“L’amore è un atto senza importanza, poiché si può ripetere all’infinito”, sentenzia lapidario André Marcueil, protagonista di Il supermaschio (1902), ultimo romanzo di Alfred Jarry. Un’epigrafe che potrebbe benissimo figurare in esergo al Casanova di Federico Fellini. È stato detto che, nella versione del cineasta riminese, l’avventuriero veneziano viene raffigurato come un atleta del sesso, un esibizionista interamente votato al culto dell’esteriorità, talmente impegnato a fare sfoggio di se stesso da trasformare la propria esistenza in un’opera d’arte (la Histoire de ma vie, autentico auto-monumento, oltre che vasto e rocambolesco “romanzo” sull’Europa del XVIII secolo). Georges Simenon, intervistando Fellini all’indomani dell’uscita del film, osservava, in modo tutt’altro che scontato: “Anche quando fa l’amore, e sa Dio quante volte lo fa, il suo Casanova è astratto. Non si toglie mai le mutande”. Un individuo per il quale l’amore fisico è performance e al tempo stesso esattezza, calcolo, precisione cronometrica: un uomo-macchina, insomma. Oltre all’astrazione burattinesca delle scene di sesso (che sconcertavano i distributori americani in visita sul set di Cinecittà: “Il film non è erotico… non è sexy”), questa doppia natura del personaggio è plasticamente raffigurata da quella sorta di talismano che il Casanova felliniano (un Donald Sutherland con la voce di Gigi Proietti) porta sempre con sé: un dorato uccello meccanico “con le alucce spiegate, la coda a ventaglio”, che accompagna come una sorta di metronomo le prodezze erotiche del Nostro.

Una macchina da spettacolo, dunque, ma di uno spettacolo molto particolare. Certo, il Settecento, oltre a essere il secolo dei Lumi, è stato senz’altro il secolo delle macchine: carillon, automi, orologi a pendolo e via dicendo, fino all’Homme-machine (1747) di La Mettrie. Eppure, la macchina casanoviana non produce assolutamente nulla, neanche gli orgasmi; è, per sua stessa natura, inutile e improduttiva. In una parola, celibe. Guardando i congressi carnali che punteggiano il Casanova, è impossibile non pensare ai marchingegni raccolti per la prima volta nel 1954 da Michel Carrouges, sulla scorta di Marcel Duchamp e del suo La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche (alias Il grande vetro). “Una macchina celibe è un’immagine fantastica che trasforma l’amore in una meccanica di morte”, scrive l’estroso saggista francese. E non è questo, in fondo, uno degli assi portanti del Casanova? L’identificazione fra l’amore e la morte è alla base della stessa concezione visiva del film: “Tutti i letti dove Giacomo esercita il sesso, nel film, hanno l’aspetto ligneo e rigido della bara”, ricorderà lo sceneggiatore Bernardino Zapponi, “Casanova è il film più sepolcrale di Fellini”. E per i più duri di comprendonio, regista e sceneggiatore mettono in bocca all’entomologa bernese Isabella (Olimpia Carlisi) le seguenti battute: “Che strano uomo che tu sei, Iacomo! Non puoi parlare d’amore senza immagini funebri. ‘La più dolce delle morti’… Ti vuoi annullare in amore… Forse che più che amare tu desideri di morire?”.

In verità, se c’era qualcuno che davvero voleva morto Casanova era lo stesso Fellini. La quantità di violenti improperi che rovescia addosso al suo protagonista è degna del Gadda antimussoliniano di Eros e Priapo: “Casanova è soltanto il recinto anagrafico di una massa di episodi, azioni, persone, materia vorticosa, ma inerte, spesso muta”, raccontava il regista ad Aldo Tassone. “Casanova è un uomo tutto esteriore, senza segreti e senza pudori… un presuntuoso, un saccente, è ingombrante come un cavallo in casa, ha una salute da cavallo, è un cavallo”. E ancora: “Uno scrittore noioso che ci ha parlato di un personaggio chiassoso, indisponente, vile, un cortigiano che si chiamava Casanova, un omaccione impennacchiato che puzza di sudore e di cipria, che ha l’ottusità, la prepotenza e la spocchia della caserma e della chiesa, uno che vuol sempre aver ragione… È uno che non ti permette nemmeno di essere ignorante, si sovrappone a tutto… Ma come si fa a stare insieme a uno stronzone così?”.

