Abbiamo visto “ Samba “ regia di Eric Toledano, Olivier Nakache.
Spesso i registi fanno sempre lo stesso film ( i loro sono 5 in tutto, da Je préfere qu’on reste amis del 2004 a Troppo amici del 2009 al successo internazionale Quasi amici del 2011 ), questi due registi sono l’esempio che conferma la regola. Nel precedente i due registi hanno realizzato Quasi amici, oggi girano Samba; entrambe commedie di stampo sociale alla francese, sicuramente di timbro Bo.Bo, in cui viene raccontato l’incontro tra due opposti. In questo c’è Alice, una borghese depressa e quindi chiusa in se stessa ( una Charlotte Gainsbourg ormai icona del cinema d’autore e borghese ), nel film precedente invece c’è il ricco borghese paraplegico. Si incontrano entrambi con un nero, oggi clandestino senegalese, nel precedente proletario appena uscito dl carcere e in cerca di un po’ di soldi.   Entrambi i personaggi grazie a questo incontro riescono a ritrovare il gusto della vita e un entusiasmo ormai svanito. Il nero in entrami i film é Omar Sy, questa volta in un ruolo meno sfrontato e provocatorio ma sempre determinato e con un’aureola positiva. I due registi adesso preferiscono cambiare un po’ registro, forse rendersi più credibili e sinceri, ma resta il dubbio di fondo: quanto c’è di ipocrita e di visione borghese-bohemienne in Toledano e Nakache e quanto di ingenua visone tipicamente cinematografica in cui ci vogliono fare credere che coloro che vengono dl Terzo Mondo portano modelli di vita che possono tornare utili a chi è europeo ormai nevrotico e ammalato. I due registi costruiscono con intelligenza personaggi solo apparentemente veri e sembrano costruirli a tavolino senza conoscerli, realizzando una storia in fondo patinata e di bocca buona anche quando si vedono dei poveri in attesa di lavoro saltuario o quando devono scappare da una retata o quando vengono espulsi dai centri di accoglienza. Con Samba, nonostante restino strutturalmente negli stessi perimetri narrativi del film precedente, cercano di cambiare registro e mostrano un’ambizione differente in cui ci vogliono descrivere il problema dell’immigrazione clandestina e la questione dei sans-papier, i migranti in attesa di documenti e costretti a vivere da clandestini.  Anche questa volta i due registi traggono la storia da un romanzo omonimo, questa volta di Delphine Coulin e ci raccontano una specie di favola moderna cercando di coniugare un dramma in chiave realistica e una commedia sentimentale, ma forse inconsapevolmente ci fanno due ritratti ai limiti dell’utilitaristico e dell’approfittatore: lui trova interessante lei anche perché è una donna borghese e può permettergli di non vivere più illegalmente, lei prova un’attrazione fisica per lui e non vuole che portarselo a letto per smettere di consumare tranquillanti. E alla fine entrambi riescono nel loro intento. Per la serie, e vissero felici e contenti; con le due ultime scene in cui lui cammina contento e soddisfatto uscendo dalla mensa della gendarmeria in cui fa il cuoco e lei sorride a quei colleghi che fino a qualche giorno prima ha detestato e l’hanno fatta cadere nella depressione.
La storia inizia come un dramma realista, Samba ( interpretato da uno stereotipato e fuori timbro Omar Sy che non si decide se essere un ingenuo o un furbastro imbroglione ) è un senegalese che vive a Parigi da 10 anni, lavora in una cucina di un ristorante, fa un corso per diventare cuoco e vive presso uno zio regolarizzato; ma è ancora un sans papier. Adesso rischia l’espulsione ed è stato arrestato, si rivolge agli assistenti sociali che cercheranno di non farlo partire. Una delle due assistenti è Alice ( una manager esaurita che ha momentaneamente lasciato il suo lavoro, e per ritrovare se stessa lavora come assistente sociale ). Lei è da subito attratta da lui, il giovane lo capisce e si fa dare il numero di telefono. Per un po’ i registi ci raccontano l’odissea di Samba con la burocrazia francese, con la sua fuga dal centro detentivo, con i problemi di soldi e di lavoro, con i litigi con lo zio, col portarsi a letto la donna di un amico ancora in carcere e le incertezze personali, poi il film cerca nella commedia un supporto al racconto e nella terza parte il dramma rimane sullo sfondo e la commedia prevale, conservando tuttavia un buon equilibrio di generi, ma preferendo la battuta leggera al dramma reale che si racconta: uno su tutti è quando lui e il suo amico Wilson ( un bravo Tahar Rahim, visto nel film Il Passato di Farhadi ) vanno a lavare i vetri di un palazzo dall’esterno e in questa situazione difficile vedono delle segretarie lavorare in un ufficio e Wilson si inventa l’imitazione della pubblicità della Coca Cola, facendo uno spogliarello sotto gli occhi divertiti delle impiegate.
Un film che si vede con piacere, con dei personaggi che creano empatia nello spettatore, ma è anche un’operazione furba e a volte fastidiosamente superficiale nel tratteggiare un vero dramma raccontato con convenzionalità e tocco all’hollywoodiana che rende del tutto superfluo la voglia di affrontare un dramma anche se in modo bonario.

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