“Disse che aveva visto donne morte e bambine morte. Un deserto. Un’oasi. […] Una città. Disse che nella città ammazzavano bambine. […] È Santa Teresa! È Santa Teresa! Lo vedo bello chiaro. Là ammazzano le donne. Ammazzano le mie figlie. Le mie figlie! Le mie figlie! […] La polizia non fa nulla, disse dopo qualche secondo, con un altro tono di voce, molto più grave e maschile, quei poliziotti di merda non fanno nulla, stanno a guardare, ma cosa guardano?, cosa guardano?”.

Lo scrittore, il vero scrittore, è colui che è in grado di fare arte nel proprio tempo, nel senso di ottenere che la verità risieda nella finzione. Varcare il confine tra verità e sogno investe la letteratura di un certo alone di sacralità, che alla realtà manca. Roberto Bolaño, oltre al talento, alla pazienza artigiana necessaria al «rigore stilistico fortissimo» e una costruzione narrativa impeccabile, possiede anche questa capacità di superamento. Ciò rende estremamente complesso, anzi doloroso, per il recensore, affrontare l’opera in primo piano, dedicare battute a personaggi e universi che nella loro veridicità rimangono fantasia, lasciando sullo sfondo, sfiorando con una frase, la realtà. La realtà di una Santa Teresa che è Ciudad Juarez, la città più pericolosa del mondo, regno del narcotraffico, famosa per migliaia di sparizioni e centinaia di omicidi di giovani donne (che il governo non riconosce come femminicidi). “2666” tocca un arco temporale che va dal ’93 al ’97 (“Nel gennaio del 1993. Fu a partire da quella vittima che si cominciarono a contare le donne assassinate”), ma le croci rosa continuarono ad aumentare dopo quella data, la catena degli omicidi, delle morti effettive, non si è mai chiusa.

La quarta parte di “2666”, La parte dei delitti, è il resoconto cronachistico di decine e decine di ritrovamenti di cadaveri di giovani donne, con le relative autopsie. Rivelano tutte violenza sessuale, morte per strangolamento con rottura dell’osso ioide, alcune anche tortura e mutilazioni. Queste caratteristiche non sono frutto di una operazione di fantasia dell’autore, ma gli aspetti ricorrenti delle morti rinvenute nell’arco di questi anni. L’insistenza sui delitti, le minuziose descrizioni dei corpi, provocano nel lettore un senso di repulsione verso l’opera. Ma l’autore ripropone fino allo sfinimento l’orrore, proprio col fine di restituire su carta quella che per lo stato del Chihuahua è una piaga sociale.

Le donne che spariscono sono spesso dipendenti delle maquiladoras, aziende nelle quali la manodopera è quasi totalmente femminile e dove il lavoro minorile non è cosa rara. Altre sono prostitute, turiste, bambine rapite all’uscita di scuola, brutalmente violentate e torturate, poi gettate in discariche abusive, sciolte nell’acido, abbandonate sul ciglio della strada. La polizia non riesce a fare nulla, non vuole fare nulla, probabilmente è coinvolta. La durata delle indagini non supera le quarantotto ore e i casi restano tutti insoluti.

A molti dei delitti passati in rassegna è collegata una Peregrino nera coi vetri fumé. Auto che già abbiamo incontrato nei romanzi precedenti, continua a essere allegoria del male. Basterebbe, per la polizia, indagare su quanti ne possiedano ma, facendolo, “i poliziotti avevano infastidito dei pesci grossi perché quasi tutte le Peregrino di Santa Teresa appartenevano a figli di papà […], e i pesci grossi avevano parlato con le autorità competenti in modo che gli sbirri smettessero di rompere i coglioni”.

La parte dei delitti, però, non è solo un lungo elenco di vittime. Moltissime sono le storie e i personaggi raccontati che fanno da cornice al tema principale. Addirittura si potrebbe pensare che siano i delitti, in realtà, a fare ancora una volta da sfondo alle numerosissime vicissitudini presentate. L’autore ci proietta nella vita di ogni personaggio, anche il più marginale, frammentandola e ricostruendola parallelamente a tutte le altre. In questo modo si assicura l’attenzione del lettore e un elevato livello della suspense per tutte e mille le pagine. La frase di apertura, per esempio, è di una veggente, Florita Almada, attraverso la quale vengono toccati i temi dell’esoterismo, della povertà, i cambiamenti sociali, le radici del Messico, l’educazione, la letteratura, addirittura viene riportato per svariate pagine il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” di Giacomo Leopardi. Dico questo per rendere l’idea della profondità e ricchezza tematica dell’opera.