Che cosa pensare di fronte a tanta violenza verbale? A un amore mascherato da odio, come suggeriva Piero Chiara, illustre casanovista? Oppure a un odio e basta? “Lo scontro Fellini-Casanova fu uno dei più cruenti e dolorosi dell’intera storia del cinema”, racconterà Zapponi. Oggi quasi nessuno lo ricorda, ma del Casanova si parlò per almeno due anni senza interruzione. Un vero e proprio “film di carta stampata”, come l’ha definito Gianfranco Angelucci, pieno di personaggi, scontri e colpi di scena: dalle incertezze sul protagonista (Robert Redford, Michael Caine, Jack Nicholson, Gian Maria Volonté: tutti scartati in favore di Sutherland, peraltro sottoposto a massacranti prove di trucco) al balletto dei produttori (De Laurentiis, Rizzoli e infine Alberto Grimaldi), al furto dei negativi; a un certo punto sembrò persino che il film dovesse rimanere incompiuto.

 

 

Come anni prima con il Satyricon, Fellini aveva firmato il contratto senza pensarci troppo: prima la firma, poi la lettura di Petronio. Con il Casanova, però, non era scattata alcuna scintilla, e il regista se ne era ben presto amaramente pentito, arrivando al punto di paragonare l’intera vicenda a una trama kafkiana: “Un atto irrilevante mette in moto un oscuro processo, un’inevitabile condanna. Il film come punizione, come espiazione”. Al di là dell’odio nei confronti del protagonista, era l’idea stessa del film in costume a preoccuparlo: “Dal punto di vista figurativo”, spiegava ancora a Tassone, “il Settecento è il secolo più esaurito, esausto e svenato da tutte le parti. Restituire una originalità, una seduzione, una nuova seduzione, una visione nuova di questo secolo è, già sul piano figurativo, un’impresa disperata”. Fellini parla quindi di operazione “un po’ isterica” e “anticinematografica”, di “balletto meccanico, frenetico, da museo delle cere elettrificato”: una definizione che, se da una parte descrive alla perfezione il catacombale salotto parigino della marchesa D’Urfé (Cicely Brown) e più in generale quel tanto di cartoonesco e d’irreale che caratterizza il sontuoso coté scenografico curato da Danilo Donati, dall’altra ci riporta nuovamente alle nostre macchine celibi, e per la precisione al Martial Cantarel di Raymond Roussel, che in Locus solus (1914) ridà vita ai cadaveri imbalsamati, in una sorta di grottesca parodia del cinema stesso, continua rianimazione di materia inerte.

 

“Grigio ferro, marrone, verde cupo, rosso broccato, legno: tanto legno, soppalchi, travi sul soffitto, legno di bara. Questa era la gamma del Casanova”, ricorderà Zapponi. “Nell’insieme lascia la sensazione di un umido grigiore. Con qualche sprazzo d’azzurro. Federico fece una lunga scelta di luci e colori col direttore della fotografia Rotunno, e con Danilo Donati, che quasi impazzì per trovare la tinta giusta dei costumi, tuffandoli e rituffandoli in micidiali soluzioni”: uno sforzo che gli valse l’Oscar nel 1977.

Il Settecento messo in scena da Fellini è, secondo le sue stesse parole, “una zona buia, livida”: il lato in ombra dei Lumi, il secolo del Don Giovanni mozartian-dapontiano, di Sade e di Cagliostro. E puntualmente abbiamo un Casanova-Don Giovanni nell’episodio romano, che sfida il rustico cocchiere a chi “se ne fa di più” in un’ora e riduce il sesso a mero esercizio di destrezza; un Casanova-Sade nel flashback veneziano, che frusta le terga della contessa Giselda (Daniela Gatti); e perfino un Casanova-Cagliostro, dapprima nella scena della copula “alchemica” con Madame D’Urfé e poi nell’episodio del duca di Württemberg, dove l’avventuriero, “vecchio bidonista che ormai non ce la fa più” (Zapponi), si arrabatta a vendere al proprio ospite le più insulse stramberie, dai progetti per fortificazioni alle bacche di lunga vita.

