“La vita inizia con una distruzione”. Paolo Del Colle e il romanzo (al di là del romanzo) su Werner Herzog, “Il cavallo di Aguirre”

I film di Werner Herzog mi riportano alla mia adolescenza, agli anni in cui vivevo di pane e cinema (anzi, di solo cinema): passavo i pomeriggi nelle sale d’essai, le serate ai cineforum e a guardare le retrospettive curate da Vieri Razzini su Rai3 o a registrare in videocassetta i «Fuori orario» di Enrico Ghezzi. Ero drogato, bulimico, esagerato: un consumatore compulsivo di film d’autore. Herzog, in verità, della grande triade tedesca formata da lui, Wenders e Fassbinder era quello che sentivo più estraneo alle mie corde (così come Godard nella grande triade francese formata da lui, Truffaut e Rohmer), per via di quel sublime eroismo di certi suoi personaggi che mi appariva troppo vigoroso, quella tensione agonistica che avvertivo lontana dalla mia indole decisamente introversa. Ma mentre ho spesso detestato Godard, per il suo sperimentalismo esibizionista, ho invece sempre nutrito per il regista di Monaco una sconfinata ammirazione: tra i suoi eroi folli e perdenti il mio preferito, il più amato è stato senza dubbio il vampiro di Nosferatu, il principe delle tenebre, il suo film più intimo e crepuscolare (con una conturbante Isabelle Adjani), e tuttavia certe immagini di altri suoi film ancora mi vorticano nella mente, dopo tanti anni, come il finale di Aguirre, furore di Dio, o la nave nella foresta di Fitzcarraldo, o molte altre da L’enigma di Kaspar Hauser La ballata di Stroszek. Mi mancano però troppi pezzi del grande mosaico che è il cinema di Herzog: tutti i documentari, ad esempio, e l’ultima produzione fiction. È con una certa titubanza, perciò, che mi accingo a parlare dell’ultimo libro di Paolo Del Colle, che del cinema di Herzog – a cui il libro è dedicato – ha fatto una ragione di vita, conoscendolo come pochi altri in Italia. Ma poi mi son fatto coraggio, dicendomi che, in fondo, questo libro può (anzi deve) leggerlo anche chi non ha mai visto nemmeno un film del regista tedesco, perché Herzog qui funziona anche come pretesto narrativo e il libro è, allo stesso tempo, una dichiarazione d’amore e di poetica; è un dialogo (immaginario) sul concetto di «visione» e un monologo-confessione su un bilancio esistenziale.

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Intanto, il titolo: Il cavallo di Aguirre. Un incontro mai avvenuto con Werner Herzog (Castelvecchi). L’incontro mai avvenuto è quello che viene raccontato in queste pagine, dove il protagonista, l’io narrante (lo stesso Del Colle), un insegnante e scrittore che fa i conti col proprio senso di smarrimento e di inadeguatezza, in una mattina di pioggia lascia la sua casa coi suoi due gatti per recarsi in un bar di una imprecisata stazione ferroviaria dove ha appuntamento col grande e amatissimo regista – il regista che gli ha cambiato la vita – il quale gli dedicherà parte della propria giornata a rispondere alle sue domande, come se fosse una delle tante interviste che ha già rilasciato nella sua lunga carriera. Solo che stavolta non si tratta di un’intervista, ma piuttosto di un reciproco disvelamento, qualcosa che dà vita non dico a un’amicizia, ma a un rapporto umano inatteso e profondo tra i due. Così, questo «incontro mai avvenuto» scritto nel sottotitolo è un po’ come quel famoso «Ceci ce n’est pas une pipe» messo in calce al quadro di Magritte raffigurante una pipa. Un modo come un altro per avvertirci della natura «finzionale» di ogni rappresentazione, di ogni scrittura. Ma anche, al contrario, del suo destino mimetico (nel senso in cui Auerbach intendeva il realismo nella letteratura occidentale). Di conseguenza, se quello che noi lettori percepiamo è, nonostante tutto, un incontro reale, con un Herzog che è più vero del vero Herzog, è perché Del Colle è un narratore di razza, capace di restituire la verità di un personaggio che vien fuor dalla pagina a tutto tondo, combinando in un lavoro di intarsio dichiarazioni reali, tratte da documenti e interviste, ad altre (la maggior parte) totalmente inventate, senza che emerga una sola stonatura, con una fluidità e una verosimiglianza straordinarie.

Siamo, dunque, nell’ambito del romanzesco? Sì e no. Del Colle attinge chiaramente alla tradizione del dialogo filosofico (di questo si tratta, in definitiva, poiché il personaggio-Herzog discute con l’io narrante dei suoi film, ma soprattutto della vita, o meglio della sua concezione della vita alla quale lo scrittore-intervistatore oppone la propria, quasi in una sfida concettuale), ma il libro potrebbe essere anche un trattato di cinema (ci sono commenti su Fassbinder e Wenders, Tarkovskij, Truffaut e Francis Ford Coppola, e soprattutto si passa al setaccio analitico gran parte della filmografia herzoghiana, compresa quella documentaria), potrebbe essere ancora un’autofiction, o una rêverie. Il romanzesco c’è, ma serve ad amalgamare, per così dire, le tante possibilità diverse di questo testo sorprendente, che non assomiglia a nessun altro e che rappresenta, nella già notevole bibliografia dello scrittore e poeta romano, appartato e rigorosissimo, il punto più alto finora raggiunto.

