e del terzo piano, per ascoltare i comizi dei candidati. L’evento, che si chiama balconazo, offre la possibilità di difendere il programma elettorale davanti agli elettori. All’ora prestabilita i detenuti cominciano ad arrivare e nell’edificio c’è un’atmosfera d’attesa. Pantaloni e magliette stese sono raccolti velocemente dai fili per il bucato, perché tutti possano vedere il comizio. È già buio e il caldo si è attenuato. Dagli altoparlanti arriva musica pop anni ottanta a tutto volume. Non mi aspettavo Keep on loving you dei Reo Speedwagon.

Un membro della commissione elettorale prova il microfono, facendo riecheggiare il suo inconfondibile accento colombiano per tutto il blocco. Io mi piazzo al secondo piano, e intorno a me i detenuti corrono per prendere un posto lungo la balconata. Da dove mi trovo riesco a vedere una cella al terzo piano con la porta aperta: un uomo in canottiera sta dipingendo una sella d’oro su un cavallo di ceramica nero. Quando tutto è pronto, le luci del blocco si spengono. I più giovani sono al terzo piano con tamburi e trombe da stadio. La scaletta è semplice: ciascuno dei candidati farà un discorso di cinque minuti e sono previsti tre minuti per la risposta dell’avversario.

Il primo a parlare sarà Barrios della lista uno, un narcotrafficante basso, con la pelle scura, originario della cittadina mineraria di Cerro de Pasco. Quando prende il microfono la folla lo accoglie con un applauso tiepido. Lui tossicchia. “Non sono bravissimo a leggere”, spiega, per questo il suo discorso lo leggerà un compagno. Si alza un mormorio, seguito da un momento di confusione, poi Carlos, capo della commissione elettorale, interviene e dice che non si può fare e che i candidati devono leggere il discorso da soli. Mentre la folla esulta, Barrios resta spiazzato. Un po’ riluttante, torna davanti al microfono. Qualche fischio dal terzo piano, poi il silenzio. Barrios comincia a leggere con voce debole e incerta, un po’ come un bambino. Di tutto il discorso, sono riuscito a cogliere solo una frase: “Il problema dell’acqua verrà risolto”.

Pepe, al contrario, è accolto dalla folla con un boato: “Io sono andato personalmente di cella in cella per spiegare il mio programma a ciascuno di voi, non ho mandato nessuno al posto mio”. I rufos sembrano impazziti e cominciano a suonare i tamburi e a gridare. “Io ho un’attività. Non devo più fare cose illegali”, prosegue Pepe, riferendosi alle voci secondo cui Avi non ha tagliato i ponti col passato. Senza nuovi detenuti, spiega, non arriveranno soldi. Ma basterebbe una gestione migliore.

Dopo l’esordio disastroso, Barrios se la cava meglio parlando a braccio. “Mi conoscete tutti”, dice e ribadisce il concetto all’infinito. Nel tono di voce c’è una vena di supplica. Stavolta i rufos applaudono anche lui. Pepe, dal canto suo, ribatte con qualche frecciatina, ma perlopiù elogia i detenuti del blocco e la democrazia stessa. “Domani sarete voi a decidere”, ha esclamato, conquistando grandi applausi. Terminato l’incontro mi sposto al centro dove trovo Avi e Barrios circondati dai loro sostenitori. Quando gli chiedo se secondo lui è andata bene, Barrios annuisce, ma senza dire nulla. Avi, imperturbabile come al solito, indica il gruppo di uomini tutt’intorno: “Se sono contenti loro allora sono contento anch’io”.

I sostenitori di Barrios cominciano a intonare il nome del loro candidato “Bar-ri-os! Bar-ri-os!” e lui risponde alzando una mano esitante. Più che un’acclamazione, sembra un tentativo di tirarlo su di morale. Dall’estremità opposta del blocco qualcuno risponde: “Pe-pe! Pe-pe!” e nel giro di qualche istante i due cori prendono lo stesso ritmo, annullandosi a vicenda. In serata mi siedo in cortile con alcuni detenuti. L’energia del balconazo è scemata. Passato il momento delle grida, nella serata tersa, alcuni giocano a carte, altri a dadi, e altri ancora camminano avanti e indietro per il cortile: una tranquilla passeggiata serale in uno spazio chiuso e affollato.