 

Anche per questo il Casanova è, con tutta probabilità, l’opera più stratificata e polifonica di Fellini (Nicola Dusi ha parlato addirittura di “intermedialità espansa”). Uno sforzo di sintesi senza eguali, in occasione del quale il regista, oltrepassata ormai la piena maturità artistica (e non solo: al momento dell’uscita del film ha compiuto 56 anni), chiama al proprio fianco alcuni dei collaboratori più assidui della seconda parte della sua carriera: oltre a Donati, Rotunno e Zapponi – anima autentica e profonda, anche se troppo spesso negletta, del Fellini più “ctonio” e “gotico” – abbiamo i versi di Tonino Guerra (La Mouna, rielaborazione in chiave italo-veneta del santarcangiolese La Figa) e quelli di Andrea Zanzotto (O Venezia, Venaga, Venusia e il Canto della Buranella), messi in musica dal più fidato di tutti, Nino Rota.

 

 

Questa molteplicità di voci si appoggia su una struttura (pseudo)romanzesca particolarmente congeniale a Fellini: quella del racconto picaresco, composto di “quadri” o episodi slegati fra loro e tenuti insieme da un personaggio ricorrente. In particolare, nel Casanova, come in altre opere della maturità felliniana (La dolce vita, Toby Dammit, Fellini-Satyricon, Roma, La città delle donne, E la nave va, a suo modo persino 8 ½), il picaresco assume le forme della catabasi, della discesa agli inferi, ibridata nella fattispecie con il Pinocchio collodiano. Intervistato da Valerio Riva, il regista definisce infatti Casanova “un sinistro Pinocchio che rifiuta di diventare un bambino perbene”; altrove parlerà di “funebre marionetta”. In questo senso, il momento chiave del film è l’episodio londinese, nel quale il protagonista, abbandonato dalle due Charpillon (madre e figlia, rispettivamente Carmen Scarpitta e Diane Kurys), dapprima cerca di togliersi la vita gettandosi nel Tamigi e poi si trova a vagare lungo gli argini del fiume, che per l’occasione (siamo sul finire della Piccola Era Glaciale) ospitano padiglioni fieristici e baracconi delle meraviglie. Fra uomini tatuati e contorsioniste, un imbonitore armato di raganella richiama l’attenzione dei passanti: “The Great Mouna! La regina delle balene! […] Tutti quanti possono entrare, il ventre è ancora caldo: è una balena femmina”. Un’enorme balena imbalsamata riposa lì vicino. L’uomo si profonde in paragoni iperbolici. Di volta in volta, la Mouna è “una montagna bianca di zucchero, una foresta dove passano i lupi, la carrozza che tira i cavalli”; è “un forno che brucia tutto”, è addirittura la faccia e la bocca di Dio: “È dalla Mouna che è venuto fuori il mondo con gli alberi, le nuvole, gli uomini; uno alla volta, di tutte le razze. Dalla Mouna è venuta fuori anche la Mouna…”.

 

Proprio come il burattino di Collodi (“E io voglio andare avanti”), Casanova scende nel ventre della balena. All’interno, una lanterna magica proietta una serie di lastre disegnate dal grande Roland Topor, che raffigurano il sesso femminile sotto forma ora di minaccioso gorgo marino, ora di mostro tentacolare, ora di diabolico ghigno a denti scoperti: “una galleria teratologica”, racconterà Zapponi. In un crescendo a metà tra fantasmagoria e metafora, senza soluzione di continuità ritroviamo il protagonista in una taverna, umida e semibuia come le viscere del cetaceo. Nascosto dietro un separé, Casanova ritrova un suo amico, certo Egard, in preda ai fumi dell’oppio e dell’alcool. “Quando sono ubriaco non conosco né cielo né terra…”, esordisce, citando i versi (apocrifi?) di un fantomatico poeta cinese dell’ottavo secolo. “Tu viaggi in terre che non esistono, Egard… Anch’io viaggio molto, ma nella realtà”, lo rimprovera fraterno Casanova; ma l’amico lo inchioda, ribattendo con trasognato disincanto: “Oh, Giacomo… Ma i tuoi viaggi attraverso il corpo delle donne dove ti portano? In nessun luogo…”.

Paolo Fabbri, acuto interprete del corpus felliniano, ha dedicato particolare attenzione ai legami segreti fra il Casanova e il capolavoro di Collodi. Nella sua suggestiva lettura “parallela” del film, definito “una variante platonica del mito di Pinocchio”, parte proprio dall’episodio inglese per istituire un confronto fra alcune delle sue sequenze e altrettanti episodi del romanzo: le Charpillon, che spogliano il protagonista di ogni avere fino a spingerlo al suicidio, rimandano al Gatto e alla Volpe, Egard è una sorta di Lucignolo sotto stupefacenti, mentre i baracconi della fiera costituiscono una versione felliniana del Paese dei Balocchi. Fabbri prosegue poi indicando nell’orgia scatenata fra Casanova e le comiche veneziane a Dresda (una scena ancora una volta concepita e recitata come un congegno di macchineria barocca) una sorta di rilettura “adulta” della festa nel Gran Teatro dei Burattini; e, nell’incontro con Rosalba, la bambola meccanica (Leda Lojodice), “uno sdoppiamento di Casanova, comparabile a quello dell’ultima scena delle Avventure di Collodi: un ragazzo e il suo doppio burattino, il quale per Fellini è, ancora una volta, una donna”.

 

Il balletto finale con l’automa – e, prima ancora, l’amplesso semi-onanistico con la medesima – oltre a evocare precedenti illustri, dallo Hoffmann di L’uomo della sabbia al Landolfi di La moglie di Gogol’, passando per la Coppélia di Delibes, costituisce la perfetta conclusione della parabola immaginata da Fellini. Chiuso nello studiolo del castello di Dux in Boemia, Casanova, ormai vecchio e cadente, immagina di poter vedere Venezia per l’ultima volta. Apparentemente intriso di nostalgia, il sogno a occhi aperti assume ben presto i tratti dell’incubo: solo, sulla laguna ghiacciata e spazzata dal vento gelido come il Cocito dantesco (una “Venezia-Caina”, ha scritto giustamente Andrea Zanzotto), Casanova si ricongiunge alla bambola Rosalba sotto gli sguardi benedicenti di un Papa dal sorriso sgangherato (Luigi Zerbinati) e della mamma (Mary Marquet), già portata a cavaceci nell’episodio di Dresda. Accompagnati dal Glockenspiel della melodia di Rota, “Casanova e la bambola, le teste inclinate fino a toccarsi, allacciati in una preziosa immobilità di sortilegio […] seguitano a girare, girare, luccicanti e perduti in un buio mortale”, scrive Liliana Betti nelle ultime righe della sceneggiatura desunta del film. Da uomo a marionetta: il rovesciamento di Pinocchio è totale.

 

 

Le tracce del burattino collodiano disseminate all’interno del Casanova conducono tuttavia a un altro ordine di riflessioni; più prosaico, forse, ma certo non meno significativo. Come ha ricordato Ermanno Cavazzoni, Pinocchio era per Fellini “il libro nazionale degli italiani, con quel mentire, pentirsi, scoppiare in lacrime, sbagliare, sbagliare continuamente, avere una Fata Turchina severa ma che perdona sempre”. Pertanto, non sorprende né che il regista abbia a lungo accarezzato l’idea di trarne un film, o quanto meno uno special televisivo (L’attore, una sorta di “pastrocchio grottesco” in cui Roberto Benigni avrebbe vestito i panni del burattino, Paolo Villaggio quelli dell’Omino di Burro e di domatore del circo equestre, e Francesca Dellera quelli della Fata), né tantomeno che abbia assegnato al proprio Casanova parecchi tratti della marionetta nazionale.

