Il 13 maggio del 1988 Chet Baker,uno dei più grandi talenti della storia del jazz, artista tra più iconici del Novecento,veniva ritrovato senza vita, sul suolo sottostante la finestra della sua camera Prins Hendrik Hotel di Amsterdam.

Per riassumere l’impatto della musica di Baker riportiamo questa puntuale considerazione di Hakuri Murakami: “nel suo modo di suonare c’era qualcosa che faceva nascere in petto un ineffabile, lancinante dolore, delle immagini e dei paesaggi mentali che soltanto la qualità del suo suono e il suo fraseggiare sapevano trasmettere”.

Per un accenno minimo alla sua vicenda artistica e umana rimandiamo a una breve sintesi scritta per la recensione di un monologo teatrale in suo onore che attraversava le diverse fasi della sua esistenza: “la fuga dalla famiglia opprimente, i primi furti, il rapporto drammatico con l’Autorità (prima il padre, poi l’Esercito), il riconoscimento immediato del talento fenomenale, l’incontro fatidico con l’eroina,l’incisione memorabile di My Funny Valentine, l’enorme apprezzamento della critica (Down Beat lo definì nel ‘54 il miglior trombettista del mondo nonostante l’esistenza di un certo Miles Davis e il miglior cantante nonostante quella di un certo Nat King Cole), i primi problemi con gli spacciatori, l’incontro meraviglioso e drammatico con l’idolo Charlie Parker, la nuova fuga in Europa, il carcere, il ritorno tra mille sospetti in America, la pausa del ’66 col celebre e misterioso incidente ai denti, l’incontro casuale e salvifico con Dizzy Gillespie, la necessità di reinventarsi una tecnica per suonare con la dentiera, la rinascita con Concierto (assieme a Jim Hall),gli anni’80, l’incontro commovente con Elvis Costello che per lui aveva scritto Almost Blue, il ritorno in Europa, da maestro venerato eppure proverbialmente inaffidabile, schiavo della maledetta eroina”.

Consigliamo, inoltre, per approfondire, le testimonianze autobiografiche raccolte in Come se avessi le ali (minimum fax), libro imprescindibile per gli ammiratori del jazzista americano.

Al di là del fascino immediato della figura di Baker, avvolta in’aura romantica di genio e maledizione, è importante sottolineare il suo grande valore musicale. A chi potevamo chiedere di illustrarlo se non a Paolo Fresu?

Parliamo di uno dei jazzisti italiani più stimati al mondo, un trombettista che può vantare collaborazioni con artisti del calibro di Uri Caine, Michael Nyman, James Taylor, Evan Parker e molti altri.

Proprio al maestro americano, Fresu ha dedicato uno spettacolo teatrale di successo: Tempo di Chet. La versione di Chet Baker.

Ad un anno di distanza dalla prima teatrale dello spettacolo Tǔk Music (etichetta fondata dallo stesso Fresu) ha pubblicato il relativo lavoro discografico in versione LP, stampata in una lussuosa edizione limitata e numerata in mille copie. L’album doppio, che su Spotify ha superato i 6 milioni di ascolti in streaming, ha su vinile un’alta qualità (180 grammi e un master fatto ad hoc) e una doppia peculiarità: è di colore blu elettrico e ha le facciate etichettate con le lettere C H E T.

In occasione della recente ricorrenza, abbiamo chiesto a Fresu  di ricordare l’artista americano in tutta la sua grandezza.

Chet Baker è un’icona del jazz, un artista dal talento purissimo e dall’esistenza tormentata, la cui memoria è spesso ridotta allo stereotipo”genio e sregolatezza”.

Quale chiave avete scelto per raccontarlo?

In primo luogo, abbiamo pensato che fosse necessario raccontarlo in teatro. C’erano già stati alcuni reading, monologhi teatrali dedicati a lui, ma probabilmente, a livello internazionale, non era mai stato mai affrontato in un lavoro teatrale così strutturato. Chet Baker era stato raccontato ampiamente in varie forme (c’è una vastissima letteratura su di lui, ci sono anche testimonianze cinematografiche, innumerevoli omaggi musicali), ma non era mai stato raccontato, a questo livello,  in teatro.

Quando il Teatro Stabile di Bolzano mi ha chiesto se me la sentivo di gettarmi in un progetto così grande, poiché si trattava di lasciare la mia scena tradizionale per un tempo piuttosto lungo, mi sono detto: “A 58 anni, perché no?”. L’esperienza teatrale mi mancava e quindi ho accettato volentieri. Quando si è trattato di scegliere l’argomento dello spettacolo mi è venuta in mente la storia straordinaria di Chet Baker. Una storia bellissima nonostante la drammaticità che la pervade. In Chet davvero l’intreccio tra vita e arte è inestricabile, pensiamo alle svolte della sua carriera dettate da circostanze particolari come il suo arresto a Lucca nel ’60.

Primo caso di cronaca in Italia in cui un volto noto veniva coinvolto in una storia di droga…

Destò un grande clamore. Subito emerse il contrasto tra la sua vicende e la sua “Faccia d’Angelo”, tutta la sua parabola è vissuta tra questi contrasti, parliamo di un uomo che era stato definito dalla rivista Downbeat “la migliore tromba jazz del mondo” che, dopo pochi anni, si ritrovò a lavorare in una pompa di benzina…

E lì la leggenda vuole che a riconoscerlo mentre lavorava, e a riportarlo in carreggiata, fu Dizzy Gillespie, altri dicono un ammiratore…

Esatto, questa serie di aneddoti eccezionali compone una storia che meritava di essere raccontata a teatro. Da un lato mi sarebbe piaciuto raccontare solo il Chet Baker pubblico, dall’altro era impossibile non affrontare i suoi aspetti privati. Dunque, invece di fare una carrellata dei suoi pezzi più celebri, abbiamo raccolto la sfida di raccontare “la versione di Chet”, come in un racconto in prima persona, in cui il protagonista viene interpretato sulla scena da Alessandro Averone, accompagnato da sette altri attori.

Il racconto a parole dei testi di Leo Muscato e Laura Perini si fonde con la selezione musicale dal vivo, in cui vengo accompagnato da due musicisti eccezionali come Dino Rubino al piano e Marco Bardoscia al contrabbasso.

E crediamo che alla fine sia una versione abbastanza veritiera: ciò che raccontiamo non è inventato, ma è tutto quello che è stato documentato. Abbiamo provato ad omaggiarlo senza calcare la mano sugli aspetti che hanno destato più clamore della sua vicenda.

Da profano, ogni volta che incontro un trombettista pongo questa domanda: c’è una connessione tra la il talento trombettistico di Baker e il suo essere un cantante indimenticabile?

Assolutamente sì. C’è un legame forse più concettuale che tecnico, nel senso che Chet suonava come cantava e cantava come suonava. Era un tutt’uno.  Non era un grande tecnico dello strumento, ma questo non è importante. Era un artista in grado di fare con la voce tutto quello che avrebbe potuto fare con lo strumento. Questa è una prerogativa, del resto, di tutti i grandi trombettisti, pensiamo a Louis Armstrong, Dizzy Gillespie, Clark Terry.  In un certo senso cantavano anche nel loro strumento.

I trombettisti che hanno un’idea diatonica dell’evoluzione della melodia, ovvero basata su una progressione di note una dietro l’altra (tra i quali posso inserire anche me stesso) non possono che “cantare” ogni nota, poiché hanno in testa già la melodia prima di suonarla. La tromba è lo strumento che consente di portare questa melodia all’esterno, ma se uno non riesce a cantare o a fischiare una melodia, chiaramente, non può nemmeno suonarla. Se non pensi a quale nota devi suonare, anche per la tecnica stessa dello strumento, ne esce inevitabilmente un’altra. Questo porta ad avere una stretta relazione tra pensiero e progressione della melodia.

Nello spettacolo suoni anche il flicorno oltre alla tromba…

Sì, suono tutti e due gli strumenti. Suono anche la tromba con la sordina che a me è particolarmente cara e che soprattutto è stata molto cara a Chet Baker. Abbiamo utilizzato lo stesso strumentario di cui si serviva Chet. Infatti, suonava anche il flicorno, come del resto ha fatto anche Miles Davis, notoriamente,in Miles Ahead e Sketches of Spain.

Evocando Miles Davis, non possiamo non citare la famosa frase che Charlie Parker rivolse proprio a lui e Dizzy Gillespie dopo averlo sentito suonare in California: “There’s a little white cat out here who’s going to give you boys a lot of trouble”. Eppure, nonostante una malcelata rivalità, dopo la morte di Baker, Miles Davis espresse apprezzamento per il collega.

Quali erano, secondo te, i rapporti, e le differenze, fra i due?

Innanzitutto, nel nostro omaggio teatrale appare proprio Charlie Parker, che prende il giovane Chet, all’inizio della  carriera, sotto le sue ali protettive. Non conosco i rapporti diretti fra i due, non so se ce ne siano mai stati, posso però parlare dei rapporti creativi che li legano: esiste un libro per le edizioni Postcart, Chet e Miles, impreziosito da scatti straordinari di entrambi gli artisti realizzati dal fotografo romano Luciano Viti, per il qual mi sono divertito a scrivere dei testi in cui metto in relazione i due artisti.

Cito, in particolare, un brano che abbiamo anche inserito nello spettacolo, Everything happens to me, l’unico brano che nel progetto interpreto in maniera pienamente filologica, suonando il tema e imbracciando subito dopo la sordina per riproporre l’assolo di Chet. Ecco, quell’assolo secondo me è l’anello di congiunzione tra la poetica di Miles e quella di Chet: quando quest’ultimo inizia l’assolo con la sordina, sembra davvero di ascoltare il primo.

Oltre alle evidenti differenzec’erano molte somiglianze (non nella vita, per ovvi motivi): pensiamo alla composizione di Miles, alle sue lunghe sessioni di prove, contrapposte all’improvvisazione costante di Chet.

Chiaramente, Miles Davis  ha aperto tantissime porte nella ricerca musicale. Baker non ha fatto nulla di tutto questo, non ha cambiato la storia come Miles, ma il suo nome vi è scritto come quello di un grandissimo trombettista. E cantante.

Un interprete che ha lasciato una forte impronta di innovazione. In maniera diversa, possiamo dire che sono entrambi due giganti della musica moderna: se non avessimo avuto uno dei due, oggi la musica sarebbe diversa. Due figure diverse fino a essere complementari, ma con alcuni tratti in comune da scoprire.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *