“Eterni viandanti sono i giorni e i mesi, e gli anni, che vanno e vengono. Chi trascorre una vita fluttuante su una barca e chi accoglie la vecchiaia con in mano la briglia di un cavallo fa del viaggiare la sua dimora”, ha scritto Matsuo Bashō, poeta e viaggiatore giapponese, instancabile maestro di haikai, percorrendo a piedi il sentiero del nord, verso l’allora remota regione dell’Oku.
Immaginate nei luoghi più improbabili – sotto la neve di un inverno trascorso a Tabriz, in un letto infestato d’insetti a Galle, dentro la boutique di un barbiere di Kyoto, tra le sabbie del Taklamakan, deserto d’Asia il cui nome vuol dire: “non ne uscirai vivo” – le poesie di Nicolas Bouvier, scrittore, viaggiatore e fotografo svizzero scomparso quindici anni fa, devono molto alla tradizione giapponese, capace di raccontare con scrittura scabra ed enigmatica l’impermanenza dell’essere e lo stupore per la fragilità di tutte le cose.
Da qualche tempo i libri di Bouvier – autore molto noto nella cultura francese, dov’è considerato l’ultimo degli écrivains voyageurs, erede di Segalen e Michaux – sono diventati anche in Italia l’oggetto di un culto segreto e disperso, frutto di un destino editoriale tormentato, fatto di troppe sedi diverse, ma anche di edizioni andate ogni volta esaurite.
Un nuovo libro, ospitato in una collana curata dall’Associazione alleoPoesia per le Edizioni ETS, offre ora in traduzione italiana anche le poesie di Bouvier. Si intitola Il doppio sguardo. Le dehors et le dedans ed è la sua unica raccolta, il canzoniere portatile di un’intera vita. Quarantaquattro testi, in perfetto equilibrio tra le dehors e le dedans del poeta: il fuori dei paesaggi incontrati lungo la strada e il dentro delle più remote stanze dell’anima.
Dalle opere precedenti di Bouvier – La polvere del mondo, Il pesce-scorpione, Cronache giapponesi – emergeva l’immagine di un maestro della sparizione, che nella deriva cercava un mezzo di scoperta di sé. Esperienza che tuttavia non era conquistata in virtù di un’accumulazione di saperi, quanto semmai, al contrario, per sottrazione: il viaggio inteso come faticoso travaglio (stessa etimologia di to travel…) che mette a repentaglio tutto per liberarsi dagli abiti troppo stretti dell’abitudine, per aprirsi all’incontro con l’altro.
Queste poesie mostrano come la scrittura consistesse per lui nel lento apprendistato di un’analoga arte del levare, con cui ripulire dal superfluo la voce essenziale dell’io.
Ogni passo verso il meno, amava dire Bouvier, è un passo verso il meglio.
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Bruce Chatwin, che di viaggi se ne intendeva, si trovò una volta a distinguere tra due gruppi antitetici di scrittori: quelli che per scrivere hanno bisogno di abitudini e orari fissi, e quelli che invece, quando sono a casa, non sanno nemmeno da dove cominciare, come se l’immaginazione potesse innescarsi soltanto cambiando d’orizzonte, mettendosi in cammino.
Non è difficile immaginare che tipo fosse Bouvier.
Un giorno del 1953 un amico lo invitò in Bosnia, dove si guadagnava da vivere come pittore. Bouvier, che aveva allora 24 anni, ma già lunghe scorribande alle spalle, partì su una Fiat Topolino per un viaggio senza altre mete se non quella di spingersi il più lontano possibile. Ne sarebbe tornato quattro anni più tardi, dopo essere giunto fino in Giappone, con il vanto non da poco di aver vagato per l’Oriente più lentamente di Marco Polo.
Proprio in quegli anni, dall’altra parte del mondo, Kerouac iniziava a girare in lungo e in largo l’America. Anche nei libri di Bouvier si respira un’aria beat, battuta e felice. Ma c’è dell’altro. C’è una poesia che si ostina a tessere ombre, a sottrarre peso alla lingua, per meglio lasciar presagire luci e volteggiare voci altrimenti impercettibili. Una poesia chagalliana, esile e fioca, ma sempre pronta a spiccare il volo.
La poesia, ha scritto Bouvier, è fatta di “parole del mistero, dell’affanno e dell’ombra” che ci vengono ogni tanto a visitare, come uno sciame d’api, insieme a qualche frammento dimenticato di mondo. Il silenzio si allarga così fino a diventare uno spazio da traversare, da eludere, da interrogare, “come un segno o come un presagio / di cui non si è certi di aver trovato il senso”.
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Mi sono imbattuto in questo libro quando i viaggi dei vent’anni erano ormai finiti da un pezzo. Ma ho avuto la fortuna di viaggiare tra i suoi versi, di abitarli per qualche tempo come traduttore, lasciando che passassero lentamente da una lingua all’altra.
Tradurre i libri di Bouvier, è stato detto, non è semplice, poiché la sua fedeltà a un’idea di letteratura come ostinato esercizio di “ravvivare le parole per dar loro colore” lo ha spinto verso un dizionario dell’impoverimento che non ha riscontro nella lingua di altri poeti.
È quello che accade anche in questo libro, scritto – secondo il precetto di Vladimír Holan, il poeta boemo di cui Bouvier portò con sé i versi durante il viaggio in Oriente – lungo quella sottile soglia mentale in cui si tiene “un piede ancora nel linguaggio e l’altro già nel silenzio”.
A questo linguaggio che rovescia e confonde le comuni coordinate del fuori e del dentro, del vuoto e del pieno, Bouvier attribuiva il potere di far vibrare la “musica ininterrotta” di ciò che è inatteso, imprevisto, appeso a un filo.
Queste poesie erano intese come “canzoni di un compagno di viaggio”, mediante cui trasmutare in regalo l’inverno del cuore, la malinconia, “il peso inesorabile dell’esistenza”.
Ho cercato una traduzione che fosse soprattutto un ausilio alla lettura, o meglio all’ascolto, del loro ritmo. Può darsi che la bellezza dei versi originali lasci talvolta trasparire anche in italiano un’ombra della loro melodia, della loro leggerezza.

POESIE di
Nicolas Bouvier

Novembre

Le melagrane aperte che sanguinano
sotto un’esile e pura coltre di neve
il blu delle moschee sotto la neve
i camion rugginosi sotto la neve
le faraone bianche ancor più bianche
i lunghi muri rosso persia
le voci smarrite
camminano a tentoni sotto la neve
tutta la città, fino all’enorme fortezza
se ne vola via nel cielo striato

Tabriz, 1953

Le Indie galanti

Ombelico del continente
Lieve polmone del mondo e polvere dolce ai piedi

Questa strada ha molto dalla sua
in tutte le direzioni della bussola
è spazio e eternità
savane color cuoio
avvoltoi in tondo nel cielo cannella
villaggi verdi intorno a una pozza
ritti dèi coperti di minio
e di carta argentata
città cadenti, arzigogolate
e sguardi che incrociano il tuo
fino alla nausea

Ti spingi avanti lentamente
un mese passa come niente
consulti la mappa
per vedere dove ti ha portato la deriva del viaggio
foci verde acqua aperti come palmi
bruni corrugamenti degli altipiani
i sigaretti legati a un filo rosso
costano appena cinque annas al mazzo
dove andremo domani?

Alla stazione di Bezwada
hai dormito su una panca
sentivi nelle reni il peso della giornata
dai quattro angoli della notte le locomotive
arrivavano
mugghiando come mercantili
svolazzi di madreperla sugli eucalipti

La luna salendo era così piena
e la vita così sottile
che non c’era quella sera
altra perfezione che nella morte

Sholapur, India centrale – Ginevra, 1978

Love Song III
Quando ravvivare le parole per dar loro colore
non sarà più affar tuo
quando il rosso del sorbo e il profilo delle ragazze
non ti faranno più rimpiangere la giovinezza
quando un nuovo volto tutto sbreccato d’assenza
non farà più tremare ciò che credevi saldo
quando il freddo avrà preso congedo dal freddo
e l’oblio detto addio all’oblio
quando tutto sarà foderato
dal silenzio opaco dell’agrifoglio

quel giorno
qualcuno ti aspetterà sul bordo della strada
per dirti che è andata bene così
che dovevi concludere il tuo viaggio
spoglio
del tutto spoglio

allora forse…
ma la neve caduta questa notte
sia come un dito sulla tua bocca

Da Nazione Indiana

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