Le ore, il capolavoro di Michael Cunningham, è uscito da pochi giorni in una nuova edizione per La Nave di Teseo, disponibile anche in ebook. Vi proponiamo un’intervista di qualche anno fa a cura di Claudia Durastanti, uscita sul Mucchio.

Quando Michael Cunningham fa il suo ingresso nel mondo della letteratura che conta con Una casa alla fine del mondo, ha già in mente il tema che lo assillerà per il resto della carriera: l’impossibilità di ricondurre l’innamoramento a una scelta univoca. Che si tratti di ragazzi coinvolti in uno struggente triangolo sentimentale, di madri incapaci di suicidarsi o di scrittrici ossessionate dal mancato capolavoro, i suoi protagonisti sembrano sempre sul punto di confessare: «Non posso scegliere, sceglierò». Quello che non dicono mai è: «Non potevo scegliere altrimenti».

Non fosse così, Cunningham sarebbe noto come un autore particolarmente bravo di romanzi di formazione per giovani omosessuali, con una singolare infatuazione per Virginia Woolf.

Il dubbio, il tormento e le energie spese a difendersi dalla morte – persino quando il corpo sembra dichiararne l’ineluttabilità – salvano i personaggi di Cunningham dal baratro del particolare anche quando l’autore forza la mano (Giorni memorabili) o si lascia prendere dalla stanchezza (Al limite della notte).  Questa è una delle ragioni per cui vale la pena seguire le tracce di un uomo che ha iniziato a scrivere storie per gli amici che stavano scomparendo, che è diventato famoso con un romanzo su donne domestiche ma non addomesticate e che oggi scrive libri semplicemente per l’ansia della bellezza.

Sono passati quasi vent’anni da Una casa alla fine del mondo. Cosa ti distanzia maggiormente dall’autore che eri a quei tempi?

Se fai lo scrittore, una parte consistente del tuo mestiere consiste nel cercare di fare progressi man mano che la tua carriera va avanti. L’intera vita di uno scrittore implica la volontà di imparare a costruire delle storie, al punto tale che quando morirai non sarai ancora sicuro di aver capito come si fa. Credo che ogni mio romanzo sia leggermente migliore del precedente, anche se non tutti la pensano allo stesso modo.

Nessun incidente di percorso?

Dopo il sorprendente successo di Le ore sapevo bene che un certo numero di critici e di lettori avrebbe odiato il mio libro successivo, a prescindere da qualsiasi cosa avessi scritto. È una circostanza che mi dava sui nervi, poi mi sono imposto di lasciar perdere. Sapere che qualcuno ti detesta ma lo fa a priori è davvero liberatorio.

Eppure dopo Le ore hai scelto di rischiare: Giorni Memorabili porta in vita Walt Whitman quasi come il romanzo precedente portava in vita Virginia Woolf. Hai prestato il fianco ad accuse di ripetitività e stasi creativa.

In realtà l’intuizione alla base di quei romanzi è nata contemporaneamente, ho semplicemente deciso di lavorare prima su Le ore. Sapevo fin dall’inizio che avrei pubblicato due libri destinati a coinvolgere gli scrittori che fanno maggiormente parte della mia coscienza. Così come so che non ce ne sarà un altro sulla stessa scia, è da considerarsi un esperimento chiuso.

Anche se Al limite della notte non può fare a meno di chiamare in causa un altro grande maestro come Thomas Mann. Come e quando ti sei innamorato di questi autori?

Ho scoperto Virginia Woolf quando ero relativamente giovane, avevo circa quindici anni. Non riesco a spiegare l’effetto che ha avuto su di me; non ero uno studente particolarmente diligente e qualcuno mi ha costretto a leggere Mrs Dalloway. Non avevo idea che i nostri sensi potessero essere analizzati in quel modo, che con semplice carta e inchiostro qualcuno sarebbe stato in grado di riprodurre la nostra sensibilità in tutte quella complessità muscolare. Ricordo di aver pensato che Woolf faceva con il linguaggio quello che Jimi Hendrix stava facendo con la chitarra, entrambi erano capaci di creare dei riff che alla fine sboccano in una trama definita. Ha stravolto qualsiasi idea preconcetta su cosa la letteratura potesse essere, per me, e mi ha spinto a voler leggere tutto prima ancora che a scrivere.

Virginia è stata il mio primo bacio, anzi, con lei ho perso la mia verginità e probabilmente sono l’unico ad averlo mai fatto (ride). Non era particolarmente nota per la sua frenesia sessuale, mettiamola così. Anche se non sappiamo quante relazioni abbia avuto –non esistono cenni storici a tal proposito – e se la sua passione per gli uomini sia stata effettivamente consumata o meno, Whitman era invece un autore decisamente sensuale. Mi sono imbattuto in lui mentre ero al college, stavo leggendo Foglie d’erba quando sono stato fulminato da un passaggio in cui Whitman afferma che le sue parole lo renderanno vivo ogni volta che verranno lette da qualcuno, quando scrittore e lettore si trovano da soli nel cuore della notte. Lì, per la prima volta, ho intuito la capacità della letteratura di trascendere la mortalità, di come sia in grado di eliminare il tempo e protendersi lungo i secoli connettendo il lettore a un momento che resta vivo a prescindere dalla sua distanza.