“In fondo, chi è Casanova?”, si domandava il regista in una conversazione con Gian Luigi Rondi: “un figlio della Controriforma, uno che tenta disperatamente, istintivamente, con una salute da animale, di sottrarsi a una psicologia collettiva che è il frutto di una certa cultura cattolicheggiante”. Con Tassone è persino più esplicito: “È proprio un italiano, ‘l’italiano’: l’approssimazione, l’indifferenziato, i luoghi comuni, il convenzionale, la facciata, la persona, l’atteggiamento”. E ancora, rincarando la dose: “Un fascista. Una specie di anticipazione di quella tipologia rozza ed elementare soddisfatta di sé che si configura nel fascismo, cioè quell’esistere collettivo, non individuale, quell’ubriacarsi nell’azione pompieristica, scenografica, quel pensare secondo un sistema coatto di slogan generici, senza senso”. Con Casanova, Fellini ripropone la sua lettura del fascismo come “adolescenza prolungata” della nazione, già esplorata nel precedente Amarcord: “L’adolescenza nella sua parte più scadente, cioè la prepotenza, la salute, l’idealismo fanatico e ipocrita”.

Non è un caso che in quel mirabile film-saggio che è E il Casanova di Fellini?, prodotto dalla RAI nel 1975 e affidato alle cure dei bravissimi ghost director Gianfranco Angelucci e Liliana Betti, Fellini allestisca una sorta di casting immaginario, interpellando i “colonnelli” della commedia all’italiana: Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Alberto Sordi – manca giusto Nino Manfredi, sostituito per l’occasione da Alain Cuny. È un incontro più unico che raro, per un regista che, pur anticipandola (Lo sceicco bianco, I vitelloni, Il bidone), non si cimenterà mai con la commedia di costume; ma significativo: per raccontare le molte facce di un arcitaliano, Fellini non esita a ricorrere agli interpreti che quelle facce hanno portato sul grande schermo.

 

Ecco allora Mastroianni, l’attore-feticcio, sorpreso con indosso il camice medico sul set di Per le antiche scale, che ipotizza un Casanova dalla lacrima facile, sentimentale, opposto al ritratto viriloide che Fellini vorrebbe proporre per poi fare a pezzi. Ecco Tognazzi, che al Casanova globetrotter preferisce il bon vivant, il gentiluomo ingordo di cibo e di sesso: “La vera qualità del buongustaio è proprio questa: il gusto dell’insolito, dell’aberrante, del deforme…”. Ecco Gassman, raggiunto a teatro al termine d’un suo spettacolo, che, millantando una profonda conoscenza del personaggio, vorrebbe incarnarne il vitalismo e l’estro teatrale (“La teatralità… la vita intesa come rappresentazione continua… una teatralità biologica”), ma poi incespica nei vuoti di memoria. E infine ecco Sordi, “neonato feroce”, che propone un Casanova bambinesco, vagamente effeminato, celibe per vocazione (“Ahò, non s’è sposato mai!”) e all’occorrenza sottilmente crudele (la caduta fuori campo dell’anziana controfigura di Madame D’Urfé: “Aspetti signora che adesso la raccojeno… Io mica me posso piega’… me se sgarano!”).

 

Uno alla volta, i tasselli del rompicapo casanoviano vanno al proprio posto. Ha ragione Jonny Costantino a scrivere che con il suo film “dietro il bersaglio fasullo di un ’700 di plastica [Fellini] scaglia un velenoso strale civile contro le tare del bel paese degli anni ’70, ancora sessista e imburrato di vitellonità”: una critica molto più pregnante, sia detto fra parentesi, delle fumisterie pelosamente autogiustificatorie del successivo La città delle donne. Nella versione di Fellini e Zapponi, il libertino veneziano perde ogni residuo connotato storico per trasformarsi nell’idealtipo di un certo carattere italiano: da un lato il desiderio regressivo (la discesa nel ventre della balena come fantasia uterina) e l’attaccamento alla figura materna o ai suoi succedanei (la Chiesa e la mamma, come nel già ricordato finale del film); dall’altro l’irrimediabile fallocentrismo e l’auto-mitologia del grande amatore.

 

Di tale archetipo, il film descrive per lo più le miserie, i fallimenti, le delusioni: la sequenza iniziale del Carnevale di Venezia, con il testone di cartapesta che sprofonda nelle acque della laguna, quasi la metafora di una défaillance sessuale; la sconfitta nella sfida a braccio di ferro con la gigantessa Angelina (Sandy Allen); l’amore non corrisposto per la sapiente Isabella e quello impossibile per la fragile Henriette (Tina Aumont), dove per una volta il grande seduttore ci appare più vulnerabile che mai. Duramente criticato da più parti per aver messo nel film quasi esclusivamente figure femminili grottesche o abnormi (“Nella gamma che va dal deforme al bello ma luttuoso”, osservava Zapponi), Fellini avrebbe forse reso più lampante la sua critica al sempiterno maschilismo italiano se avesse incluso una scena, poi cestinata, in cui il “suo” Casanova – che possiamo immaginare misogino e larvatamente omofobo – non disdegnava un’avventura omoerotica, palesando finalmente, e in primo luogo a se stesso, la propria natura d’individuo irrisolto e represso.

 

 

Ma la critica di Fellini è assai più circostanziata; il suo bersaglio non è soltanto l’archetipo, ma ciascun maschio, in primis se stesso. Nelle ultime pagine di Fare un film (1980), lo zibaldone di interviste, dichiarazioni e appunti messo insieme dall’inossidabile coppia Angelucci & Betti, un Fellini quasi tornato in sé dopo quel lungo viaggio nell’oscurità che è stata la lavorazione del suo film, scrive così:

 

Pinocchio-Casanova è riuscito finalmente a liberarsi delle vecchie complicità, dei compromessi protettivi? È riuscito a vincere l’ostinazione a non volere, a rifiutare le chiarificazioni della sua italianità? A uscire dal soffocante sacco amniotico delle sue origini e dei suoi condizionamenti? È l’inizio di una nuova stagione? Sono interrogativi, disponibilità, bisogni confusi che mi accompagnano spesso alla fine di un film, e, saggiamente, dovrei diffidare dal trarne pronostici positivi.

 

Ora che il centenario felliniano è ormai trascorso, questa non-conclusione è forse il miglior modo di concludere. Del resto, era anche l’opinione di Fabbri, soprattutto riguardo al Casanova: questo film “fatto ma non finito” non si presta ai discorsi conclusivi, ma ci convoca tutti “in un presente a futura memoria”.

 

Riferimenti bibliografici

Claude Gauteur (a cura di), Carissimo Simenon, Mon cher Fellini. Carteggio di Federico Fellini e Georges Simenon, Adelphi, Milano 1998

Michel Carrouges, “Istruzioni per l’uso” e “Come inquadrare le macchine celibi”, in Harald Szeemann (a cura di), Le macchine celibi, Electa, Milano 1989 [I ed. Alfieri, 1975]

Bernardino Zapponi, Il mio Fellini, Marsilio, Venezia 1995.

Gianfranco Angelucci, Liliana Betti (a cura di), Il Casanova di Federico Fellini, Cappelli, Bologna 1977

Gianfranco Angelucci, Liliana Betti, Casanova rendez-vous con Federico Fellini, Bompiani, Milano 1975 (include testi e sceneggiatura dello special tv E il Casanova di Fellini?)

Nicola Dusi, La marionetta intermediale. Pinocchio e Il Casanova di Federico Fellini, in Nicola Catelli, Simona Scattina (a cura di), Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino, “Arabeschi” n. 10, luglio- dicembre 2017.

Paolo Fabbri, “Il Casanova: balena e burattini” (2011), in Id., Sotto il segno di Federico Fellini, Luca Sossella Editore, Roma 2019.

Andrea Zanzotto, Il cinema brucia e illumina. Intorno a Fellini e altri rari, Marsilio, Venezia 2011.

La testimonianza di Ermanno Cavazzoni si trova in Oriana Maroni, Giuseppe Ricci (a cura di), I libri di casa mia. La biblioteca di Federico Fellini, Fondazione Fellini, Rimini 2009.

Andrea Minuz, Viaggio al termine dell’Italia. Fellini Politico, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2012.

Jonny Costantino, Danse macabre o quadri d’esposizione. Variazioni sul “Casanova” di Federico Fellini (2005), in AA.VV., Federico Fellini. Il cinema di Federico Fellini, Collana Cultura, Ravenna 2008

Federico Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino 1980.

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