Il televisore da 42 pollici a schermo piatto del blocco, comprato dai delegati per i Mondiali di calcio del 2010, è stato sistemato all’esterno e ora trasmette a tutto volume una commedia americana doppiata davanti a una decina di rufos stravaccati e con l’aria narcotizzata. Secondo le regole scritte dalla commissione elettorale, la campagna finisce a mezzanotte in punto. Una decina di minuti prima della mezzanotte un rufo si ferma al nostro tavolo con un nuovo volantino di Barrios e Avi. Sul foglio c’è la frase “Zero debiti” e in basso il numero uno. Mentre lo osservo, percepisco del movimento intorno a me: su tutti i muri, stanno affiggendo i manifesti con il nuovo slogan.

La lista uno promette di cancellare i debiti di tutti. Inoltre, c’è scritto sul volantino, “Barrios può offrire questa possibilità perché dietro di lui ci sono persone con i soldi, investitori navigati”. L’ultimo paragrafo dice: “Barrios non ha bisogno di parlare bene per migliorare la vita del blocco. Meno chiacchiere, vota lista uno”. Alcuni gruppi di detenuti si raccolgono nel cortile per leggere l’ultima provocazione di Barrios. Anche alla luce debole dei fari si vede che annuiscono. Le votazioni si svolgono nella palestra del blocco, un angolo di cortile chiuso da una recinzione metallica. È un’altra giornata calda e soleggiata ed entrambi gli schieramenti hanno predisposto lunghi tavoli davanti al seggio per controllare le operazioni di voto.

Barrios, Avi e i loro sostenitori sono seduti ai tavoli bianchi, Pepe e Richard a quelli rossi, ma le due file sono così vicine, e l’atmosfera così conviviale, che le due fazioni avversarie sembrano due rami della stessa famiglia che fanno una gara. Un cane appare indossando una maglietta sporca della lista uno e i sostenitori di Pepe fingono di indignarsi: “La campagna elettorale è chiusa”, grida qualcuno, mentre un altro scarabocchia un due su un foglietto e lo attacca sulla schiena del cane. Ridono tutti, tranne il cane.

Alle dieci del mattino, quando aprono i seggi, in fila ci sono più di trenta detenuti. Uno a uno sono chiamati nella palestra, dove, circondati da poster di Arnold ­Schwarzenegger e Jean-Claude Van ­Damme, sulle note dei Queen o di Peter, Paul and Mary e sotto lo sguardo vigile di una commissione elettorale formata da tre membri e dai rappresentanti delle due liste, i detenuti del blocco 7 votano. Ognuno di loro riceve una biro e una scheda elettorale stampata su carta gialla. In un angolo un lenzuolo arancione è appeso alle impugnature di una macchina per fare pesi. Tirata la tenda, l’elettore sparisce, per riemergere un attimo dopo, appena ha fatto il suo dovere.

La scheda ripiegata viene infilata in una scatola da scarpe e l’elettore preme il pollice su un registro per lasciare l’impronta. A quel punto i membri della commissione fanno una croce sul suo nome e chiamano quello successivo.

Alta tensione
C’è qualcosa di speciale nelle elezioni. Una fila di persone in paziente attesa per esprimere la propria opinione accende una scintilla di ottimismo. Ogni voto nel blocco 7 corrisponde a un pugno che non sarà dato o a un proiettile che non sarà sparato. Nel blocco i rufos dormono tranquilli e gli stranieri si cercano a vicenda per piangersi addosso nelle loro lingue. Il pranzo è annunciato da una sirena a tutto volume e i detenuti si mettono in fila per farsi timbrare il cartellino prima di ricevere il pasto. Il pesante telone di plastica che ricopre la sala da pranzo si alza e si abbassa, mosso dalla brezza estiva. Questi uomini, cittadini di oltre venti paesi, che parlano dieci, quindici lingue diverse hanno messo a punto, senza alcun aiuto o direttiva dall’esterno, una forma di autogoverno pacifica che riescono a portare avanti da oltre vent’anni. Da molto prima che in Perù ci fossero elezioni democratiche.