Thomas Mann è arrivato molto più tardi: a quel punto avevo già dichiarato la mia omosessualità e i miei amici gay continuavano a prestarmi libri come Dancer from the dance di Andrew Holleran o La statua di sale di Gore Vidal che non mi entusiasmavano affatto. Non trovavo che fossero un granché, non mi sembravano particolarmente profondi, così ho pensato che se quella era la letteratura gay non ne avrei fatto parte. Poi ho letto La morte a Venezia che non è esattamente un romanzo gay quanto un’indagine sulla sensualità e l’ossessione per la bellezza attraverso la fascinazione per un giovane uomo. Se un vecchio omosessuale represso come Thomas Mann poteva fare grande letteratura a partire da un’attrazione omoerotica allora sarei stato un autore gay anch’io.

Peter, il protagonista di Al limite della notte, sembra affascinato dalla conquista della bello e della gioventù piuttosto che da una relazione omosessuale. La bellezza è solo di chi non è stato ancora corrotto?

Ero assolutamente intenzionato a parlare di un personaggio genuinamente eterosessuale, non volevo scrivere un altro libro a proposito di persone gay che scoprono di essere tali. Il bello è accessibile a chiunque, ma è ovvio che i giovani vivano la bellezza quasi come una dimensione elitaria, sono le loro speranze e il loro ottimismo a fare in modo che le cose stiano così. In realtà la bellezza non è una cosa di cui ti avvedi spesso, quando sei ragazzo: a vent’anni avrei voluto fare sesso con metà della popolazione mondiale e diventare uno scrittore famoso, non avevo tempo per la contemplazione.

Una delle accuse rivolte più frequentemente a Virginia Woolf è che fosse incapace di andare al di là della sua classe sociale, la sua attenzione si concentra quasi esclusivamente sulla media borghesia colta. Qualcuno potrebbe dire lo stesso di te a proposito della tematica queer, dell’indugiare sulla malattia.

È per questo che con Al limite della notte ho deciso di fare un passo in avanti, sottoponendomi a uno sforzo creativo non indifferente. In realtà è necessario che ci sia sempre un grado di familiarità con quello che scriviamo; sono riuscito ad affrontare il matrimonio di una coppia eterosessuale di mezza età proprio perché ho avuto delle fidanzate per anni, avrei dovuto persino sposarmi. Ragion  per cui non è come se stessi scrivendo di sesso tra alieni o non riuscissi a immaginare quanto si possa amare un membro del genere opposto. Come prima cosa, ti dedichi al libro che ti interessa di più in quel momento e a me interessa soprattutto non scrivere lo stesso romanzo due volte.

Alcuni critici hanno una concezione molto fredda della letteratura e tendono a pensare che un autore sia in grado di anticipare il proprio capolavoro o quantomeno di esserne estremamente cosciente in fase di scrittura. Quanto eri innocente mentre scrivevi Le ore?

Totalmente innocente. Autori come Joyce o Melville erano estremamente consapevoli del loro essere in mezzo a un capolavoro, ne parlavano tutto il tempo, Joyce soprattutto. Virginia Woolf, invece, era tormentata dal dubbio.

Qualcuno direbbe che non ci è mai arrivata, al suo capolavoro.

Secondo me sì, e chi le nega questo status probabilmente soffre di misoginia, che ne sia consapevole o meno. Sono gli stessi critici convinti che le donne che scrivono di altre donne non possano aspirare alla grande opera.

Gli stereotipi sulla letteratura al femminile sono sempre noiosi. Credi che se fosse stata una donna a scrivere Le ore il libro avrebbe fatto tanta notizia, a prescindere dall’eccellenza della scrittura?

Me lo sono chiesto spesso, ancora oggi molte donne sono entusiasmate dal fatto che sia stato qualcuno dell’altro sesso a scriverlo e continuano a chiedermi come ho abbia a parlare di loro in maniera così intima e dettagliata. Probabilmente ci avrebbero fatto meno caso se fosse stato il contrario. Tornando all’innocenza, ci sono tante ragioni per cui una persona affonda nel mondo della scrittura. Io volevo che i miei primi libri fossero accessibili; all’epoca eravamo nel pieno dell’epidemia dell’Aids destinata a colpire soprattutto gli omosessuali bianchi, mentre oggi è una malattia di seconda fascia in quanto pressoché confinata in Africa. Alcuni dei miei amici erano gravemente malati e volevo scrivere un romanzo in cui potessero riconoscersi; molti di loro non erano lettori sofisticati e io volevo che i miei libri fossero decenti ma soprattutto comprensibili per chi non masticava letteratura. Le ore avrebbe dovuto essere un episodio minore, il mio piccolo romanzo artistoide destinato a scomparire in fretta. Sia il mio editore che il mio agente credevano che sarebbe stato un mezzo fallimento: non potevo essere più innocente di così.