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«La mia vita ha iniziato ad essere vera da una scena di un suo film: dallo sguardo del cavallo che si è allontanato dalla zattera di Aguirre – scrive Del Colle, mentre aspetta Herzog al bar –. Ho sempre sentito quello sguardo dietro di me, un commento muto dell’istante perfetto del fallimento». Il cavallo che abbandona Aguirre nel finale del film: è attorno a questo allontanamento che Del Colle costruisce la sua riflessione sul cinema di Herzog, e non solo. È forse nello sguardo dell’animale il segreto della «verità estatica» (uno dei concetti chiave della poetica di Herzog)? Di quella verità, cioè, da cogliere oltre le apparenze del «fatto», oltre il visibile? Del Colle insiste molto su questo punto: ricorda al regista i tanti animali presenti nei suoi film: cavalli, uccelli, scimmie, galline, coccodrilli, serpenti (cita le sue stesse poesie sugli animali nel cinema di Herzog, contenute nel suo libro precedente Nuda proprietà) e anche se il personaggio-Herzog a volte sembra essere riluttante nell’accogliere i suggerimenti ermeneutici del suo interlocutore, è lì che è nascosto il grumo della «lacerazione», secondo Del Colle: la «scissione originaria» è la perdita dello sguardo animale. «La pura umanità, liberata dallo sguardo animale, non può che contemplare l’orrore di se stessa», dice. Ma quand’è che abbiamo perso questa condivisione, questa capacità di guardare come gli animali? Forse al momento stesso della Creazione, laddove cioè il Creatore ha abbandonato il mondo nelle nostre mani (ricordo qui, en passant, che nella prima versione di Genesi Dio crea gli animali prima dell’uomo, mentre nella seconda versione ordina all’uomo di dare un nome agli animali per dominarli).

«La vita inizia con una distruzione»: tutto il nostro procedere avanti, dunque, è un falso movimento, o meglio è un movimento all’indietro, perché fine e inizio coincidono. Si cerca qualcosa che è già accaduto alle origini, che già si è perduto. E in questo rovesciamento narrativo, che pone l’Apocalisse in principio e non più come fine del tempo, collimano lo sguardo dei due personaggi del libro: ma se tutto è già accaduto, se l’inizio coincide con la fine, dove trovare un’immagine, una storia che salvi l’umanità? Del Colle, incalzando il personaggio-Herzog con le sue domande, ingaggiando con il regista un corpo a corpo di idee – e intanto bevendo entrambi tanti litri d’acqua al tavolino del bar della stazione – scava dentro se stesso, dentro il suo essere uomo esposto alla sconfitta e alla perdita, dentro i suoi rimpianti, il suo passato, il ricordo dei suoi morti, ma soprattutto cerca, con ammirevole coraggio, la sua verità senza infingimenti (e in questo Herzog è davvero un alter-ego, un Doppelgänger attraverso cui l’autore scopre se stesso). Vorrebbe essere un novello Enea, «l’eroe più moderno», quello che va dalla distruzione alla fondazione portandosi dietro le statuette dei Penati, o un novello Nosferatu, un vivo-morto che si porta dietro la sua bara, un uomo-animale che proprio nella sua animalità mai rinnegata può ancora nutrire una flebile speranza. Ma finisce per soccombere a un «perfetto fallimento», in un finale un po’ a sorpresa, sospeso tra realtà e immaginazione (ma qual è il discrimine? Che cos’è il reale e cosa l’immaginario?). La scrittura, sembra volerci dire Del Colle, può abitare solo in questo spazio di rischio, in questo confine labile, da dove si fa testimonianza sofferta di quella lacerazione originaria dell’individuo e del mondo. Se è vero, allora, che uno scrittore è qualcuno che cerca ostinatamente un’immagine adeguata a ciò che sta vivendo nel momento in cui scrive, un’immagine cioè che si approssimi il più possibile alla verità di quel momento, Del Colle, con questo libro, è riuscito «a rendere reale una semplice visione»: il «perfetto fallimento» ha dato esito a un grande libro, dunque, un libro della vita, che non lascia scampo (una volta entrati nelle sue pagine, non se ne esce più fino alla fine, presi in un vortice di idee, illuminazioni, visioni che può lasciare perfino frastornati), perché solo fallendo e tornando ancora a fallire ci si avvicina alla nuda essenza di ciò che siamo o di ciò cui più assomigliamo. E tuttavia, in questo spodestamento si nasconde un significato residuo e, forse, definitivo. «Ho sempre sentito quello sguardo dietro di me», scrive Del Colle parlando del cavallo di Aguirre: ecco, finché continueremo a sentire quello sguardo su di noi e finché la letteratura sarà capace di restituirci il sentore di quello sguardo, l’umiliazione a cui ci costringe, ci sarà ancora una possibilità di salvezza.

Ps: Come ci si sente a essere presenti dentro un libro che si sta leggendo e amando? È come un benefico straniamento. Ci si sente personaggi accanto agli altri personaggi, un po’ fantasmi, un po’ esseri in carne e ossa. «Andrea, Arnaldo, Fabrizio, il vostro nome ha un senso solo se non ci siete durante l’appello», scrive a un certo punto Del Colle. Essere assenti all’appello, e nonostante questo venir nominati: è questa forse l’unica forma di amore che possiamo concederci per sentirci legati davvero profondamente gli uni agli altri, in un silenzioso colloquio amicale che non smette mai, nonostante la distanza, nonostante l’assenza all’appello.

*In copertina: una scena da “Nosferatu, il principe della notte”, film di Werner Herzog del 1979

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