Molti dei personaggi sono poliziotti, il che consente a Bolaño di trattare i motivi della vigente impunità, la corruzione nelle istituzioni, il rapporto tra polizia e narcotraffico (Pedro Negrete, capo della polizia e fratello del rettore dell’università, è vicino al narcotrafficante Pedro Rengifo), del reclutamento di bambini poveri da parte dei narcos: “In quei giorni Pedro Negrete andò a Villaviciosa per cercare un uomo di fiducia al suo amico Pedro Rengifo. Vide vari giovani. Li studiò, fece loro alcune domande. Chiese se sapevano sparare. Chiese se poteva fidarsi di loro. Chiese se volevano guadagnare dei soldi. Era parecchio tempo che non passava da Villaviciosa ma il paese gli parve uguale all’ultima volta. Case basse, di adobe, con piccoli cortili sul davanti. Solo due bar e un negozio di alimentari”.

Il ragazzino che Negrete sceglie è Olegario Cura Expósito, che gli amici chiamano Lalo Cura (La pazzia). Il ragazzo diventa una delle guardie del corpo della moglie di Rengifo. Quando, mesi dopo, rischia la vita in una sparatoria contro due uomini assoldati per ucciderla (uno dei quali era un poliziotto della giudiziaria), Negrete lo fa entrare nella polizia. Ben presto lo vedremo indagare da solo sugli omicidi perché Lalo, come scopriremo, è l’erede della storica brutalità del Messico. Una voce (quella Voce di Amalfitano?) ci racconterà di una violenza contro le donne perpetrata per generazioni.

Juan de Dios Martínez è un poliziotto della giudiziaria. La sua è una storia di impegno, amore, solitudine e paura. Tutto inizia con il “Penitente Indemoniato”. Nel mese di maggio del ’93 non ci furono omicidi di donne, ma ci fu il caso di un profanatore di chiese. Iniziò urinando tra i banchi, poi passò alla distruzione delle rappresentazioni sacre, infine all’omicidio. Attraverso la storia del Penitente, Bolaño tocca il tema della follia, della paura e, ancora una volta, del manicomio. Juan de Dios Martínez, infatti, prova a capire se il profanatore possa essere uno degli internati che lasciano uscire, così interroga la direttrice del manicomio, Elvira Campos, con la quale non tarderà a concretizzarsi una storia d’amore. Sarà lei a spiegare a Martínez che l’uomo che stanno cercando soffre di agiofobia, la paura dei santi e delle immagini sacre. Il dialogo in questione è una importante digressione sulle più svariate fobie dell’essere umano. È un passaggio fondamentale per la comprensione di “2666” perché offre la chiave di lettura di quanto succede a Santa Teresa:

E la ginofobia, che è la paura delle donne e affligge, naturalmente, solo gli uomini. Diffusissima in Messico, anche se mascherata nelle maniere più diverse. Non è un po’ esagerato? Niente affatto: quasi tutti i messicani hanno paura delle donne. Non saprei che dirle, disse Juan de Dios Martínez. […] Alcuni messicani soffrono di ginofobia, disse Juan de Dios Martínez, ma non tutti, non sia allarmista. Cosa crede che sia la optofobia?, disse la direttrice. Opto, opto, qualcosa legato agli occhi, accidenti, paura degli occhi? Ancora peggio: paura di aprire gli occhi. In senso figurato, è la risposta a quanto mi ha appena detto sulla ginofobia”.

Seppure tantissimi elementi, due o tre uomini a bordo di una Peregrino, il modus operandi, le caratteristiche fisiche delle vittime, inducano a pensare che gli omicidi siano opera di uno o più serial killer, molti dei delitti sono imputabili a fidanzati, compagni, mariti, ormai volatilizzatisi nel deserto. Quello che Bolaño espone è il maschilismo radicato in ogni estrazione sociale della società messicana, che considera la donna meno di un oggetto. Sono raccapriccianti, per esempio, le barzellette raccontate dai poliziotti, coloro i quali dovrebbero indagare gli efferati omicidi commessi: “perché la Statua della Libertà è donna? Perché per metterci il belvedere avevano bisogno di qualcuno con la testa vuota. E un’altra ancora: in quante parti è diviso il cervello di una donna? Be’, dipende belli! Da cosa dipende, González? Dipende da quanto la picchi duro. […] cosa ci fa una donna fuori dalla cucina? Aspetta che si asciughi il pavimento. E una variante: cosa ci fa un neurone nel cervello di una donna? Be’, turismo”. “[…] cosa bisogna fare per ampliare ancora di più la libertà di una donna? Be’, attaccare al ferro da stiro una prolunga.  […] E quanto ci mette una donna a morire per un colpo in testa? Be’, sette o otto ore, dipende da quanto ci mette la pallottola a trovare il cervello. […] E se qualcuno rimprovera a González di raccontare troppe barzellette maschiliste, González rispondeva che era più maschilista Dio, che ci aveva fatto superiori”. Questo è solo un assaggio per capire quale importanza la polizia, e gran parte della popolazione, dia a quanto succede. Un’altra vicenda può rendere meglio l’idea. Una prostituta viene uccisa e, a causa di una precedente lite, alcune compagne vengono sospettate, senza la benché minima prova. I poliziotti organizzano “una festa” nelle celle in commissariato, procedendo allo stupro di gruppo delle donne, poco tempo dopo rilasciate per assenza di prove (erano innocenti).

“In quei giorni « La Razón », un giornale della capitale, inviò Sergio González a fare un reportage sul Penitente”. Questo personaggio probabilmente rappresenta Sergio González Rodríguez, giornalista messicano che si è spesso occupato, nella sua carriera, degli omicidi di Ciudad Juárez. In Italia, sul tema, Adelphi pubblica Ossa nel deserto. Il giornalista intervista vari parroci della città, uno dei quali non dà peso alla storia del Penitente, anzi gli suggerisce “di aprire bene gli occhi, perché il profanatore di chiese e ora assassino non era, a suo giudizio, la piaga peggiore di Santa Teresa”. Accanto agli omicidi di donne, il libro tocca altre tristi realtà: “Il prete parlò e parlò per un pezzo mentre spazzava: del flusso continuo di immigrati centroamericani, delle centinaia di messicani che arrivavano ogni giorno per cercare lavoro nelle maquiladoras o per tentare di passare il confine con gli Stati Uniti, del traffico dei polleros e dei coyotes, degli stipendi da fame che pagavano nelle fabbriche e di come quegli stipendi, tuttavia, fossero molto ambìti dai disperati che arrivavano dal Querétaro o dallo Zacatecas o dall’Oaxaca, cristiani disperati, disse il prete, che viaggiavano in modi inverosimili, a volte da soli e a volte con la famiglia dietro, fino a raggiungere la frontiera e solo allora riposarsi o piangere o pregare o ubriacarsi o drogarsi o ballare fino a cadere a terra esausti”. Altrove, parlando di un villaggio: “[…] non era un vero e proprio villaggio e nemmeno un quartiere di Santa Teresa ma piuttosto un rifugio per i più miserabili fra i miserabili che arrivavano ogni giorno dal sud del paese e passavano lì le loro notti e morivano persino, in casupole che non consideravano le loro case ma solo l’ennesima sosta lungo la strada verso qualcosa che fosse diverso o che almeno desse loro da mangiare”.

L’incastro definitivo con i romanzi precedenti avviene quando la polizia ferma un sospettato, Klaus Haas. Le descrizioni che se ne fanno richiamano quelle dello scrittore Benno von Arcimboldi de La parte dei critici, così da indurre il lettore a pensare di aver chiuso il cerchio, aspettandone la conferma ne La parte di Arcimboldi. Sebbene le prove a suo carico scarseggino, Haas viene arrestato e la polizia tenta di addossargli la totalità degli omicidi commessi. Viene descritto come “un tipo instancabile che faceva sudare e spazientire quelli che erano chiusi nella sala insonorizzata, quelli che gli giuravano amicizia o simpatia e gli dicevano parla, sfogati, in Messico non c’è la pena di morte, tira fuori questa roba che ti sta ammazzando, e poi lo picchiavano e lo insultavano. Ma Haas era instancabile e sembrava uscire dalla realtà (o tentava di far uscire dalla realtà gli agenti della giudiziaria) con frasi inaspettate e domande incoerenti”. Già ne La parte di Fate il volto di Haas era stato descritto come un quello di un “sognatore, ma di un sognatore che sogna a grande velocità”. In carcere spaventa gli altri detenuti con la storia di un gigante (era già anticipata ne La parte di Fate). Gli si chiese “se il gigante era lui stesso e stavolta sì che Haas si mise a ridere. Io? Lei non ha proprio idea, sputò fuori. Vada a farsi fottere, brutto figlio di puttana”. Dietro le sbarre ottiene l’appoggio del narcotrafficante Enriquito Hernández e per questo riesce a organizzare varie conferenze-stampa: “Avvertì i giornalisti che sarebbero successe «cose» a Santa Teresa che avrebbero dimostrato che lui non era l’assassino delle donne. In carcere, insinuò, uno veniva in possesso di molte informazioni. Fra i giornalisti arrivati da Città del Messico c’era Sergio González”. Le “cose” cui Haas allude sono i nuovi omicidi che avvengono sebbene lui sia in carcere, ritenendo possano essere la dimostrazione empirica della sua innocenza. Ormai l’istituzione ha, però, trovato il capro espiatorio e si tutela dichiarando che: “Tutto quello che accadrà d’ora in poi rientrerà fra i crimini normali, propri di una città in costante crescita e sviluppo. È finita con gli psicopatici”.

Vorrei, infine, porre l’attenzione su alcune tematiche. Precedentemente ho parlato della ricorrenza e profondità delle metafore. Già nel monologo di Barry Seaman, l’ex Black Panter de La parte di Fate, il mare rappresentava il pericolo: “Vivere in questo deserto, […], è come vivere in mezzo al mare. Il confine tra il Sonora e l’Arizona è un gruppo di isole spettrali o incantate. Le città e i paesi sono barche. Il deserto è un mare interminabile. Questo è un buon posto per i pesci, soprattutto per i pesci che vivono nelle fosse più profonde, non per gli uomini”.

Ho già posto più volte l’accento sulla ricorrenza del tema del sogno, dell’incubo. La parte dei delitti è forse il romanzo in cui il confine tra sogno e realtà appare più labile. Basti vedere come Haas descrive la trasmissione delle notizie in carcere: “È come un rumore che qualcuno sente in sogno. Il sogno, come tutti i sogni che si sognano in spazi chiusi, è contagioso. Una notte lo sogna uno e dopo un po’ lo sognano metà dei detenuti. Però il rumore che qualcuno ha sentito non fa parte del sogno ma della realtà”.

Interessante, poi, una riflessione che Sergio González compie intervistando la responsabile del Dipartimento per i Reati Sessuali di Santa Teresa, una donna formale, “anche se dietro la sua formalità si intravedeva il desiderio di essere felice, il desiderio di una festa continua. Ma che cos’è una festa continua?, si chiese Sergio González. Forse quello che differenzia certe persone dal resto di noi, che viviamo nella tristezza quotidiana. Voglia di vivere, voglia di lottare, come diceva suo padre, ma lottare con cosa, con l’inevitabile? Lottare contro chi? E per ottenere cosa? Più tempo, una certezza, un barlume su qualcosa di essenziale? Come se ci fosse qualcosa di essenziale in questo paese di merda, in questo mondo di merda rotto in culo”.


Lottare con l’inevitabile? Sappiamo, l’ho ripetuto anche troppo spesso, che l’obiettivo del libro è scandagliare il male. Capire cosa sia e dove risieda. Che sia un qualcosa di “Umano, troppo umano”, l’opera lo rende a più riprese.
È impossibile trasmettere appieno la grandezza di “2666” e di questa parte soprattutto. La parte dei delitti è il punto (infinito) attorno al quale gravitano i restanti quattro romanzi, è l’orrore di quanto possa produrre l’essere umano. Gli istinti, la violenza, l’assassinio, qualcosa che non deve farci rabbrividire di ipocrisia. Il male è nostro, lo possediamo, lo abbiamo creato, nominandolo.

[…] ascoltarono attenti e concentrati, come bambini che sentono per l’ennesima volta lo stesso racconto che li atterrisce e paralizza, annuendo seri, complici dello stesso segreto”.

Rocco Cannarsa

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