Ho chiesto a decine di detenuti come sia nato il sistema elettorale del blocco 7, ma nessuno se lo ricorda. Mentre nel resto del carcere i problemi si risolvono con la forza, nel blocco 7 le persone si mettono in fila e votano. Corrieri della droga, ricchi narcotrafficanti e innocenti in attesa di giudizio: una testa, un voto. I seggi chiudono alle quattro del pomeriggio e poi comincia lo scrutinio. Il presidente del seggio sistema le schede gialle in tanti mucchietti.

C’è molta tensione: nel blocco 7 di solito le elezioni si vincono per meno di una decina di voti. Se me l’avessero chiesto, avrei dato per vincitori Barrios e Avi. Ero sicuro che la promessa di cancellare i debiti avesse avuto effetto. Ma sbagliavo.

L’elettorato ha dimostrato grande maturità, più di quanta capiti di vederne fuori dal carcere. La pila di voti a favore di Pepe e Richard comincia a crescere. È un plebiscito. Alla fine dello scrutinio il divario è di oltre sessanta voti, un record assoluto.
Álvaro, rappresentante del comitato elettorale della lista uno, è scuro in volto. Terminato il primo conteggio si consegnano al rappresentante di ciascuna lista le schede a favore dell’altra, per farle verificare a una a una. C’è sempre qualche elettore al suo primo voto che scarabocchia fuori dai margini, scrive il suo nome o gli slogan elettorali sulla scheda. Álvaro comincia a passare in rassegna i voti della lista due con l’aria di chi ormai è rassegnato alla sconfitta, poi di colpo smette di contare. Ha trovato un voto non valido. “Questo è un imbroglio”, grida. “Avete sbagliato a contare. Mi rifiuto di prendere parte a questa farsa”, continua.

C’è un lungo momento di silenzio, poi Carlos, il presidente di seggio, cerca di farlo ragionare. Annulla tutte le schede che credi, gli dice. Le facciamo ricontare a voi proprio per correggere i nostri errori. Álvaro non vuole sentire ragioni. Chiede che le elezioni siano annullate sulla base di un’unica scheda contestata. Nessuno sa cosa fare. Per una ventina di minuti tutto è congelato. Fuori dal seggio gli elettori cominciano a spazientirsi. Fischiano e urlano chiedendo i risultati. Carlos è furibondo e la tensione molto alta. E se Álvaro se ne andasse? Se rifiutasse di firmare? Tra i detenuti civili e pacifici del blocco 7 è davvero scontato che non succeda niente? Un colpo di stato? Un governo ad interim? Quest’esperimento di democrazia sta fallendo?

Dopo un’impasse di quasi mezz’ora, Carlos è pronto ad annunciare il vincitore anche senza il consenso della lista uno. Puntando l’indice contro Álvaro dice: “Se succede qualcosa, ti riterrò personalmente responsabile”. La minaccia fa vacillare la determinazione di Álvaro, che comincia a tentennare scuotendo la testa, e infine ricomincia a contare le schede della pila che ha davanti. Sotto lo sguardo inferocito della commissione, ne annulla il più possibile. Tutto il resto succede molto in fretta.

Viene preparata la dichiarazione ufficiale, che tutti firmano. Dopo qualche minuto la commissione va in cortile. Salendo in piedi su un tavolo, Carlos annuncia la vittoria della lista due. La folla esplode. Il cortile è pieno di persone, l’atmosfera è quella di un giorno di festa. I membri della commissione hanno concordato di non parlare dei dissapori dello scrutinio, ma le voci hanno già cominciato a circolare. Álvaro, imbarazzato, si è nascosto in un angolo con Avi e Barrios, mentre Pepe sale sul tavolo per ringraziare i suoi sostenitori. Il blocco 7 esulta. “Non vi deluderò”, grida Pepe.

In quell’istante alcuni detenuti dell’edificio accanto tagliano le corde che reggevano l’estremità del telone di protezione del cortile. Lì per lì non ce ne accorgiamo, percepiamo solo un’ombra. Poi, alzando lo sguardo, vedo dei detenuti che guardano verso il cortile sorridendo. È il loro modo per prendere in giro i vicini così democratici. Il telone si posa lento ed elegante, come una mongolfiera che si sgonfia. Il cortile comincia a svuotarsi. Le elezioni sono finite. Il giorno dopo torno nel blocco 7. All’ingresso trovo a fare sorveglianza un nuovo gruppo di detenuti.

La transizione è già cominciata: il delegato alla sicurezza uscente ha riconsegnato le chiavi pochi minuti dopo l’annuncio del risultato. Pepe e i suoi uomini sono nell’ufficio dei delegati a controllare i registri. Ci sono quasi 1.300 dollari di tasse non pagate, i debiti che la lista di Barrios aveva promesso di cancellare accanto a pile di fatture per cibo e materiali da costruzione. Una delle promesse di Pepe è stata di riaprire il bagno al secondo piano, ma nel soffitto è stata scoperta una perdita. Questa spesa non era stata prevista e Pepe comincia già a percepire qualche resistenza al suo piano di austerità. “Dobbiamo parlarne con tutti”, dice. “Non so come faremo a convincerli”. Il nuovo leader del blocco 7 ha l’aria stanca. Ha dormito male.

La notte precedente alcuni detenuti si erano ubriacati e alle cinque del mattino Pepe ha preso il suo primo provvedimento da delegato, espellendo gli ubriachi dal blocco per ventiquattr’ore. Davanti a lui c’è un anno di problemi di questo genere. Torna in cortile, dove sono stati portati i tavoli e le sedie per la giornata delle visite.

Tutti uguali
Un’orchestrina suona per i detenuti e i loro familiari, mentre questi si godono un pasto, una risata, e fanno quattro salti. Più che una prigione sembra un circolo ricreativo in un giorno d’estate. I ristoranti del blocco lavorano come matti, con i rufos nelle vesti di camerieri che sfrecciano da un tavolo all’altro. Un burattinaio si esibisce per i bambini, facendo saltellare le sue creature dagli arti snodati a tempo di musica.

Qualche bambino si sposta verso il castello di tubi da scalare allestito insieme a uno scivolo e a un’altalena in un punto soleggiato accanto all’orchestrina. Qualche bambino se ne sta in disparte a giocare con una trottola, lanciandola sul cemento del cortile per poi chinarsi e farsela salire sul palmo. Ogni volta che l’impresa gli riesce, corre a farsi vedere dal padre e dalla madre, che lo guardano giocare seduti fianco a fianco con le dita delle mani intrecciate. Intravedo Avi seduto a uno dei primi tavoli con due ragazze e un suo amico di nome Tito, anche lui della lista degli sconfitti. Avi mi chiama.

Non ci siamo ancora parlati dall’annuncio del risultato e mentre mi avvicino agita un pugno in aria: “Ho vinto”, grida con un sorriso. Poi mi chiede di pranzare con loro. Il risultato delle elezioni, mi spiega, non lo turba minimamente. In fin dei conti, ora non è lui a doversi occupare dei problemi del blocco.

I debiti non saranno cancellati, o almeno non da lui. Ma guardiamo il lato positivo: “Ora i soldi che volevo spendere posso metterli da parte”. È un motivo sufficiente per festeggiare. Tito, trent’anni, era candidato come delegato allo sport per la lista uno. Aveva già ricoperto l’incarico: tra i suoi compiti ci sarebbe stato quello di organizzare il torneo di calcio del blocco e di aprire e chiudere la palestra.

Anche lui, come Avi, non è turbato dalla sconfitta. Suo fratello era candidato alla stessa carica per la lista di Pepe e Richard. “Hai corso contro tuo fratello?”, gli chiedo, ma a Tito la cosa non sembra affatto strana. Erano solo elezioni, e poi lui, in carcere, ha tutta la famiglia. Suo padre vive nel blocco 7 e sua sorella nel carcere femminile di Lima, dall’altra parte della città. L’orchestrina, formata da un percussionista, un tastierista e un cantante, si cimenta in un frenetico repertorio di salsa locale e cumbia.

Uno spagnolo gira tra i tavoli facendo giochi di prestigio con le carte per i parenti in visita, nella speranza di ricevere qualche mancia. Pur essendo ancora giovane e bello, anche se un po’ cupo, è anche tossicodipendente e, a meno che riesca a tenere sotto controllo il problema, va incontro agli orrori del caso. Lo scacciano da quasi tutti i tavoli e ogni volta china la testa e si allontana senza discutere. Il pranzo, un piatto di riso e pesce, me lo serve un rufo. Ringraziandolo Avi gli mette in mano una moneta e lui si dilegua.

L’orchestrina saluta Tito e i suoi ospiti: in fin dei conti stanno usando la sua batteria e lui ricambia con un applauso caloroso. Un attimo dopo il burattinaio si avvicina al nostro tavolo e fa saltellare qua e là il suo pupazzo, ma quello che vuole sono i resti del mio pranzo.

Non ho molta fame e così glieli lascio. Lui si infila il burattino sotto un braccio e con l’altra mano prende il piatto. Dopo averci ringraziato molte volte, si piazza qualche metro più in là: accovacciato, la schiena appoggiata a un muro, spazzola i rimasugli di cibo in fretta e con le mani. L’orchestrina, intanto, suona Como si nada, un successo locale che parla di una delusione amorosa. E le ragazze sedute al nostro tavolo si mettono a cantare tenendo il tempo con i piedi, nella speranza che Tito o Avi gli chiedano di ballare. Nessuno dei due lo fa. Fissando il burattinaio affamato Tito mi dice che la povertà e le diseguaglianze del blocco lo turbano. Un giorno, prosegue, in una via di Lima, un ex detenuto del blocco 7 ha incrociato un rufo, molti anni dopo che erano usciti di prigione. Tito si rabbuia. È un aneddoto che quelli come lui, i detenuti ricchi del blocco 7, raccontano inorriditi.

Il rufo ricordava tutte le umiliazioni e le angherie subite in carcere, giorno dopo giorno, proprio come quell’uomo che deve mendicare il cibo.

Il rufo ha ucciso l’ex detenuto a sangue freddo. “Terribile”, commenta Tito, ribaltando un vecchio cliché: “Lì fuori siamo tutti uguali”.

Dal lato opposto del tavolo Avi richiama la mia attenzione: “Scusa, Daniel. Devo chiederti un piccolo favore”. “Certo”, gli rispondo.

“Dovresti spedirmi due libri in Israele”. Ha un’espressione serissima. “Giusto un pacchettino. Lo faresti?”.

Il narcotrafficante israeliano mi fissa mantenendo un’espressione dura. L’orchestrina suona, forte e stridente e io non so cosa rispondere. Comincio a balbettare una scusa, ma subito Avi mi interrompe e sorride. “Va bene”, gli dico. “Faccio ridere, eh?”. A quel tavolo, sicuramente sì. Anche Tito e le ragazze ridono. Al piano di sopra, intanto, nell’ufficio dei delegati, Pepe e i suoi lavorano per salvare il blocco dal tracollo economico. Mentre in cortile è in corso una festa. “Ti dico una cosa”, conclude Avi. “Al mondo non esiste un posto come il blocco 7. Questo è un paradiso”.

 

Daniel Alarcón è uno scrittore peruviano che vive negli Stati Uniti. In Italia ha pubblicato Radio città perduta (Einaudi 2009).

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