Probabilmente ormai non lo sei più.

Da un lato ne sono stato totalmente travolto. Quando hanno annunciato la mia vittoria al Pulitzer sono stato euforico per due giorni e depresso per sei mesi per ragioni che non riesco del tutto a capire. Forse è stata tutta quell’attenzione, mi ha semplicemente steso. Uno dei vantaggi nel raggiungere il successo a una certa età – dovevo avere quarantacinque anni all’epoca – è che non pensi a te stesso come a un genio, come tenderesti a fare se solo fossi più giovane. Il fatto che non mi fossi allontanato da quella che era stata la mia carriera per oltre vent’anni e che improvvisamente tutti mi stessero prestando attenzione dimostra solo quanto il mondo dei lettori sia imprevedibile.

Jonathan Lethem parla di estasi dell’influenza laddove Harold Bloom insisteva sull’angoscia dell’influenza. Ho sempre pensato che tu ti collocassi in una posizione intermedia rispetto a queste due pulsioni, che fossi capace di amare un autore quanto di spodestarlo proprio condannandolo a una seconda esistenza.

Gli scrittori che diventano protagonisti dei miei libri sono una parte indelebile della mia coscienza. I libri hanno il potere di riconfigurare il cervello di un lettore serio alterando il mondo in cui vede il mondo e soprattutto il modo in cui lo abita; gli autori che amo fanno parte del tessuto della mia vita come ne possono far parte una relazione finita male o un padre brutale. Non posso non scriverne.

La letteratura collassa nella vita di un individuo e viceversa: è un po’ a quello che succede a tua madre e a Virginia Woolf.

Mia madre ha salvato Le ore da una fase di stanca della scrittura, non riuscivo ad andare avanti con il libro. A un certo punto ho realizzato quanto lei e Virginia Woolf fossero simili: mia madre era ossessionata dall’ideale di una casa perfetta allo stesso modo in cui l’autrice di Mrs. Dalloway era costantemente alla ricerca, fino a restarne del tutto stremata, del racconto perfetto. Woolf voleva scrivere grandi romanzi e mia madre produrre torte impeccabili, entrambe erano tormentate dalla devozione a un progetto impossibile. Il loro sforzo richiede la stessa attenzione e lo stesso rispetto, come quello dovuto a chiunque si impegni a essere migliore di quanto non sia già, per quanto si tratti di un progetto assurdo o potenzialmente suicida.

Invecchiare, per uno scrittore, significa fare sempre più affidamento ai ricordi e meno alla strada. Come te la cavi in questo?

Credo di avere una presa ancora molto forte sulla vita, spero di non illudermi su questo, il mondo mi appassiona sempre di più, mi coinvolge. E’ una forma di sensibilità che non ho perso. Certo, c’è un senso di tragedia e un fardello che non avevo a venticinque anni, le persone che mi circondano iniziano a morire. Ma sono ancora innamorato della quotidianità o della musica, per esempio. E poi ho molti amici giovani e c’è internet, i due migliori alleati per un vecchio fanatico di dischi come me.

C’è chi crede che la letteratura possa contribuire ad apportare miglioramenti al mondo, altri che ne fanno solo una questione di estetica. Credi che il senso dei tuoi libri sia quello di salvare l’esistenza ordinaria di una persona, almeno per un giorno?

Credo che un buon romanzo ci faccia sentire meno soli e ci aiuti a vivere in un mondo più esteso. In generale, riesco a trarre da un buon libro lo stesso conforto che traggo dalla relazione più che ventennale con il mio compagno: non impartiamo più lezioni l’uno all’altro, ma complichiamo le nostre reciproche visioni. I romanzi sono ineluttabilmente politici anche se hanno una base estremamente individuale; un buon racconto è il metodo più efficace che esista per stabilire empatia con un altro essere umano e fa sì che il lettore ne esca fuori con una coscienza leggermente alterata, con la capacità di immaginare cosa possa essere la vita di un individuo totalmente diverso da lui. E se un numero sempre maggiore di persone intuisce cosa significa essere un altro, ci sono meno probabilità che qualcuno sia disposto a far saltare i propri vicini di casa in aria.

Torniamo agli inizi. In Una casa alla fine del mondo Jonathan afferma “Non direi che ero felice, non era così semplice […] Non c’era nulla di straordinario in quel momento. Ma lo avevo, lo avevo completamente. Mi abitava”. Sbaglio io a pensare che tutti finiscono con il sentirsi così con i tuoi libri?

Uno dei miei doveri come scrittore è insistere che le cose siano complicate: l’amore è complicato, il sesso è complicato, il solo andare a cena con qualcuno è complicato. Anche se non ne ero del tutto cosciente, quando ho fatto sì che Jonathan dicesse quelle cose stavo pensando all’ossessione tutta americana per una certa idea di felicità, a questa forma di devozione che spesso ti rendere solo miserabile. Sono un essere umano come gli altri, e anch’io aspiro alla felicità. Ma, presa da sola, non saprei che farmene: voglio l’esperienza completa. Datemi la luce, ma datemi anche il buio.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *