Era un giorno di quasi primavera. El Zanass indossava la dorsale settantasette per la prima corsa del dopoguerra. Correva l’anno 1946. C’era tanta gente a respirare la vita sulle strade dissestate e ferite della Milano-Sanremo. Il ponte sullo Scrivia bombardato non esisteva più. Le assi di legno, assemblate come una passerella, restituivano una funzionalità tutt’altro che rassicurante. Cielo terso, l’acqua alle caviglie. Guadarono il fiume spingendo la bicicletta a piedi.

Renzo Zanazzi, classe 1924, amava la spicciola, perché è giusto partire tutti insieme dalla stessa linea, non come nella vita. I figli dei ricchi davanti, i figli dei poveri dietro. Questa è la nostra falsa partenza, alla quale spesso non si rimedia neanche con una fuga generosa. Tre fratelli, tutti corridori, figli di un contadino, poi emigrato a Milano a fare la guardia giurata. In una cronaca fumosa di una tappa del Giro, Indro Montanelli sbagliò due volte il luogo di nascita di questo gregario di lusso. Zanazzi invece era preciso. Anarchico, ribelle, allegro. Celso era il primo nome registrato all’anagrafe. Nato in casa, nella corte Valle del fitto, località Campitello, comune di Marcaria, provincia di Mantova. Dunque mantovano di nascita, milanese d’adozione. La Milano che progettava, fabbricava e animava la cultura delle due ruote. La Milano dello sciur Vigorelli e della pista, da troppi anni segnata dall’incuria, che nel suo nome è culla di record e storie novecentesche.

Al Vigorelli Zanazzi ci andava fin da bambino. Lassù fra la rete e i cartelloni pubblicitari, dove la pista sembrava precipitare giù da un muro, studiava l’equilibrio degli idoli. Su Milano piovevano le bombe, ma nel novembre 1942 al Vigorelli, ideato dall’architetto tedesco Schumann, c’era Coppi con la sua Legnano, un gioiello del meccanico e telaista Ugo Bianchi, ad attaccare il record dell’ora, che batté: 45,798 chilometri. Trentuno metri in più di quelli percorsi cinque anni prima, sulla stessa pista, dal francese Archambaud. Lo sguardo del campionissimo restò quello malinconico di sempre, ma alla gente aveva regalato una tregua, che è lo spazio della felicità.

Zanazzi ha preso il diploma della strada, perché le gambe giravano forte e l’hanno aiutato a comprendere il mondo. Una questione di talento. Da adolescente ha scoperto la bicicletta, o qualcosa di molto pesante che aveva quella sembianza, da garzone per un fornaio. Trenta lire al mese, la prima paga da fame. A pedalare percepì quel fresco profumo della libertà. Come alla fine dei propri giorni, ceneri al vento, libero come se fossi in bici. Una maglia di lana con i buchi per l’aerazione, le braghe con fondello in pelle di daino per salvare i gioielli di famiglia, le scarpe con un rinforzo in ferro che quando piove si trasforma in una lama e il piede sanguina, una camera d’aria rattoppata.

S’iscrisse al Dopolavoro Corsico, poi al Gruppo sportivo Spallanzani. Debuttò alla Milano-Varese del 1939: centoventi chilometri di corsa, altrettanti per andare e tornare a casa. Spiccò fra gli allievi. In pianura andava forte, in salita non si staccava e in volata era da rispettare. Uno stradista che ben figurava anche sulla pista. Un giorno diverso dagli altri Fausto Coppi gli prestò per una riunione la propria maglia iridata. Con quella addosso in pista si volava. I campioni li riconosci dalla leggerezza della pedalata. Zanazzi lo riconoscevi dalla passione smisurata, dalle borracce trasportate e dalle poche, ma significative, vittorie, che trasmettono la gioia propria dell’insubordinazione.

Lui andava a pane e acqua. Dice di aver provato la simpamina una volta: «Ma dopo cinquanta chilometri invece della carica mi ha fatto venire i crampi. Si vede che il mio sistema nervoso non la tollera. Alla fine del 1952 mi ritiro. Oltre alle pillole iniziano a vedersi anche le iniezioni. Io, che se solo vedo una siringa svengo, non sono adatto».

C’è chi sostiene che per raccontare una storia sia necessaria una sorta di giusta distanza da essa. Marco Pastonesi in Diavolo di un corridore (Italica edizioni, 252 pagine, 15 euro) dona la misura di quanto possa essere prezioso un legame d’amicizia. Accoglie fra le pagine la forza dell’oralità di una vicenda, narrata in prima persona, che è un racconto corale di un’Italia sparita. L’autore non tradisce la propria ammirazione per la figura epica del gregario. Anche quando si è occupato di un fuoriclasse, Marco Pantani, Pastonesi è andato ad ascoltare le voci dei gregari del pirata, come il coro delle tragedie greche. Zanazzi appare un cantastorie che vorremo avere sempre al nostro fianco, quasi a infonderci coraggio.

El Zanass la guerra, che gli è toccata in sorte, l’ha combattuta dalla parte della resistenza all’oppressore. Tesserino finale numero 3590 del CLN rilasciato al patriota Zanazzi Renzo, corpo volontari della libertà, guardia partigiana. La Presidenza del Consiglio dei ministri e la Commissione riconoscimento qualifiche partigiane certificarono il grado di capo squadra dal primo maggio 1944 al trenta settembre ’44 e comandante distaccamento fino al trenta aprile 1945. Raul, il nome di battaglia.

Dopo l’otto settembre lo disse al tenente Gatti, che per non fargli smarrire la sensazione della gamba gli prestava la sua Wolsit, una sottomarca della Legnano: «Con i tedeschi e i fascisti mai». Lo chiamavano disertore. Era un combattente, che in clandestinità prese le armi. La bicicletta restò una compagna fedele: «Un’altra volta mi fanno: “Tu che vai in bicicletta, c’è un comunicato da portare a Moscatelli”, e Moscatelli è un capo comunista, nascosto in Val d’Ossola. Per me fare cento o centocinquanta chilometri è uno scherzo. Ricevo una lettera, chiusa sigillata, l’arrotolo e la inserisco nel canotto della sella, e sulla mia bici da corsa, vestito da corsa, con del pane – c’è solo quello – in tasca, non ricordo neanche se ho la borraccia, prendo e vado. A un certo punto incontro un posto di blocco dei tedeschi: mostro i documenti, lì ho ancora quelli falsi, mi chiedono che faccio, rispondo che vado ad allenarmi, e mi fanno passare». In quegli anni riuscì a correre e vincere una gara importante fra i dilettanti, la Targa d’oro di Legnano. Anche il ciclismo resiste. La giovinezza non sfiorì fra i boschi, ma sulla collinetta di Sant’Alosio, al funerale di Coppi, nella grigia mattinata del 4 gennaio 1960. «Qualche volta lo avremmo anche battuto Fausto. Ma mai più ripreso».

Le memorie asciutte affidate nel tempo da Zanazzi, scomparso il 28 gennaio 2014, a Pastonesi raffigurano un’epoca pionieristica piena di vita e costruiscono una galleria straordinaria di uomini, che hanno scritto la storia popolare del Paese e di una disciplina povera non nell’umanità. Qui non si celebrano né santi, né eroi. Giovannino Corrieri, siciliano di Toscana, era per Gino Bartali il gregario ideale. Sette anni insieme, fino a diventarne l’ombra. Poi però un giorno Giovannino a Renzo confessò che lui, in fondo al cuore, era sempre stato un coppiano.

L’airone aveva due angeli custodi, ai quali affidare, per quel che è possibile, ciò che definiamo segreti. Ettore Milano, oltre al fratello Serse, era l’unico in grado di penetrare nei sentimenti, nelle paure e nelle emozioni del capitano. Sandrino Carrea dalla prigionia di Buchenwald tornò con quaranta chilogrammi in meno, e chissà quale peso sull’anima. Al Tour de France del 1952 indossò il colore giallo, ma «è così gregario che quasi si vergogna di avere sottratto, anche per un solo giorno, la gloria al suo capitano che l’indomani se ne impadronisce sull’Alpe d’Huez». Sandrino riposa nel cimitero di Cassano Spinola, coerente col suo destino, al fianco di un altro campione, Costante Girardengo.

Il talento senza testa di Meo Venturelli colpisce per come scelga di splendere solo nelle proprie giornate di sole. Sconfisse Rik Van Looy in volata, Anquetil a cronometro, Charly Gaul in salita, ma il nuovo Coppi, per sua stessa ammissione, non fu altro che una meteora. Non sapevi dove andare a trovarlo la notte, dopo aver conquistato la maglia rosa. La mattina non si reggeva in piedi. Beccato in flagrante dalla moglie si difese. Disse che l’aveva fatto per l’albergo: «Se le clienti si trovano bene, poi tornano». Luigi Casola, velocista di rango, euforico per un secondo posto al Giro di Lombardia del 1946, tornò a Busto Arsizio e si mise a lanciare dal balcone ai compaesani i bigliettoni guadagnati. Ci pensarono i genitori a correre per recuperarli.

Luigi Malabrocca, il Luisin, non è che andasse piano, ma sfumava dentro alle osterie. Non poteva vincere, allora voleva l’ultimo posto, la maglia nera per sconfiggere la miseria. Ci sono l’Alfonsina, prima e unica donna ad aver mai corso il Giro d’Italia ed Ernesto Colnago, un artigiano artista della bici, inventore nella sua bottega, officina, negozio, in via Garibaldi 10, a Cambiago. Hugo Koblet, il primo non italiano a vincere il Giro, era elegante su e giù dai pedali. Uomo affascinante che anche in corsa teneva un pettine in tasca e non si dimenticava dei gregari: «Grazie Renzo, senza di te avrei perso la maglia e il Giro». In fondo senza il gregario il capitano non sarebbe tale, una faccenda antica quanto il mondo.

Al Tour del 1951 il commissario tecnico Alfredo Binda schierò Coppi, Bartali e Magni. Il quarto moschettiere era Renzo Zanazzi, che imparò a scrutare e decifrare il territorio delle loro espressioni, delle loro facce. Negli anni Venti Eberardo Pavesi, l’Avocatt, dopo essere sceso dalla bicicletta s’era messo a fare il fornaio. Poi la chiamata dalla Bianchi in qualità di direttore sportivo, successivamente quella della Legnano. Lui investì su un giovane corridore toscano, probabilmente il più forte scalatore di sempre, secondo Zanazzi: «Bartali lo scalatore più forte, Coppi il più completo, Magni il più intelligente». Con Bartali Pavesi vinse il Giro del 1936, del ’37 e il Tour del ’38.

L’Avocatt prende poi un altro ragazzo, un piemontese con i numeri. Coppi è meglio averlo con noi, provò così a convincere il Gino. Al Giro del 1940 Bartali iniziò da capitano, per poi cedere sulla strada i gradi al rivale, compagno di squadra, che ventenne diventò il più giovane vincitore della corsa in rosa. Bartali non ne voleva sapere di avere gregari giovani, e dunque senza esperienza, con qualche ambizione da coltivare. Voleva i signor sì. Pavesi, almeno per un biennio, gli fece cambiare idea con i fratelli Zanazzi.

«Due anni alla Legnano sono il più grande errore della mia vita, perché sogno la libertà e vivo in prigionia. «Stammi vicino» mi dice Bartali, «solo tu mi puoi aiutare». E quando mi dà la libertà, vinco», racconta Renzo. Poche storie, doveva sempre stare al servizio del capitano: «Da gregario lavorare per lui è un inferno: all’inizio di ogni tappa fatica a carburare, scivola in fondo al gruppo, ci vuole una santa pazienza e una inesauribile energia per andare a prenderlo e riportarlo davanti, finché finalmente ingrana». Il Giro del 1946 Zanazzi glielo salvò, risolvendo una foratura pericolosa: «Strappo con i denti la sua gomma, strappo con i denti la mia, la monto sulla sua ruota, gli do una spinta e via». Per Bartali occorreva assaltare con rapidità le ghiacciaie delle osterie e dei bar, che conservavano l’acqua fresca. La religione della borraccia, più democratica di una coppa.

Ma chi era Bartali, mito della Nazione, padre della patria? «La verità è che Bartali è un naso schiacciato da pugile e una voce roca da fumatore; è una ragnatela di rughe e un corpo, oggi si direbbe di carbonio; è un corridore sulle montagne, l’unico che riesca a vedere orizzontale anche ciò che è verticale. È un gigante in salita. Si alza sui pedali e si siede, si rialza, se lo segui ti ammazzi. In certe fotografie sembra un Cristo in croce. È religioso, cattolico, vicino al Vaticano. Durante le giornate di riposo bussava in stanza per essere accompagnato alla messa. Era troppo di manica stretta con noi gregari».

Gino sosteneva di avere due amici a Milano, uno dei quali Zanazzi. Amici per un amore in comune, il ciclismo. «Così con Bartali ci si vede, anche dopo, ogni tanto, ma sempre. Un giorno lo incontro alla Mostra del ciclo e del motociclo, a Milano. C’è il poster dello scambio della borraccia con Coppi. E, a tutti, Bartali dice che la borraccia l’ha data lui a Coppi. Aspetto che vada via la gente e poi gli dico che è Coppi che gliel’ha data. E glielo spiego: “Se io, davanti, cerco l’acqua, guardo indietro, ma Coppi non sta guardando, perché sei tu che la vai a prendere”. E lo minaccio: “Non dire bugie, ché vai all’inferno”. E allora Bartali si mette a ridere». A Milano l’anima degli Zanazzi la si tocca nella Bottega in via Solari, civico 40, dove s’impone uno scatto che ritrae Renzo e i Coppi. Nel 1949 la Società ciclistica Fratelli Zanazzi contava il maggior numero di agonisti milanesi.

Coppi era un altro pianeta. Classe, eleganza e leggerezza inarrivabili. Renzo lo ricorda così: «Quel modo di accarezzare i pedali come petali, quel modo di volare come se avesse le ali. È all’avanguardia sugli allenamenti: lavori e distanza, i ritiri d’inverno in riviera. Sull’alimentazione: il primo a introdurre passati di verdure. E sulla farmacia. Una volta siamo nello stesso albergo, la sera busso alla porta, mi dicono di entrare, entro: su un letto c’è il Fausto, sull’altro il Serse, e in mezzo, sul comodino, un piatto con una ventina di pillole di tutti i colori. “Renzo – mi fa Serse – stiamo studiando quale colore prendere domani”». Serse, che strinse una forte amicizia con Zanazzi, lui così diverso dal fratello campione, era l’unico in grado di farlo sorridere. «Io non so dire se Coppi sia per natura triste o infelice, forse è soltanto malinconico. È leggero, alato, lo chiamano l’Airone». Renzo è tornato spesso a Castellania a rendere omaggio ai due amici, a due fratelli.

All’ultima curva, all’ultima stagione, nel 1952 alla Ganna, l’incontro con il Leone delle Fiandre, Fiorenzo Magni. Un campione monastico, metodico, le cui uniche trasgressioni, a memoria di Zanazzi, erano il pane toscano di Altopascio e il bagno caldo con sale e aceto, alla maniera di Girardengo. «Il tipo che non si arrende mai, neanche quando cade, neanche quando quei due volano». E ci strappa un sorriso, rievocando la “società della spinta”, una seggiovia umana di muratori, che al Giro del ’48 sospinse Magni in vetta. Scontò una penalizzazione. Fra i ciclisti di oggi gli piaceva il sardo Aru: «L’ho visto subito che ha una voglia matta. E…». Un pezzo della Vuelta è anche per lei, sciur Renzo.

Nella corsa più importante Zanazzi il dubbio e poi la sconfitta negli occhi dell’avversario li ha visti tre volte. Tre tappe al Giro d’Italia tra il giugno 1946 e il maggio 1947. Una vittoria inattesa, la Milano-Torino del 1947 gli valse la maglia rosa. Bartali gli aveva chiesto di ricucire una fuga, lui li riprese e poi li staccò a otto chilometri dall’epilogo. Anche alla Perugia-Firenze del ’46 i tre toscani della Legnano (Bartali, Bini e Ricci), volevano che lavorasse per un successo di campanile, da festeggiare in casa. Obbedì, ma tirando a testa bassa si congedò dalla compagnia.

«Zanazzi solo al traguardo di Torino», titolò il giornale. Solo l’indomani gli fecero vestire la maglia del leader, consegnata da un operaio della Gazzetta dello Sport, e la tenne per tre giornate. Un dettaglio per un uomo tenace e paziente per forza di cose, che ha saputo osservare l’arte dell’attesa: «Caro Renzo complimenti per la vittoria di Torino e per quella di Firenze – leggiamo nel telegramma del patron Mario Della Torre, giunto in gara al Pavesi – ma adesso devi correre solo per Bartali».

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