Un’ora dopo l’esplosione, il Saila, la ring road che separa e unisce allo stesso tempo la Old Medina di Sanaa al resto della città, era un campo arato e silenzioso. Niente traffico, code di auto e taxi, bus pubblici, carretti trainati da asini, strombazzare di clacson e scappamenti di moto truccate. Solo gente attonita, uomini per lo più, nemmeno bambini, che si guardavano da una parte all’altra del ciglio della strada senza fiatare. Strano per dei sanaani. Strano anche per chi di questa città ne ha fatto casa. Mentre ci fissavamo tutti a distanza – io di sguincio, da sotto il niqab, con la telecamera e la macchina fotografica protette dentro la borsa nera – un’ambulanza tagliava la strada a grande velocità. Sul retro del mezzo erano appesi cinque o sei uomini, con kalashnikov d’ordinanza. Gridavano: “Jalla”, “Fate largo”, di fronte al checkpoint. Erano tutti houti, i ribelli sciiti arrivati dal Nord, da Sada, che avevano preso il controllo della città da un mese circa. Il modo di fare, la velocità e l’eccezionalità dei comportamenti dei sanaani quel giorno, mi dissero che si stava per fare la storia. Era il 9 ottobre 2014 ed era solo l’inizio, la prima scintilla della guerra in Yemen.

 

 

La strada verso piazza Tahrir era tutta in salita. In parte per la pendenza, in parte per la tensione che si accumulava risiedendo sui polpacci e dando la spinta al resto del corpo in avanti; di fronte, mi venivano incontro poche persone – uomini, donne, bambini – con la stessa espressione attonita ma senza perplessità. Lo sguardo era offuscato da un’ombra, come quello di chi si sia concentrato su un’eclissi e debba abituarsi all’idea di non guardare più sghembo per salvarsi dalla cecità. Sapevo che avevano visto quel che stavo per vedere. Sapevo che in bocca avevano quel misto di polvere e carne bruciata che gli si sarebbe rappresa dentro impedendo loro di mangiare per una giornata almeno. La loro visione mi preparava psicologicamente ad affrontare la stessa esperienza. Non che fosse la prima volta, a Baghdad mi era già capitato. Ma non ci si abitua mai, anche se devi fare sempre finta di essere un veterano di morte. La strada era ridiventata piana, dopo che una donna mi aveva chiesto dove stessi andando. Da mio marito, avevo risposto. In fondo, non era così falso. Questa era la strada che facevo infinite volte per incontrare lui quando eravamo fidanzati. In un anno di conoscenza, ci eravamo sempre visti in Tahrir. Quando la donna mi chiamò ero appena arrivata dietro l’angolo di venditori di profumi e gioielli per spose, adesso deserto. Da qui in poi, si sarebbe rivelato l’orrore.

Sanaa, Tahrir Square, 9 Ottobre 2014 – resti di oggetti esplosi sul luogo dell’attentato suicida in piazza Tahrir a Sanaa

 

L’ambulanza – l’ennesima – era al centro della carreggiata. Intorno si affollavano uomini urlanti. Intravedevo una portantina: i soccorritori stavano per caricare gli ultimi feriti. Altri si aggiravano con le body bag più in fondo. A loro il compito più pietoso e orrendo di scegliere quali pezzi di braccia, mani e piedi senza padrone depositare nelle sacche argento. Mi sono sempre chiesta quale criterio seguano. Non credo lo facciano a casaccio. Forse seguono una linea di ragionamento simmetrica: se prendi un braccio saltato a destra, la gamba, se è destra, potrebbe essere finita a sinistra. Di certo, prendono in considerazione i brandelli di vestiti ancora distinguibili e cercano di fare degli accoppiamenti. Quel pantalone con quella camicia, quel vestito con quello scialle. Uno strano modo, questo di usare la moda, per rimettere in piedi pezzi di corpo appartenuti a qualche speranza.

 

L’area dell’esplosione, appena fuori e dentro la Bank of Islamic Finance, appariva cosparsa di pece, come se una nave da crociera avesse lasciato la sua bava nera sulla terra anziché sul mare. Il puzzo era insopportabile: il solito fritto misto di frattaglie, carcasse di auto date a fuoco e sanguinaccio di bue vecchio, colato caldo e rappreso. Il solito odore della guerra, senza sconti per le narici che non puoi chiudere nemmeno volendolo. Ci avviciniamo. La surrealtà della situazione vuole che abbia indosso delle ballerine, come la tradizione islamica chiede a una giovane donna e non come la logica del mio lavoro richiede a chi si reca in un posto così. Inizio a calpestare il nero e punto a una serie di scarpe e di sandali che fanno gruppo, isolati nello sporco indistinguibile.

 

Sanaa, Tahrir Square, 9 Ottobre 2014 – sandali delle vittime sparsi sul luogo dell’attentato suicida in piazza Takrir a Sanaa

 

Soli e spaiati, ecco i resti di questa carneficina da 48 morti e 150 feriti: sandali e scarpe allacciati da vite diverse ma tutte abbastanza uguali nell’indigenza e nella speranza, sotto il cielo della città più vecchia del mondo, solcato da droni ed F16, nel Paese che pareva avere scampato un disastro, dopo la rivoluzione araba più pacifica del Medio Oriente qui, in piazza Tahrir, e invece ha poi trovato una guerra peggiore ad attenderlo.

 

Faccio una serie di foto e interviste video, cercando di non dilungarmi più di dieci minuti, in caso di un secondo attacco; poi salto su un mezzo per raggiungere uno degli ospedali che accolgono i feriti. Nell’Askari Hospital, il centro più attrezzato per interventi straordinari di primo soccorso, il dottore Abdullatif Abu Thalib fa sapere che, se continua così, il sangue per le trasfusioni non basterà. Mostra uomini in rianimazione, conta le ore che li separano dalla morte. Mi mostra le piccole sfere di piombo che si conficcano nei tessuti ossei e negli organi vitali per generare lesioni più gravi e che lui ha estratto da alcuni corpi: sembrano bacche cadute da fiori d’acciaio ma non sono pensieri gentili. L’attentatore li portava nella carica esplosiva come regalo per chiunque gli fosse capitato sotto tiro. Uno di questi, un giovane riccioluto spiaggiato sulla lettiga d’ospedale senza forza apparente, ne farà le spese per tutta la vita. Il dottore scuote la testa: “Ha una lesione definitiva alla spina dorsale. Non so come troverò il coraggio di dirgli che non camminerà mai più. Non glielo dica”. Lo guardo mentre apre gli occhi, pare avere sentito. Mi guarda ma non mi dice niente. Io non gli dico niente. A volte, il gelo salva le lacrime in eccesso.

 

Sanaa, Yemen – Quel che rimane dell’ingresso della Islamic Bank in piazza Tahrir dopo l’attacco suicida del 9 ottobre 2014

 

Questa è la cronaca personale e post-datata di quel giorno a Sanaa, lo scorso 9 ottobre 2014, quando l’attentatore suicida si fece esplodere all’interno della banca, portando per mano due bambini, prima di un sit-in organizzato dai ribelli sciiti che sarebbe dovuto avvenire proprio lì, lì dove tutto ebbe inizio: l’instabilità delle istituzioni fino alla loro inesistenza, le vendette settarie tra tribù e famiglie, l’indebolimento economico del Paese e la caduta libera della moneta, l’incremento del prezzo del gasolio, l’abbassamento della capacità di acquisto e del salari, la schizofrenia dei suoi ex presidenti, le defezioni nell’esercito, la corruzione, la corsa alle armi, la pressione di Iran e Stati Uniti.

 

Oggi, con più di 2mila morti, 7mila feriti, 545mila dispersi e 16milioni di persone senza accesso all’acqua potabile, bombardamenti a pioggia, infrastrutture completamente distrutte, guerra civile al Sud, questo è il conflitto regionale più sanguinoso del Medio Oriente, dopo la storia infinita della Siria. È un altro buco nero che si apre come una voragine nella coscienza dei media e che grida vendetta. Come questa piazza Tahrir lorda di sangue sotto le mie scarpe, che vivacchia sopra le ceneri fumanti della rivoluzione tradita. E pensare che la chiamavano primavera.

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